Da Dogali ai Mille passando per La Russa
di DOPPIO ZERO(Mario Barenghi)
E voi lo sapete, perché Piazza dei Cinquecento si chiama così?
Da un po’ di tempo rivolgo questa domanda a amici e conoscenti. Nessuno sa rispondere. Eppure si tratta del luogo dove sorge la Stazione Termini, il più importante scalo ferroviario della capitale italiana. Purtroppo di solito non facciamo caso ai nomi delle strade, e in generale alle iscrizioni pubbliche, ai monumenti, ai contrassegni storici lasciati sugli ambienti che frequentiamo da chi ci ha preceduto. È un peccato, perché questi dati ci possono rendere edotti di orientamenti analoghi, visibili no, ma spesso ben vivi e operanti, impressi sulla mentalità collettiva. E a questo proposito sarebbe davvero lodevole l’editore che si prendesse la briga di tradurre l’opera del sociologo americano James W. Loewen, mancato lo scorso anno, quasi ottantenne (era nato nel 1942 nell’Illinois): in particolare, il volume Lies Across America. What Our Historic Sites Get Wrong, uscito nel 1999 (The New Press, New York), uno dei libri più istruttivi che mi sia capitato di leggere negli ultimi anni.
Piazza dei Cinquecento, dicevamo. Prima si chiamava Piazza di Termini; cambiò nome per onorare i caduti della disastrosa battaglia di Dogali, la località dell’Eritrea, non lontana da Massaua, dove le truppe coloniali italiane furono sopraffatte il 26 gennaio 1887 dall’esercito comandato dal ras Alula. Perse la vita anche il tenente colonnello Tommaso De Cristoforis, che venne insignito della medaglia d’oro al valor militare per il modo in cui seppe resistere a forze superiori («soverchianti» l’aggettivo topico). Inutile dire che il tondo numero 500 – esito di un arrotondamento non esiguo: a Dogali, fra soldati e ufficiali, morirono in 435 – evocava indirettamente i Mille di Garibaldi, ben altrimenti presenti nella toponomastica nazionale. Per ricordare quel non felice episodio venne anche edificato un monumento, recuperando un obelisco di granito rosso, eretto a Heliopolis da Ramsete II nel XIII secolo a.C. e portato a Roma ai tempi dell’imperatore Domiziano. Non tutti, peraltro, approvarono l’idea di celebrare una sconfitta. Giosuè Carducci, ad esempio, si rifiutò di comporre un’ode per l’occasione; né, in prospettiva, una battaglia perduta poteva far gioco alla retorica del regime fascista. Così fu che nel 1925, approfittando di un intervento urbanistico, il monumento, opera dell’architetto Francesco Azzurri, venne dislocato poco distante in una posizione assai più discreta, in via delle Terme di Diocleziano, oggi viale Einaudi. E lì è rimasto, appartato, quasi nascosto; notato quasi da nessuno.
La storia di Piazza dei Cinquecento è abbastanza rappresentativa di alcuni aspetti non banali della coscienza nazionale. Uno l’abbiamo già sfiorato: la controversa decisione di erigere un monumento che commemorava una sconfitta. Senza dubbio tale scelta era legata a molteplici istanze: prima fra tutte, quella risarcitoria, la medesima che dopo i massacri spaventosi della Grande Guerra portò non solo l’Italia a glorificare le vittime con sacrari, monumenti, epigrafi, viali delle Rimembranze – a tacere dell’invenzione del Milite Ignoto. Ma l’aspetto principale è senza dubbio il diffuso, quasi universale oblio calato nel secondo dopoguerra sulle nostre sciagurate imprese coloniali in Africa: avviate, si badi, dall’Italia liberale, non dalla dittatura fascista (che peraltro fece poi ben di peggio).
