DIFESA: SPESA AL 2%, AVVERTENZE PER L’USO. IL SOLDATO COSTA IN OGNI MOMENTO DELLE SUE ATTIVITA’
di Report Difesa (Vincenzo Santo)
ROMA. Il titolo de “Il Sole 24 Ore” di qualche domenica fa ci avvertiva su “L’appello dei manager: all’Italia serve una politica industriale”.
Le parole che mi hanno colpito sono quelle dell’Amministratore delegato di Fincantieri, Pierroberto Folgiero che, nell’annuale appuntamento organizzato dai Giovani Imprenditori di Confidustria, ha detto: “Oggi la difesa europea ha la Germania che spenderà il 2% e non ha un’industria della Difesa, quindi ha bisogno di canalizzare questa spesa tedesca su un’industria della difesa che non c’è. Poi la Francia che ha un’industria della difesa molto sviluppata. Il nuovo governo (il nostro – NdA) dovrà quindi decidere se in questo shock del settore della difesa, con un Pil della Germania che al 2% andrà in difesa, se noi siamo partner dei tedeschi per aiutarli ad accelerare o meno”.
Frase un po’ confusa, almeno per come è stata riportata dal giornale.
INDUSTRIA DELLA DIFESA DELL’UNIONE EUROPEA
L’Unione Europea non ha di certo una propria industria della Difesa ma la Germania sicuramente sì, contrariamente a come l’affermazione potrebbe essere interpretata.
Come non considerare, infatti, il Gruppo Rheinmetall, la Maffei o persino il Thyssenkrupp, per fare solo qualche nome, certo solo rispettivamente intorno al 30°, 70° e 50° posto nella classifica SIPRI, ma ci sono.
E in campo di sottomarini a propulsione diesel elettrica primeggiano, tanto che noi ci appoggiamo a loro.
Comunque, a parte questo passaggio un po’ traballante, è evidente come questa “bandiera” del 2% attizzi gli animi degli industriali del settore e di chi si presta a fargli da lobbista, simulando disinteresse.
Il tutto con l’obiettivo, forse un falso scopo, di giungere a una comunità di intenti industriale a supportare questa idea di una “Difesa europea” che non sarebbe veramente tale senza una propria industria.
Il 2% eccita, dicevo. Ed è un fatto che un’azione di Fincantieri che a fine settembre 2018 era di 1 euro e mezzo e che in questi giorni viaggia a un terzo di quel valore aumenta il carico frenetico.
Alti e bassi anche per Leonardo che nella medesima finestra temporale è passato da quasi 11 euro a poco più di 7 di questi tempi.
Andamento all’opposto per la BAE britannica e le grandi americane, a parte Boeing, le cui azioni dal 2020 crescono di valore.
Ma adesso spicciamoci! Si corra tutti ad acquistare azioni delle due capofila italiane, Leonardo e Fincantieri prima che diventino troppo salate.
La nomina di Guido Crosetto a Ministro della Difesa, dato il suo lungo background professionale, potrebbe offrire golose opportunità di investimento.
Magari con l’aiuto di Adolfo Urso, ora alle “Imprese e made in Italy”, cioè il vecchio Sviluppo economico.
Così abbiamo sdoganato l’inglese nelle nostre istituzioni. Chissà poi perché a quello dell’agricoltura quella dicitura non andava bene, ma la “sovranità” occorreva pure metterla da qualche parte.
IL MITO DELL’INNOVAZIONE
Il mito dell’innovazione, che proietta, come va di moda, il modello Esercito 4.0, la guerra in Ucraina, le tensioni con la Cina, che stiracchiano quel “Mediterraneo” proprio da quelle parti e, infine, il nuovo governo, con il duo Crosetto-Urso in posizioni chiave, mi generano e mi accrescono motivi di preoccupazione, cioè l’ulteriore confusione tra politica militare e politica industriale, con la seconda che indirizzi e “violenti” la prima.
In una realtà nazionale che non sa esprimere visione strategica, accondiscendente con un vincolo atlantico che ha riacquistato vigore e ragione di sopravvivere, prefigurando ipotesi di impegni militari anche per avventure che potrebbero non appartenerci.
È il gioco delle alleanze e delle fedeltà storiche con cui confrontarsi, se si è consapevoli e abbastanza forti per poterlo fare.
Tuttavia, qualunque sia la scelta strategica, convinta o imposta che sia, se lo strumento militare viene trascurato, ancorché riccamente attrezzato, ne paga le conseguenze.
LE ECONOMIE DI SCALA
Le economie di scala, fondamentali in un mondo globalizzato in quanto fruiscono di un mercato non limitato a quello interno, rivestono una particolare importanza in quello dell’industria della difesa.
In termini di criticità, per il solo fatto che non tutto può essere venduto fuori dai confini nazionali e per via dei vincoli che amicizie, coalizioni e alleanze impongono.
Quindi gli scambi sono per forza di cose limitati ai blocchi di appartenenza e, se va peggio, entro i confini di appartenenza.
Le economie di scala sono perciò difficili da realizzare e inducendo, per questo motivo, chi si occupa di politica industriale a gravare sui conti del contribuente, in termini sia di ricerca e sviluppo che di approvvigionamento.
