Decostruire l’immagine, liberare la memoria
di I DIAVOLI
*12 ottobre 2022
La nave arenata nel canale di Suez, la video-lezione dell’insegnante di aerobica con alle spalle i carrarmati e il colpo di stato, lo sciamano all’assalto del Congresso americano. Viviamo una contemporaneità in cui la nostra memoria è ormai quasi interamente costituita da un accumulo seriale e delirante d’immagini. Indagandone sorti e contraddizioni, ricostruisce e spiega questo stato dell’arte Mattia Salvia nel suo libro “Interregno: Iconografie del XXI Secolo” (Nero Editions, 2022).
*Il libro sarà presentato dall’autore venerdì 14 ottobre h.21 @Brancaleone (via Levanna 13 | Montesacro | Roma) insieme a Leonardo Bianchi.
Guerre, rivolte, attentati terroristici, lupi solitari, crisi economiche, crisi energetiche, crisi finanziarie, allevamenti intensivi, distruzione dell’ecosistema, pandemie. Navi che si mettono di traverso nel canale di Suez e interrompono la catena della logistica globale.
Abitiamo tempi un poco difficili, non c’è dubbio. E non c’è modo di comprenderli, e forse non ha neppure senso volerli comprendere. O forse, il non poterli comprendere è proprio quello che si augura un tardo capitalismo in cui i rapporti di produzione e il grado di accumulazione sono definitivamente slegati da qualsiasi ordine anche solo ipotetico o ideologico.
Stiamo distruggendo l’unico pianeta che possiamo abitare, per dirla con parole semplici. E lo stiamo facendo nel peggiore dei modi possibili.
Quindi alla fine non importa se viviamo nella timeline giusta o nella timeline sbagliata, come si chiedeva Matrix e come si chiede oggi Mattia Salvia – inventore di uno dei progetti più interessanti della rete con Iconografie del XXI Secolo e adesso anche autore del libro Interregno: Iconografie del XXI Secolo (Nero Editions) –, importano molto di più gli strumenti che Mattia Salvia ci offre per analizzare il presente.
E quindi comprenderlo.
Anche perché, come giustamente l’autore nota, viviamo in una delle varie e innumerevoli crisi sistemiche del capitalismo. Come scrive Giovanni Arrighi, una delle ancore più presenti – e con ragione – in questo naufragio nel delirio della contemporaneità. Si potrebbe anzi dire che la crisi stessa sia la famosa struttura del capitale. L’unica che ne permette la persistenza in un modello altrimenti destinato all’evaporazione. E infatti è già stato detto anche questo.
Quello che importa, quindi, è raccontare il contemporaneo con gli strumenti della macchina potere, gli unici che ci possono permettere di decifrarne gli ingranaggi e di poterli sabotare. E qui Mattia Salvia non ha dubbi. Partendo dal presupposto che, come gli autori di The End of The End of History citati nel testo, «i movimenti del XXI secolo sono ricordati non tanto per i manifesti che hanno prodotto, quanto per i video che li raffigurano». Ecco che la macchina del potere è la macchina da presa, e questa agisce attraverso l’immagine.
Così lavora su Instagram il progetto Iconografie del XXI secolo. E così lavora il libro che di questo progetto è libretto delle istruzioni, compendio e superamento. Partendo dal lavoro critico di Guy Debord e Jean Baudrillard, che individuano nell’immagine e nel segno non solo gli unici aspetti di (iper) realtà con cui abbiamo a che fare e che ci è dato conoscere, ma anche e soprattutto il cuore della politica economica di questo tardo capitalismo, Mattia Salvia ci sottopone infatti a un bombardamento letterario di immagini e segni che sono “la cura Ludovico” cui ci sottoponiamo consapevolmente ogni giorno.
Incapaci di discernere il reale dall’immaginario e viceversa. O come scrive Debord, immersi per e contro la nostra volontà in quel tempo pseudociclico che è il tempo spettacolare, ovvero «il tempo della realtà che si trasforma, vissuto illusoriamente». Se paragonato al tempo ciclico della modernità che era «il tempo dell’illusione immobile, vissuto realmente».
Quindi, pur leggendo decine di libri sull’argomento, non potremo mai sapere con certezza chi è Donald Trump, ma non riusciremo mai a sottrarre alla nostra memoria, a smagnetizzare o a spixelare, la figura dello Sciamano che il 6 gennaio del 2021 guida la più grottesca delle rivolte in Campidoglio. E ovviamente, nel tempo dell’illusione il grottesco non è meno pericoloso del reale. Anzi.
Uno sciamano che pur essendo una delle infinite messe in scene delle maschere del carnevale che da secoli ci accompagnano, ha però uno scarto. Come nota Mattia Salvia, infatti, se «infiniti servi imbroglioni hanno contribuito a creare la maschera di Arlecchino, è la maschera dello sciamano a creare infiniti sciamani».
