Per Patrizia Cavalli
di QUOD LIBET, UNA VOCE (Giorgio Agamben)
Sono passati ormai due mesi dalla morte di Patrizia e tuttavia, anche se mi è accaduto di sognarla, parlarne no, non mi è facile. Due mesi – che sono due mesi rispetto a più di mezzo secolo di ininterrotta dimestichezza? Stanotte in sogno eravamo con altra gente a casa sua all’angolo fra il Biscione e il Paradiso – fra il peccato e la salvezza – quella casa che conosco come fosse la mia – e a un certo punto mi avvicinavo a Patrizia adagiata su un letto o un divano e scrutavo il suo volto come se si fosse in esso fissata la sua ultima verità. L’ultima verità: pretesa contraddittoria, che Patrizia era troppo vera per accettare e contro la quale inscenava il teatro, il sempre aperto teatro di cui si è tanto, anche troppo parlato.
La casa di Patrizia – ma è davvero possibile separare Patrizia dalla sua casa, quella casa che scomparirà ora per sempre insieme alle mille cose che la riempivano, cianfrusaglie o oggetti meravigliosi che erano il mondo di Patrizia – erano, cioè, in qualche modo Patrizia, perché il mondo, il corpo e la mente non si possono separare. E forse è bene che quella casa e quel mondo non sopravvivano a Patrizia, sono morti con lei e senza di lei non potrebbero più parlarci.
La posizione di amico di un poeta è imbarazzante. Se, da una parte, l’intimità suggerisce la pretesa di una conoscenza incomparabilmente più profonda di quella di un lettore comune, dall’altra basta lasciar fare al tempo e quella pretesa rivela la sua assoluta inconsistenza. Se quel poeta continuerà a essere letto due, tre secoli dopo, chi si confronterà con la sua opera non sarà certamente in alcun modo in posizione inferiore rispetto all’amico ormai scomparso, tutt’altro. Per questo il gesto di quei critici che rivendicano la loro intimità con l’autore risulta quanto meno pretestuoso. Si può dire, cioè, dell’amico del poeta – in questo caso di me rispetto a Patrizia – quello che ho appena detto della sua casa: è bene che scompaia con lui, la sua testimonianza rischia di essere fuorviante rispetto alla sola cosa che finirà col contare: l’opera scritta.
Tuttavia, tuttavia… Forse quella testimonianza destinata a cadere non era irrilevante, come non erano quantité negligeable la casa e gli oggetti di cui il poeta amava circondarsi. Erano forse anzi così importanti, che proprio per questo dobbiamo lasciarli cadere. Come il volto e il carattere del poeta, il suo modo di camminare e di stare in piedi, la sua voce, i suoi irrefutabili, inconfondibili gesti. Così importanti, che nella sciagurata selezione che ogni tradizione è costretta a operare se vuole essere efficace, non se ne può tener conto. Nei manuali di storia della letteratura non c’è posto per la voce, per il gesto di Patrizia, per le mille, preziose inezie che riempivano la casa del Biscione. E quando, come pure accade, la casa del poeta diventa un museo, le cose diventano oggetti consegnati per sempre in articulo mortis alla loro defunta identità. Se non sono più importanti per lui, come potrebbero importarci?
Della sua casa, della sua affabile e scorbutica reggia la sala del trono era certamente la cucina. La leggenda dei pranzi di Patrizia, che è stata tante volte chiosata, è tutt’altro che una leggenda aurea. Le piaceva davvero cucinare? Amava davvero mangiare? L’avidità, a prima vista una delle sue passioni dominanti, non era rivolta al piacere, era, piuttosto, un affranto risarcimento, uno scotto pagato per l’immancabile insoddisfazione di ogni suo desiderio. Per questo in cucina Patrizia non aveva nulla della feroce meticolosità dei cuochi. Ammesso, come “dottore della pasta”, in quel sancta sanctorum, l’ho sempre vista muoversi ai fornelli rannuvolata e impaziente, metà sollecita e metà distratta, come se le mancassero ogni volta le stoviglie e le pentole, quasi dovesse costantemente rimediare a un guasto o a una tara. Tanto più sorprendente l’eccelsa, scontata bontà di un risultato che pareva così aleatorio.
Perché Patrizia conosceva così bene l’amore? Perché la sua poesia è da cima a fondo un mare amoroso? Perché non si amava, perché sapeva che è per via della nostra impossibilità di amare che siamo condannati all’amore. L’io singolare proprio mio di cui sembrava, per non confondersi, ininterrottamente parlare, quell’io, “fosse mammerda e fosse anche cacazzo”, mezzo grammaticale e mezzo carnale, Patrizia se lo portava addosso come un’insufficiente, avida espiazione per la sua incapacità di amarsi e di amare. Per questo, come Elsa, alla fine Patrizia ha smesso di provarsi a espiare una colpa non commessa e, con la complicità dei medici, come Elsa si è lasciata scivolare nella malattia e nella morte. E come Elsa si rendeva impossibile l’amore amando fino alla follia uomini che non potevano ricambiarla, lo stesso faceva Patrizia con le sue mamme. Eppure, finché il suo corpo preistorico e la sua mente primordiale l’hanno sorretta, Patrizia ha scritto il più fanatico, pignolo e mordace canzoniere amoroso del novecento. E, proprio come in Elsa, la tragedia e la commedia, che parevano così insaziabili, cedono alla fine il posto a un gesto infantile – per questo, limpido, quasi sereno. Una cuffia turchina ritrovata come un regno o una di quelle tante sciarpe e foulards che Patrizia, nel suo esausto tragitto da una stanza all’altra, lasciava cadere su una sedia o sul pavimento.
Giorgio Agamben
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