Il tutto con la scusa dell’innovazione. Noi, è la mia preoccupazione e il mio dubbio, continuiamo a inneggiare all’innovazione, che non è un male in sé, sia chiaro, essenzialmente per sostenere la nostra industria della Difesa che, evidentemente, non riesce a sostenersi solo con il mercato estero e a fabbricare ciò che le reali esigenze operative richiederebbero veramente.
Ciò che produce e non riesce a piazzare all’esterno va d’obbligo su quello interno. A gonfiare deficit e quindi debito.
Vendiamo al popolo l’innovazione per coprire l’investimento su quanto probabilmente potrebbe non essere veramente necessario.
LA CULTURA DEL DEBITO COME REGOLA IN ITALIA
L’Italia vive da anni nella cultura del debito come regola. Ciò che nel settore della Difesa passa per investimento è di fatto debito.
Perché l’investimento nel pubblico richiede visione, cioè uno sguardo al futuro libero dai condizionamenti della pancia.
E nel mondo di oggi, sempre più interlacciato, anche se qualcuno parla di deglobalizzazione, ma io riterrei più probabile una riglobalizzazione a blocchi, ma il succo non cambia, ci vuole competenza e, pertanto, la fine dell’andazzo patronale della carriera politica oggi dominata da autoreferenzialità e da supponenza così elevata da risultare uno scherzo essere ieri sottosegretario all’istruzione “e merito” e l’indomani essere a capo della Farnesina. In Italia è ormai successo di tutto.
IL DPP 2022-2024
ll Documento Programmatico Pluriennale 2022-2024 (DPP), datato luglio 2022, a firma dell’ex ministro della Difesa, Lorenzo Guerini, è chiaro.
A pagina 8, laddove si parla di “Strategia di Sicurezza”, e Dio solo lo sa da quale analisi sia scaturito questo documento e da chi sia stato redatto, si esordisce con il “Mar Mediterraneo”, il perno del “Fianco Sud”, tanto dell’Alleanza, che ne riconosce l’importanza nel suo nuovo “Concetto Strategico”, quanto dell’Unione Europea.
Una narrativa avvalorata da un altro bel pezzo di pensiero strategico che è la “Strategia di Sicurezza e Difesa per il Mediterraneo”, edito anch’esso nel 2022.
E la volata la tira, guarda caso, il Sole 24 ore. Il giornale, un paio di settimane fa, ci ha ricordato quanto sia importante osservare lo sviluppo dei commerci marittimi.
Di come cambiano le rotte, i traffici portuali e i passaggi attraverso snodi come Suez e Gibilterra.
Vero è che sul mare viaggia il 70% di tutto l’import/export globale in termini di valore e il 90% in volume.
Un indotto che, inclusa la relativa logistica, rappresenta il 12% del Pil mondiale.
Ma il “reshoring” e il “friendshoring” – la riglobalizzazione di cui ho parlato prima – che prevederebbero un riposizionamento dei poli produttivi mondiali verso “casa” o su territori amici, accrescerebbero l’importanza dell’area mediterranea non più come solo area di transito e passaggio, ma come area di commercio con connessa crescita dell’importanza e della competizione dei sistemi portuali.
Può dispiacerci questo processo e che i flussi che arrivano dal Nord Africa e dal Caspio e che toccano le coste italiane siano in aumento? Certo che no.
Un Mediterraneo che già oggi rappresenta il 20% dei traffici marittimi mondiali, il 27% delle linee container e ben il 30% dei flussi energetici in petrolio e gas, sarebbe una fonte di crescita per l’Italia, facendone un grande hub commerciale per l’Europa e soprattutto per i flussi energetici che dall’andamento parallelo starebbero sviluppandosi in senso meridiano.
Un vantaggio impareggiabile. Ora, dobbiamo esercitare il controllo su quelle rotte e su quelle strutture?
Non c’è dubbio. Dobbiamo anche gettare un occhio alla sicurezza delle condotte che, attraverso il Mare Nostrum, ci portano il gas? Assolutamente sì. E quindi avanti con mezzi navali superficiali e no e droni di tutti i tipi.
Dei due documenti “strategici” cui faccio riferimento e che, come tanti altri in passato, sono figli propri di un solito e consumato canovaccio, quello dell’abitudine, non intendo fare l’analisi, né logica né grammaticale.
I contenuti sono quelli che sono. Cicciati e ricicciati alla nausea.
La mia convinzione è quella che si tratti di strumenti volti a spingere su una spesa volta a soddisfare principalmente “acqua e aria”. Il fulcro principale dell’innovazione.
E l’aria fa sistema con lo spazio e la cibernetica e la difesa conseguente. I due domini che meglio della terra garantiscono più cospicui ritorni in termini economici. Nonché, io temo e lo ripeto, anche di tipo assistenziale a favore della nostra industria della Difesa.
Una sorta di reddito di cittadinanza a mascherare una politica industriale che secondo me domina da tempo ogni tentativo di comporre una seria politica della difesa?
Come ha scritto Irvin David Yalom nel suo “Le lacrime di Nietzsche”, ognuno deve scegliere la verità che meglio è in grado di tollerare.
E questo, dico io, succede in ogni ambito della vita.
IL RUOLO DI LEONARDO
Soprattutto per Leonardo, già Finmeccanica. Il suo exploit del 2009, in cui le vendite globali hanno superato i 25 miliardi di dollari, con un memorabile 8° posto nella classifica mondiale, alle spalle di 6 giganti americani, della BAE britannica e della EADS, non si è più ripetuto.