E se non amiamo ricordare l’invasione dell’Eritrea, l’occupazione e la riconquista della Libia, l’aggressione contro l’Etiopia, non c’è da sorprendersi se ci siamo dimenticati della battaglia di Dogali, e dei relativi quattrocento trentacinque – pardon, cinquecento – soldati uccisi. Tanto più che cinquecento, in sé, è un numero gradevole, perfino seducente: ricorda il più fortunato e popolare modello della Fiat, la moneta di conio più elevato delle vecchie lire, un tempo d’argento, poi più prosaicamente bimetallica, antesignana dell’euro (inteso come moneta da 1); e anche il grandioso Salone dei Cinquecento di Palazzo Vecchio, uno dei luoghi più memorabili di Firenze. Insomma, non è mia intenzione proporre che venga cambiato il nome della piazza su cui dà la Stazione Termini. Ma un po’ più di storia sarebbe bene conoscerla.
Inoltre, a proposito delle memorie del nostro passato coloniale, qualche proposta concreta si potrebbe pur fare. Converrà a tal fine balzare dall’inizio di quella parabola al suo culmine, cioè dagli anni Ottanta dell’Ottocento agli anni Trenta del Novecento, e cambiare città. Ci spostiamo da Roma a Napoli, in Via Santa Lucia, a breve distanza da Piazza del Plebiscito: qui sorge il Palazzo dell’Ammiragliato, costruito alla fine del XVIII secolo all’incrocio con quella che allora si chiamava Salita del Gigante, oggi via Cesario Console. L’angolo dell’edificio è tagliato, in modo da creare una faccia obliqua abbastanza ampia da ospitare comodamente una finestra.
Quivi è apposta una lapide marmorea, con un’elaborata cornice corredata da quattro riquadri agli angoli contenenti stemmi coronati, e sovrastata da una fastosa decorazione vegetale in bronzo. Il testo recita: «Ai soldati della terra del mare e del cielo/ che caddero nelle guerre d’Africa/ avanzando i termini della patria/ risorta alla missione mondiale». Ignoro la data esatta, ma non è difficile immaginare che risalga alla proclamazione dell’Impero, dopo la presa di Addis Abeba.
Personalmente, diffido molto della cultura della cancellazione. Non che del passato si debba conservare proprio tutto (parlo di monumenti e epigrafi negli spazi pubblici): ogni caso va affrontato e discusso nella sua specificità, e rispetto a un preciso contesto. Ma in generale a me paiono riprovevoli gli interventi che di fatto azzerano la memoria storica. L’intento di rimuovere i segni esteriori del prestigio tributato in altre epoche a una persona o a un evento che oggi si ritengano discutibili, criticabili, esecrabili, rischia di tradursi nell’obnubilamento di vicende che invece sarebbe utilissimo ricordare: e ovviamente mi riferisco sia ai fatti, sia alle interpretazioni dei fatti che ne sono state date, specie se hanno goduto di duraturo credito.
In altre parole, la lapide fascista del Palazzo dell’Ammiragliato, che commemorando militari uccisi celebra un capitolo della storia nazionale di cui dovremmo soprattutto vergognarci, secondo me deve rimanere al suo posto: non foss’altro, perché nessuna amministrazione ha ritenuto di farlo, lungo quasi un secolo. Però quella scritta rimane odiosa: e sia detto senza offendere la memoria di tanti poveri cristi che allora scelsero di arruolarsi in mancanza di meglio, al di fuori di qualunque opzione ideologica. Sarebbe quindi doveroso affiancare alla lapide che celebra trionfalmente le guerre d’Africa un’epigrafe di segno diverso, che prenda le distanze sia dagli eventi evocati, sia dalle intenzioni di chi ha inteso ricordarli in un certo modo.
Ecco dunque una Modesta Proposta all’amministrazione comunale di Napoli e al Ministero della Difesa: un concorso di idee per una epigrafe riparatrice. Ci si potrebbero cimentare gli studenti delle superiori e delle università; sarebbe un ottimo esercizio di storia, di civismo, di retorica (intesa nel senso migliore della parola), di grafica, di arte visuale. E, volendo, i modelli (americani, per lo più) non mancano.