Questo è il punto. Se non a una ristretta cerchia di “appassionati”, a nessuno dice nulla il nome di Jacob Chansley / Jake Angeli, ma tutti ricordiamo la sua immagine. Come dell’ultimo (o penultimo, è facile perdere il conto) colpo di stato in Myanmar non ricordiamo più il nome dei generali. Ma non possiamo fare a meno di pensare al video in cui un’insegnante di educazione fisica tiene la sua video-lezione di aerobica nella piazza principale della capitale mentre dietro di lei si muovono i carrarmati che, altrettanto sudati, segnano il cambio d’ora del regime.
E così via, attraverso mucche che indossano visori per la realtà virtuale, lupi solitari stragisti che si trollano tra loro, maschere del cinema che appaiono nelle rivolte, frammenti d’immagine falsi che sostituiscono la presunta verità dell’immagine totale intera, meme talebani, shitposting diplomatici, l’autore ci accompagna con pazienza attraverso l’inferno della contemporaneità.
Un inferno fatto d’immagini e anche di segni, perché la parola in tutto questo non è certo sparita nel nulla. Che il linguaggio segni i limiti della nostra conoscenza o ci apra squarci sull’illimitatezza del nostro inconscio, poco importa. Quel che importa è che una parola di sette lettere come «covfefe» abbia ormai assunto un significato planetario paragonabile a quelli di “guerra”, “pace” o “libertà”.
Qui in particolare il significato è il «fare un po’ tutto quel che ci pare», per citare il profetico Corrado Guzzanti della Casa delle Libertà. E lo stesso fa una parola di sei lettere come «stonks» diventata onomatopea dell’assurdità della crisi dei mercati finanziari, o meglio dell’assurdità dei mercati finanziari di per sé.
Perché se alla fine sulla politica economica del segno e dell’immagine si discute da quasi un secolo, i passi successivi che fa Mattia Salvia sono l’operazione più interessante di tutto il libro. Che grazie a questo non si limita a essere una semplice fotografia (immagine) dell’esistente, ma si trasforma in uno strumento per farlo deflagrare. Unica speranza per poter costruire qualcosa di diverso.
Come già raccontava la caverna platonica un paio di millenni fa, è evidente la nostra incapacità di accumulare memoria e il nostro ricorrere a dispositivi esterni. Da cui la famosa definizione di memoria protesica di Alison Landsberg, che riprendendo Jacques Lacan trasporta la memoria e le sue immagini non più nel regno separato dell’inconscio ma in quello altrettanto separato della macchina che la contiene, sia essa una pellicola cinematografica, una macchina fotografica digitale o un archivio esterno da 1 terabyte.
Queste immagini, ci ricorda il progetto di Iconografie, non sono più la nostra memoria. Ma sono allo stesso tempo l’unica memoria disponibile che abbiamo. Che è tutto fuorché una memoria collettiva organizzata dal basso, ma il frutto di un sistema di potere caoticamente organizzato intorno all’accumulazione di immagini. E non essendo più nostre, non avendo più memoria, potremo solo farci contemplare da loro e non potremo mai usarle come strumento di rivolta.
L’ulteriore passo successivo è il penultimo capitolo: “L’apocalisse non sarà fotografata”. Parafrasi della celebre canzone di Gill Scott-Heron: The Revolution Will Not Be Televised. Dopo aver raccontato, ribaltato, frammentato, condiviso e memato tutta una serie di immagini che ci hanno bombardato in questi ultimi anni, davanti all’immagine più potente di tutte, il pianeta che collassa, siamo costretti a fermarci.
Ma non ci fermiamo per la paura, il terrore, la colpa o la responsabilità. Ci fermiamo perché qui, nonostante le altre fossero veramente assurde, proprio queste immagini non riusciamo a percepirle come vere. E la spiegazione è molto semplice, è una spiegazione tecnica. I nostri dispositivi non sono tarati per l’apocalisse. Le nostre telecamere, i nostri smartphone, sono settati per la luce media dell’immagine dello spettatore occidentale.
Un po’ come successe negli anni Settanta quando il cinema della blaxploitation utilizzò pellicole giapponesi, uniche in grado di restituire il colore non distorto della pelle nera. Solo che – almeno per adesso – nessuna multinazionale ha prodotto sensori ottici dedicati all’apocalisse. Quindi le immagini delle foreste, dei fiumi e dei mari in fiamme sono inevitabilmente tutte virate al rosso. Sembra che abbiano dei filtri. Che non siano vere.
Solo davanti alle immagine più reali e più terribili, e solo per cause tecniche, mettiamo in dubbio la realtà del tempo illusorio e pseudociclico in cui viviamo. E qui, forse, nel più assurdo dei paradossi di quest’epoca assurda e paradossale, possiamo recuperare quel disincanto marxiano che, l’autore alla fine si augura, ci può servire per ribaltare i rapporti di forza e di produzione tra le immagini macchina e i suoi ingranaggi spettatori umani.
Fonte: https://www.idiavoli.com/it/article/decostruire-limmagine-liberare-la-memoria
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