Anzi, oggi “combatte” su posizioni meno lusinghiere. Almeno, da quanto colgo dalle serie storiche del SIPRI (Stockholm International Peace Research Institute).
In un mercato in cui si inseriscono con determinazione anche realtà cinesi.
E il confronto con Fincantieri, con un trend più brillante, può suscitare conflittualità “domestiche”.
Come, se non vado errato, è già accaduto per il Polo Strategico Nazionale (PSN), destinato a ospitare il cloud della Pubblica Amministrazione.
Una competizione che ha visto Fincantieri e la sua cordata soccombere. Probabilmente, Giuseppe Bono, l’allora Ceo, era stato troppo intraprendente.
Ha dato fastidio con una cordata non gradita. Era quindi anche ora di avvicendarlo, probabilmente con qualcuno più utile. Ma questa è un’altra storia.
IL MITO DELL’INNOVAZIONE
Comunque, che si vada pure dietro al mito dell’innovazione. Si comprino navi, sommergibili e aerei di tutti i tipi.
Diamo pure soddisfazione alle tante lobby del settore e partecipiamo a tutte le campagne contro i possibili attacchi cyber.
E manteniamo la forza lavoro della nostra industria della difesa.
E allora, qualcuno dirà, dov’è il problema? Il problema è lo sbilanciamento e l’evidente disinteresse che rilevo sull’importanza della preparazione delle forze di terra.
Preparazione che non può consistere solo nello sviluppo e nella dotazione di capacità innovative.
Sbilanciamento e disinteresse che mette tristemente, e pericolosamente, in risalto l’ignoranza su cosa significhi la preparazione e di quanto essa potrebbe costare, ad esempio, per mantenere “pronto” un fante, un artigliere, un geniere e via dicendo.
IL CARRO ARIETE
Ma, attenzione, di colpe ne abbiamo anche noi con le stellette.
Per farne uno solo di esempio, prendiamo il carro Ariete.
Progettato negli anni ’80 per essere di 3^ generazione, al pari di altri, in realtà entrò in servizio nel 95 “derubricato” a 2^ generazione e mezzo.
La versione originale fu, infatti, sensibilmente modificata (ottiche, controllo del tiro, corazzatura ecc …) a causa di intervenute riduzioni di bilancio, per via, a mio giudizio, delle ricadute generate dal ritrovato concettuale del Mediterraneo Allargato.
Questo, fratello maggiore di quell’altro concepimento pazzoide, denominato “Grande Medio Oriente”, due concezioni partorite nella seconda metà degli anni ’80 che vedevano l’area del Mediterraneo come un vero e proprio “Continente liquido”, pur avendo importanti derivazioni continentali e, quindi, terrestri, ha imposto una direzione preminentemente aeronavale.
Tanto valeva, in conclusione, passare la mano e rinunciare a quel carro e ridursi ad altre offerte di mercato, magari in leasing. Tanto per dire.
Tanto più che il quadro strategico con i famosi “dividendi della pace” era cambiato.
Adesso si parla di Ariete 2, andremo meglio? Ma intanto, da quegli anni, la cortina di ferro cadeva e, conseguentemente, la famosa “soglia di Gorizia” perdeva importanza.
Una rivoluzione copernicana di ordine concettuale prendeva il sopravvento trasformando “l’Armata di Terra” in una “forza di pace”, le cui strutture andavano ridimensionate, non solo sul piano operativo ma anche organizzativo, a partire dalla sospensione della Leva e dall’introduzione del modello professionale.
E sulle linee di mantenimento, accorpando i precedenti 4 livelli logistici in soli due tracciati, aderenza e sostegno.
La prima ha progressivamente perso capacità ed il sostegno non ha svolto formazione e sviluppo, perdendo esperienza nel settore degli specialisti delle artiglierie e dei torrettisti (nuova figura creata ma poco alimentata), lasciando ai vecchi dell’aderenza la responsabilità di garantire efficienza ma solo fino al loro pensionamento.
La formazione di altri specialisti non venne più ritenuta prioritaria anche per mancanza di fondi.
L’Ariete, come altri mezzi sempre più sofisticati, ogni 10 anni circa deve effettuare la revisione generale, che coincide anche con un aggiornamento della tecnologia.
Ma servono soldi e l’industria non fa ricerca nel settore se non viene foraggiata, soprattutto se poi non vende all’estero. Come accaduto.
Chiuse le catene di montaggio, allo scadere dei 10 anni l’industria ha chiesto un nuovo contratto per riaprirle.
Improponibile per la Forza Armata che è stata costretta ad “allungare la vita tecnica” del mezzo di altri 10/15 anni per evitarne il fermo tecnico.
Manutenzioni intermedie effettuate superficialmente per mancanza di fondi e di qualifiche nonché di esperienza da parte degli operatori, con il risultato che gran parte della linea oggi è ferma.
Pertanto, e chiudo questa parentesi anche eccessivamente tecnica, conviene cambiare linea e assicurarsi nel nuovo pacchetto almeno 10 anni o più di manutenzione, al termine dei quali possiamo pensare a cambiare la linea.
Succederà ancora con il prossimo Ariete 2? Temo proprio di sì.
La parola investimento è solo la copertura per una spesa facilmente giustificabile con elucubrazioni concettuali che trovano sfogo in quadri strategici che si ripetono da sempre pressoché uguali in termini di sostanza e vacuità.