Ai contrassegni storici (historical markers) che corredano, qualificano, in qualche caso organizzano e definiscono gli spazi, corrispondono, nel calendario, le istituzioni delle festività. Pochi giorni fa il nuovo presidente del Senato, Ignazio La Russa, ha menzionato nel suo primo discorso l’opportunità di istituire una ricorrenza che ricordi la nascita del Regno d’Italia. Sulla proposta, in sé, io non avrei obiezioni di principio: mi è sempre parsa un’anomalia storica la mancanza della celebrazione dell’unità nazionale.
Certo, mette a disagio la circostanza che l’idea provenga da un esponente politico legato alla storia della destra missina e post-fascista; lui, magari, ammorbidito negli anni dalla lunga frequentazione dei palazzi del potere, ma compagno di partito di quel Francesco Lollobrigida, già capogruppo di Fratelli d’Italia alla Camera (nonché, per quel che conta, cognato di Giorgia Meloni), che nei panni di assessore della regione Lazio patrocinò la costruzione di un mausoleo ad Affile in onore di un criminale di guerra come il generale Rodolfo Graziani, viceré di Etiopia e capo delle forze armate della Repubblica di Salò.
Ma l’obiezione principale riguarda il riferimento al Regno d’Italia, cioè all’istituzione monarchica: il che porterebbe alla scelta obbligata del 17 marzo, data della solenne proclamazione di Vittorio Emanuele a Re d’Italia. Non mi risulta che i Savoia, nell’arco di ottant’anni, abbiano mai investito molto su quella ricorrenza (lo stesso Vittorio Emanuele, del resto, nel 1861 conservò il numero ordinale II), preferendo semmai celebrare altre date, come il «genetliaco di Sua Maestà». Sarebbe paradossale che a farlo fosse oggi un Parlamento repubblicano. Molto meglio, allora, lasciare il 17 marzo a San Patrizio patrono d’Irlanda (specie nella versione profana di virtuale Guinness Pride Day), e scegliere una data diversa: il 18 febbraio, giorno della convocazione del primo Parlamento italiano a Torino, a Palazzo Carignano.
Immediata sorge però un’obiezione: il 18 febbraio 1861 la nuova Italia non comprendeva né Roma, né Venezia (cioè quel che rimaneva dello Stato Pontificio e l’intero Nord-Est). Quindi, il giorno più appropriato sarebbe il 20 settembre 1870, anniversario della presa di Roma, e quindi simbolico compimento dell’Unità nazionale. Oltre tutto, la data è già ben presente nella toponomastica nazionale.
Un tempo, in effetti, la si festeggiava anche, nonostante il dissidio con la Santa Sede; poi ci furono la Conciliazione fra Stato e Chiesa, l’accordo fra Mussolini «uomo della Provvidenza» e il cardinale Gasparri (forse zio dell’attuale esponente di Forza Italia?), e a essere celebrati furono i Patti Lateranensi (11 febbraio 1929). Insomma, il XX Settembre sarebbe bensì un anniversario sensato, ma reca con sé un alone di anticlericalismo che potrebbe risultare sgradito a qualcuno. Che cosa ne pensa, ad esempio, il nuovo cattolicissimo presidente della Camera, Lorenzo Fontana?
Nel frattempo, accontentiamoci di quello che abbiamo. Magari ricordando le implicazioni risorgimentali del 2 giugno, Festa della Repubblica: che venne scelto per il referendum del 1946 anche perché era l’anniversario della scomparsa del più grande eroe popolare delle guerre di indipendenza, Giuseppe Garibaldi, morto a Caprera nel 1882. Fu per non perdersi quella data che Edmondo De Amicis, scrivendo Cuore, scelse l’anno scolastico 1881-82. Ma oggi quasi nessuno lo ricorda: nemmeno i tanti pendolari che ogni giorno transitano davanti all’epigrafe della stazione milanese di Porta Garibaldi.
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