Ecco il “reddito di cittadinanza” a favore dell’Industria della Difesa. Ho parlato di questo carro armato, ma il modello è riproducibile su altri assetti. Almeno per la Forza Armata in cui ho servito, alla quale ho dato e che mi ha anche dato tanto. Ma la critica è doverosa!
RAPPORTO ESERCITO 2021
Facciamo un salto su un altro documento, il “Rapporto Esercito 2021”. Tanto per iniziare, quando nelle sue pagine viene specificato che “Il personale specializzato, addestrato e con una forte identità militare deve poter essere dotato di adeguate piattaforme operative allo stato dell’arte … un obiettivo che dovrà costituire il fulcro dell’intero processo di adeguamento capacitivo dello Strumento militare terrestre nel medio/lungo termine … in tale ambito, l’interlocuzione con un player industriale nazionale – che abbia nella progettazione e sviluppo, nella produzione e nel sostegno al ciclo di vita operativa dei sistemi per la componente terrestre il suo business centrale – si configura, per l’Esercito italiano, come una vera e propria “esigenza operativa” , a me vengono dei dubbi.
Quindi, “l’interlocuzione con un player industriale nazionale” è un’esigenza operativa.
Rabbrividisco. Detto tutto, altro che dubbi. Questo passaggio mi evoca il “catoblepismo”, il rapporto patologico che lega due entità tanto da farle dipendere l’una dall’altra.
Ma, in questo caso, a me pare che sottenda una logica pericolosa, per cui la politica industriale dirige, persino vincola, quella della Difesa. E non è un bene.
L’innovazione nella concezione nazionale, fomentata dalle interpretazioni secondo me fuorvianti di Mariana Mazzuccato e di Thomas Piketty, è un processo che non può essere preso in mano dallo Stato, le innovazioni emergono dal libero mercato.
Assumere che debba essere il contrario avvia la degenerazione per cui da una “corretta” politica per l’industria si arriva in un colpo solo a una politica industriale statalizzata, con la creazione di giganti per la cui sopravvivenza, ove i capitali privati non siano sufficienti, si dovrà provvedere diversamente, con le banche ben disposte o politicamente indirizzate o, finalmente, con lo stato stesso con commesse o salvataggi.
Entrando con violenza nelle tasche di chi le tasse le paga ma è notoriamente indifeso anche perché, come detto prima, di quello che viene scritto su questi documenti pochissimo è comprensibile.
Tutto viene scritto perché appaia non solo motivabile ma persino giustificabile.
IL 2% DEL PIL
E veniamo al famoso 2% del Pil.
Iniziamo dalla dimensione che i numeri ci possono suggerire.
Numeri presi dalle serie storiche del MEF, ma che io arrotondo per semplificare.
Consideriamo qui il Pil nominale.
Il nostro prodotto interno lordo nel 2019, pre-pandemia, è stato di 1.790 miliardi circa.
Il calo del 9% circa l’anno successivo, in piena pandemia, ce l’ha portato più o meno a 1.629.
Il 6,7% di crescita del 2021 ce lo riconduce a 1.738.
Nel 2022, se vero è che la crescita potrebbe essere mettiamo del 3,2 o 3,4%, avremmo un Pil intorno ai 1.795 miliardi, in linea con il 2019, più o meno.
Ora, avessimo applicato il 2% che i nostri parlamentari hanno determinato di applicare alla spesa per la Difesa nel 2019, avremmo avuto un totale di circa 36 miliardi, lo applicassimo al valore del PIL del 2022 avremmo all’incirca il medesimo ammontare.
Per il 2023, infine, si prefigura, con un certo ottimismo nel NADEF una crescita dello 0,6%, con un conseguente teorico budget per la Difesa cresciuto di qualche decina di milioni, o giù di lì. Tanta differenza? Non mi pare.
Ma da altre parti parlano anche di un 0,2 negativo. Ad ogni modo, a quei 35 o 36 miliardi, cioè quel 2% circa, occorrerà arrivarci, e poi vedere se la resa sarà tale, cioè se poi non occorrerà fare i conti con il PIL “reale”. Altra storia.
Ora, quanto oggi viene stanziato per questa voce di spesa? La bellezza di 21 miliardi e 600 milioni scarsi per la funzione difesa.
Almeno da quanto traggo dal DPP.
A questa spesa vanno aggiunti 7,3 miliardi circa per la funzione “Sicurezza del Territorio”.
Una bella fetta questa, non c’è che dire, tutta dedicata ai nostri Carabinieri, incluso il Corpo Forestale dello Stato confluito nell’Arma qualche anno fa.
Senza contare quanto all’Arma stessa viene assicurato dal Ministero dell’Interno in tema di ordine pubblico e sicurezza, credo uno scarso mezzo miliardo.
Sempre che abbia io letto bene le pagine di quel Ministero. Ma leggere i bilanci dei vari Dicasteri è cosa complicata.
I SOLDI PER LA DIFESA
Comunque, per la “Difesa”, il totale per quest’anno si aggira su qualcosa in meno di 29 miliardi e mezzo.
Questo per quanto attiene, e lo dico ora per la precisione, al bilancio integrato, cioè quello comprendente anche le somme che provengono dal Ministero dello Sviluppo Economico (MISE), a sostegno esclusivo del settore investimento, e dal Ministero dell’Economia e delle Finanze (MEF), per finanziare la partecipazione dell’Italia alle missioni militari internazionali.
Di questi 29 miliardi, quindi, più di 8 sono di “investimento”. Ben tre volte l’Esercizio.
Pertanto, come prima importante considerazione, pur banale, la crescita della spesa per la Difesa, in soldoni, dipende dalla crescita del Prodotto interno lordo.
Possiamo impegnare anche il 3% ma se contiamo su un Pil in decrescita o in crescita asfittica, non cambia molto.
Finora, pur crescendo, abbiamo recuperato il livello pre-pandemia. Pertanto, altra considerazione, ciò che hanno approvato in Parlamento lo scorso marzo è prossimo alla “fuffa”.
Se le cose andassero male in termini di crescita, quel 2% in soldoni potrebbe comunque essere quanto viene speso oggi.
Fatti i conti per quest’anno, bene che andiamo, siamo all’1,64% circa, tutto incluso, MISE e MEF.
Vabbè, non era detto che si dovesse arrivare subito a quel 2%. Pacifico.
Tuttavia, non è poi tanto importante quanti fondi si hanno.
Come anticipato, vadano pure bene navi e aerei e vada anche bene, anche se me ne sfugge la logica, che per l’approntamento e impiego delle forze dell’Arma dei Carabinieri – parlo della Missione 5 – si assegnino ben 6,8 miliardi circa.
Me ne sfugge la logica se commisuro quella cifra al corrispettivo assegnato all’Esercito, solo 5,9 miliardi circa, almeno per quanto riportato nel citato Rapporto Esercito 2021.
C’è qualcosa che non va. Intanto, tra il DPP e il Rapporto Esercito qui trattati c’è uno scalone di 1 anno.
Quindi qualche differenza nei numeri c’è, ma credo ininfluente nel discorso generale. Ciò che conta veramente è il concetto, e le piccole variazioni nei numeri non lo cambiano.
I SOLDI PER L’ESERCITO
Nel 2021 il nostro Esercito ha ricevuto un’assegnazione di 5,94 miliardi con un incremento “faraonico” del 3,48% rispetto all’anno precedente.
E quanto per l’esercizio? La bellezza di 357 milioni di euro. Ripeto: 357 milioni. Un successo.
Certo, qualcuno obietterà che in realtà poi questa cifra lievita a 843 grazie a varie “frattaglie” che in realtà cambiano poco, dato che riguardano le missioni all’estero (331) e le operazioni sul territorio, come l’eterna Strade Sicure (58) e un altro paio di “rubinetti occasionali” per una sessantina di milioni ciascuno, ma si tratta in realtà di altri costi fissi.
Al riguardo, dubito che ci sarà mai alcun vertice che s’incateni da qualche parte chiedendo la chiusura di quella “tragedia infinita” che è proprio “Strade Sicure”, quei 58 milioni sono una boccata di ossigeno così come alcune missioni all’estero, assolutamente inutili, come lo era quella in Afghanistan e come è tuttora quella in Libano, molto lontane dal garantirci nei nostri interessi, ma che fanno “respirare”.
Altro sarebbe stato a suo tempo l’aver inviato almeno 2 Brigate “pesanti” in Libia, a quest’ora forse avremmo ancora quel Mediterraneo di cui tanti parlano ma per il quale nessuno ha fatto niente per mantenerselo.
L’ADDESTRAMENTO DEI MILITARI
La scarsità delle assegnazioni si ripercuote tragicamente sull’addestramento. Questo è il punto.
Un settore che, come detto in precedenza, viene sottostimato credendo che ormai, avendo dei “professionisti” essi siano già belli e pronti. E sempre.
E non parlo solo delle dimensioni degli addomi, soprattutto tra i più anziani. E questo sul piano strettamente fisico che, tuttavia, riguarda tanti altri professionisti in divisa, dalle Polizie municipali alle Forze di Polizia stesse.
Ecco, a questo punto, merita fare poche considerazioni sul sistema d’arma “soldato”, e su quello “di terra”, che conosco meglio.
L’Italia ha introdotto il sistema professionale a metà degli anni ’90. Perfetto. Nulla da dire. Ma parliamo ormai di 30 anni fa più o meno. Più di una generazione.
Non è difficile comprendere che nel “sistema Italia”, in cui non si è mai compreso che il soldato sia qualcosa di “diverso” – dico diverso, non migliore – rispetto a un qualsiasi altro impiegato ma anche dirigente civile, e dove, per via del parossismo progressista nel cieco ossequio a presunti diritti personali, non solo risulti problematico mandare via qualcuno se non è più in grado di rispettare pur semplici requisiti fisici ma dove è anche limitato il ricambio generazionale, con conseguente probabile super affollamento delle scrivanie, la preparazione psico-fisica e la spinta motivazionale tendano pericolosamente a scemare.
Pertanto, ritengo illusorio il poter mantenere fede a quanto scritto a pagina 9, sempre del “Rapporto Esercito 2021”, dove si sottolinea, ma sarebbe del resto superfluo specificarlo, che “uomini e donne con un ampio patrimonio di competenze, esperienze, altamente motivati e con un sistema comune di valori e aspettative professionali sono e saranno in futuro il vero motore della Forza Armata ”.
E, tuttavia, mi pare strano che, pur nell’abbondanza di utilissimi grafici e tabelle sinottiche, non esista alcun dato sulla situazione in merito alle “fasce di età”, se non l’ovvio proponimento che che l’Esercito “mira a disporre di forze giovani operativamente disponibili, altamente motivate e caratterizzate da doti intellettuali e prestanza fisica. Tali esigenze comportano la promozione/attuazione di politiche/strategie orientate a un sostanziale “ringiovanimento” della componente operativa della Forza Armata ”.
Il “combinato-disposto” dei due precedenti passaggi, che ho rimarcato in grassetto, dovrebbe far riflettere anche il più incompetente di politicante che la situazione potrebbe essere veramente tanto tragica da spingere la Forza Armata a utilizzare giri di parole, i soliti, per dire e non dire. E non va bene!
L’essersi piegati nel tempo a una logica impiegatizia e assistenziale, è stato un approccio rovinoso. Qualcuno lo deve pur dire!
E che l’Esercito si sia votato anima e cuore, ma direi anche inevitabilmente, a una missione assistenziale, lo si vede dalla distribuzione geografica tra posizioni organiche e provenienza regionale.
È evidente, e lo dico da uomo del Meridione, come ben il 72% del reclutamento venga dal Sud e dalle Isole a fronte di una disponibilità di solo il 27% delle posizioni organiche in questa parte del territorio.
Situazione non migliorata nonostante la stupida decisione di spostare al Sud, da Pordenone, una Brigata, definita poi pesante, la Garibaldi, in aree dove spazi addestrativi ed esercitativi per quella tipologia di unità sono sempre stati scarsi.
Assieme ad altre Grandi Unità che, emerse dallo status “simbolico” di essere un tempo “solo territoriali”, condividono la stessa sofferenza.
A parte la Sassari che può beneficiare, ma senza esagerare, altrimenti le comunità locali si innervosiscono, del Poligono di Capo Teulada in Sardegna.
Tutti gli altri poligoni e aree addestrative sono assolutamente inadeguati per il necessario svolgimento di addestramenti ed esercitazioni di più alto livello rispetto a quello di Compagnia o di Battaglione “leggerino”.
E poi le munizioni, se ci sono, costano pure quelle. Così come costa molto trasportare un’intera Brigata all’estero, più generoso di noi, per esempio in Qatar o in Polonia o anche prima della guerra in Ucraina, per svolgervi un pur breve ciclo addestrativo, diciamo di un mese. Parliamo di milioni.
IL PROFESSIONISMO DEI MILITARI
Ci siamo fidati sul fatto che il professionismo significasse da solo capacità esprimibile al semplice schiocco delle dita.
Certo, per stare qualche ora in piedi per strada sotto un bel gazebo non ci sono problemi. Se non la noia.
Né ce ne sarebbero per riparare le buche delle strade romane oppure per vaccinare cittadini o per trasportarne le bare con i propri camion.
Ma essere parte di un “tragico” gioco di squadra, dove il paradigma secolare della manovra, fuoco e movimento, comporta rinunce, resistenza, rapido adattamento, attenzione, pratica istintiva nella tattica spicciola, freddezza e tanto altro, incluso il possibile sacrificio, postula incessante addestramento, compresa la tenuta fisica.
Oltre al fatto di sapere sparare e contro chi nonché comprendere velocemente come, quando, dove e con chi muoversi.
E con quanto peso addosso. Insomma, il Soldato deve saper fare il Soldato e non può costituire la facile ed economica manovalanza per qualsiasi baggianata.
Ritorno aL capitolo di “Strade pulite o sicure”. È almeno da 30 anni che l’Esercito recita questo ruolo.
Fermo restando l’obbligo di intervento in casi di calamità naturali e no, ma in concorso.
Tuttavia, l’emergenza è tale se è di breve durata, giusto il tempo necessario che la situazione torni sotto controllo e diretta da altri comparti preposti nello specifico, per non compromette seriamente la preparazione delle varie unità a svolgere con professionalità i loro compiti specifici “in caso di”.
Il problema che è difficile da comprendere è che diventare Soldato e mantenerne le capacità, anzi migliorarle, costa.
Anche per adeguarsi alle innovazioni introdotte. E l’età fa la differenza, soprattutto in taluni incarichi, diciamo quelli che sarebbero a “contatto”.
C’è infatti un’età per tutto e non tutti gli incarichi vanno bene per tutte le età. Occorre un sistema che riassegni il personale, anche nella componente civile, ma che provveda anche una via d’uscita verso altre strutture statali.
Basterebbe copiare da altri, e farlo bene. E, ripeto, tutto ha un costo.
ALCUNI CONTI SULL’UTILIZZO DELLE BRIGATE
Ora veniamo a fare due conti, ma per semplificare, nel tentativo di far comprendere con immediatezza l’inadeguatezza dei fondi, mi limito a prendere in considerazione le sole Brigate diciamo “di manovra”, quella parte del nostro Esercito che dovrebbe costituire la parte pulsante dell’operatività, la casa del combattente in prima linea, tanto per intenderci.
E per esse, solo dal punto di vista “addestrativo”, sulla base delle mie esperienze professionali e dei miei convincimenti, frutto anche della fortuna di avere vissuto l’esperienza della “Leva”, e dei circuiti addestrativi che ne caratterizzavano la ferma, nella realtà del Nord Est italiano dove la “soglia di Gorizia” la si viveva ogni giorno, siamo in un range che si aggira attorno ai 20 milioni di euro ogni anno.
Sia chiaro che per Brigate più “pesanti”, per esempio la Garibaldi, ma anche per chi ha in dotazione mezzi ancora più costosi, come la “Friuli” con i suoi elicotteri, andremmo ben sopra i 25 milioni.
Già 20, pertanto, per 11, darebbe un totale di 220 milioni di euro. Tanto per cominciare. Perché non finisce qui.
Perché c’è tanto di altro per consentirne “la vita”. Parlo delle indennità varie per il personale, e non parlo di assegni fissi, la manutenzione delle piattaforme da combattimento e tutto ciò che serva per il funzionamento e la vita di caserma, dal rancio alle pulizie sino alle bollette.
Ecco, tanto al chilo, a quei 20 se ne aggiungano altri di milioni in un range che va dai 150 ai 180 milioni di euro. Per ciascuna di queste Grandi Unità Elementari, come le si definiva un tempo.
Pertanto, per chiudere questo noioso capitolo dei numeri, diciamo che “solo” per le 11 esistenti, ovviamente incluse le unità dipendenti nelle varie dislocazioni geografiche, cioè le rispettive caserme, ci sarebbe la necessità di un totale attorno ai 2 miliardi di euro. Tuttavia, l’Esercito è anche altro, ma mi fermo qui.
Lo so, c’è di certo qualcuno che dirà “è troppo”. Al riguardo, un mio vecchio comandante di brigata mi sollevò questo appunto, io Capitano allora, quando gli presentai i conti da inviare in Prefettura per rendicontare il costo delle unità impiegate nella sorveglianza dei punti sensibili durante la prima campagna aerea contro la Jugoslavia.
Io gli risposi chiedendogli in che cosa pensasse che fossero “troppe” quelle lire che avevo calcolato. Non mi rispose, comprendendo probabilmente che i conti li avevo fatti bene, e dispose che quei numeri venissero inviati in Prefettura. Troppo poco o troppo non è un filone di ragionamento che aiuta. Anzi.
Perché le cifre spaventano ed è il timore di sembrare “troppo pretenzioso”, anche se giusto, che crea danni.
Ma la sicurezza con cui imporsi in questo gioco contro il politico di turno richiede una conoscenza approfondita dei processi addestrativi, della necessità dell’allenamento continuo e faticoso, di essersi infangati gli scarponi per anni, presa tanta pioggia, il freddo e il caldo e, infine, aver accettato il puzzo delle camerate. Per anni.
Sì, parlo di esperienza. Certo da sola non basta, occorre cultura e cultura dello Stato oltre a comprendere che l’Esercito è una cosa seria, bisogna averlo “indossato” come una propria pelle.
Del resto, occorre capacitarsi che le nostre unità ormai da anni si addestrano essenzialmente, quando lo fanno, e salvo sporadiche manifestazioni che peraltro rischiano di chiudersi con un risultato dimostrativo o peggio autoreferenziale, in funzioni che ne pregiudicano gravemente il DNA di ciascuna di esse.
Essere pronti seriamente come carrista, fante o pilota costa.
Il concetto di prepararsi al peggio per affrontare prove operative con maggiore consapevolezza e “abitudine” pare essere dimenticato.
Era un refrain che i “vecchi” della cortina di ferro si ripetevano continuamente.
Per essere capaci di sbalzare con il peso di un mitragliatore e con tutto l’equipaggiamento al seguito, incluse le munizioni, occorre prepararsi ogni giorno; per vivere per giorni in una trincea, come ci dicono accada in Ucraina oppure nel Caucaso, vincendo noia, sonno e stanchezza, sapendo che il peggio può arrivare da un momento all’altro, occorre esercitarvisi.
Per rimettere un cingolo al suo posto occorre saperlo fare e farlo in situazioni disagiate Oltre che sapere come costruirsi un appostamento o una postazione e conoscere persino i tempi che occorrono per realizzarli. Altro bel problema, i materiali di rafforzamento. Sorvoliamo.
Da tutto questo odioso racconto anche in cifre, la cosa più importante da trarre è che per “mantenere” la capacità operativa di ciascuna unità, così che “a cuor leggero” la si possa inviare a fare ciò per cui è stata creata, tutta l’assegnazione concessa per l’esercizio, i famosi 350 e rotti milioni di euro, sarebbe appena sufficientI, ma infischiandosene di tutto il resto della vita di ogni giorno.
E finiamola di credere che quel po’ di iter propedeutico per andare e ritornare in Libano, come accadeva per l’Afghanistan, così come per i Balcani, mettano in condizioni un nostro carrista con il suo carro “Ariete”, 1 o 2 che sia, di poter andare, per esempio, a combattere in Ucraina contro i russi. O un domani a riprendersi Taiwan dai cinesi.
È ora di uscire da questa illusione o da questa menzogna. I soldati devono fare i soldati e farlo è una cosa seria non una performance da avanspettacolo.
Né la risorsa cui ricorrere per qualsiasi stupidaggine, scordando che esiste in primis una Protezione Civile per le emergenze, anche per le campagne vaccinali, le Forze di Polizia per il controllo del territorio, le varie municipalizzate per pulire le strade e per prendersi cura dei rifiuti e così via.
Quello militare è uno dei quattro strumenti di potere di una Nazione e va salvaguardato, e preparato. E per farlo, ripeto costa. Non mi stancherò di dirlo ma ho persino buttato giù qualche numero, per non limitarmi a dire che ciò che viene garantito sia “troppo poco”.
IL MEDITERRANEO ALLARGATO
Il Mediterraneo allargato (al Pacifico?) non è in discussione (anche per il nuovo concetto strategico della NATO), ma la nuova cortina di ferro in Europa è un’emergenza (ancora ignorata da militari e politici) che impone una politica militare orientata all’Esercito rimettendo il controllo del territorio nelle mani delle Forze di Polizia.
Rivedendo, e so che mi farò dei nuovi amici, l’impiego degli stessi Carabinieri nel Fuori Area e persino il ruolo delle loro “Forze Speciali”.
L’innamoramento infantile per quel concetto del “Multinational Specialized Unit – MSU” lasciamolo alla Storia.
Il solo fatto che ne fosse entusiasta il Generale Clark dovrebbe darci un’idea precisa in merito, dato lo spessore professionale e umano di quell’ufficiale americano.
Quindi urge una revisione generale, in termini di visione, di pianificazione fino ai programmi di addestramento.
Le parole rilasciate nei vari consessi mi fanno temere il consueto “assalto alla diligenza” nella prospettiva del 2% del PIL che se, attuato, produrrebbe sui 7 miliardi in più, almeno sul piano del PIL nominale, senza alcuna utile ricaduta sull’addestramento.
Quello che, come ho scritto in precedenza, possa servire a “combattere seriamente” in una realtà ad “alta intensità”, come riterrei sempre più probabile possa accadere.
CONCLUSIONI
In conclusione, aver avallato che la spesa per la Difesa debba attestarsi al 2% è intanto uno slogan, uno dei tanti lanciati da una classe politica in gran parte ignara di ciò che fa e dice, che rimane per quello che è, una vuota enunciazione, in considerazione del fatto che laddove il PIL non cresca significativamente nulla cambia in valore assoluto.
Allo stato attuale, l’applicazione di quella scelta produrrebbe un tesoretto di 6 o 7 miliardi, di cui dubito possa realmente goderne l’addestramento nonché il faticoso mantenimento di mezzi, materiali e infrastrutture.
Infatti, non è affatto importante quanto si spende bensì come si spende.
Se, inoltre, quel tanto in più che dovesse un domani derivare da questo 2% servisse solo per soddisfare i desideri, pur comprensibili, dell’Amministratore delegato di Fincantieri, che ho richiamato in apertura di questo lungo articolo, non andremmo lontani.
Cito lui solo come esempio utile, ma mi immagino come anche altri nel settore stiano salivando.
Insomma, se noi viviamo nell’illusione che l’innovazione da sola possa garantirci la disponibilità di uno strumento che sia in grado di svolgere ciò per cui è stato creato, non faremo altro che fare opera assistenziale o di garantire ossigeno al comparto industriale della Difesa, soprattutto per tutti quei programmi che offrono ritorni economici più gratificanti e fin troppo spesso con un’utile cadenza temporale.
Una nuova linea di carri armati va sempre bene, sia chiaro.
Basta che ci si possa addestrare seriamente e che li si possa manutenere ben oltre quanto garantito dai pacchetti di assistenza sottoscritti con l’industria.
Tuttavia, la realtà, come la verità, viene sempre a galla e ci dice che senza un serio, quotidiano e mirato addestramento “di specialità”, che costa, il tutto diviene semplicemente inutile.
Quando la realtà viene a galla essa ci prende di sorpresa, e fin qui nulla di nuovo.
Tuttavia, l’inferno arriva quando non si è neanche preparati a fronteggiarla, perché o mancano i mezzi necessari – anche innovativi, lo riconosco – o manca l’addestramento necessario.
E quest’ultimo si basa sull’indispensabile pratica quotidiana sui materiali in dotazione.
Non è solo l’Ariete che si ferma per mancanza di denaro per cambiargli il cingolo, decresce anche la capacità operativa.
Capacità che non si acquisisce dedicandovi le risorse che “avanzano”.
E non basta illudersi di possederla solo per aver condotto una mirabile esercitazione a tutto tondo nel deserto del Medio Oriente o solo perché gli altri ci dicono che siamo bravi con le consuete, e pericolosamente false pacche sulle spalle.
Parlare di una percentuale è solo il passaggio iniziale, ben venga. Ciò che invece è fondamentale, non mi stanco di ripeterlo, è dove quelle risorse verranno impegnate.
Per farlo come converrebbe è indispensabile conoscere, e averne veramente esperienza, di cosa significhi e comporti un iter addestrativo che consenta di disporre unità in grado di fare il proprio mestiere in situazioni operative “drammatiche”.
Cosa che invece io temo non sia preso in considerazione, volendo prediligere una spesa volta principalmente a soddisfare una politica industriale. Magari mi sbaglio e “penso male”, che è peccato, lo so.
Ora, infine, se ci va bene pensare che l’utilità dei “Soldati” consista solo per le passeggiate per le strade con uno schioppo in mano, sopperendo alle Forze di Polizia, con il pretesto che così queste possano svolgere meglio le loro indagini, o sperare nel Genio militare per riempire le buche di Roma, o nei suoi medici, infermieri e “conduttori” per vaccinare la gente o per trasportare feretri, se proprio deve essere così, allora cambiamogli nome a questo Esercito, ce n’è già uno di nome e, senza offesa, si tratta della Protezione Civile.
Caviamoci questo dente!
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