Poche note sulla morte di Joseph Ratzinger
di TEMPO FERTILE (Alessandro Visalli)
Sono stato pochi giorni fuori dall’Italia, raggiunto a stento dalla notizia della morte del papa emerito Benedetto XVI e quindi ignaro della sorprendente ricezione della notizia. Improvvisamente alla vicenda terrena del vescovo cattolico sono state appiccicate etichette e bandierine da parte dei più diversi attori. L’intero sistema dei media, come un sol uomo, ha montato il racconto del santo e dell’eroe (nonché del genio) mentre molta parte della cosiddetta “area del dissenso”[1] ha ricalcato lo schema, riproducendovi sopra i propri stilemi.
Entrambi, abbastanza palesemente, utilizzando l’uomo contro il papa in carica che ha diverse colpe: non si allinea con il sufficiente entusiasmo alla parte dei ‘buoni’ nella guerra in corso contro la Russia[2], sostiene ancora, se pure in forma attenuata e dilavata, temi pauperistici ed anticapitalisti (peraltro tradizionali nella plurimillenaria istituzione che dirige)[3]. Ha sbandierato vistosamente uno scontro con la Curia nei primi mesi del suo papato, probabilmente giungendo ad un ‘modus vivendi’ negli ultimi. Il discorso di Francesco è del resto fortemente antimondialista e radicalmente opposto alle deviazioni dell’economia finanziarizzata, come si può apprezzare in questo frammento all’avvio della sua ultima enciclica.
“12. ‘Aprirsi al mondo’ è un’espressione che oggi è stata fatta propria dall’economia e dalla finanza. Si riferisce esclusivamente all’apertura agli interessi stranieri o alla libertà dei poteri economici di investire senza vincoli né complicazioni in tutti i Paesi. I conflitti locali e il disinteresse per il bene comune vengono strumentalizzati dall’economia globale per imporre un modello culturale unico. Tale cultura unifica il mondo ma divide le persone e le nazioni, perché «la società sempre più globalizzata ci rende vicini, ma non ci rende fratelli».[9] Siamo più soli che mai in questo mondo massificato che privilegia gli interessi individuali e indebolisce la dimensione comunitaria dell’esistenza. Aumentano piuttosto i mercati, dove le persone svolgono il ruolo di consumatori o di spettatori. L’avanzare di questo globalismo favorisce normalmente l’identità dei più forti che proteggono sé stessi, ma cerca di dissolvere le identità delle regioni più deboli e povere, rendendole più vulnerabili e dipendenti. In tal modo la politica diventa sempre più fragile di fronte ai poteri economici transnazionali che applicano il ‘divide et impera’”.[4]
Cosa vale la pena di dire, se pure da grande distanza?
Intanto che il nome dei due papi, sin dall’inizio reciprocamente avversari[5], mostra una divergenza non esattamente coerente con la narrativa dell’eroe antisistema attribuita al primo. Benedetto da Norcia è il fondatore dell’omonimo ordine e dell’istituzione nella quale trova una prima forma, secondo alcune autorevoli interpretazioni[6], l’economia moderna ed è certamente uno dei luoghi di formazione dell’ortodossia cattolica. Francesco d’Assisi, anche esso fondatore dell’omonimo ordine, pratica al contrario un modello antiistituzionale, sull’orlo dell’eresia, pauperistico, ribelle. Mai nessun papa ha preso il suo nome.
Si tratta, comunque, di due figure medioevali, altissime, di grandiosa virtù e impatto.
Quindi si può ricordare come entrambi i vescovi hanno una storia, e si formano in un contesto culturale e geografico specifico. Joseph Ratzinger era nato in Baviera nel 1927, da una famiglia cattolica molto osservante nella quale il padre era gendarme e a diciassette anni partecipa alla guerra. Studia teologia e partecipa al Concilio Vaticano II come ‘progressista’, ma a seguito del ’68 vira in direzione opposta e fa carriera, grazie a Paolo VI. Diventa il campione della reazione contro la tendenza della Chiesa a partecipare ai moti di liberazione che attraversano il mondo. È alla guida del Sant’uffizio dal 1981 alla sua elezione ed in questa veste combatte contro tutte le tendenze che identifica come progressiste. È chiaramente per questo che l’area del dissenso lo assume come eroe (dimenticando che lo fa dalla posizione di potere della Santa inquisizione e per affermare un modello autoritario di sapore medioevale che è del tutto incompatibile con qualsiasi ispirazione libertaria, con la sbandierata libertà di ricerca, e via dicendo).
Ripercorriamo la sua biografia.
Negli anni di formazione Ratzinger segue l’esempio di Agostino, in chiave anti tomistica, e si ispira a teologi modernisti come Henri de Lubac, Marie-Dominique Chenu, Yves Congar e Friedrich Wilhelm Maier. Scrive il dottorato su Agostino, indagando sull’espressione “popolo di Dio”. Ma l’abilitazione la compie sulla figura del ‘normalizzatore’ del francescanesimo delle origini, quel Bonaventura da Bagnoregio che liquidò le tendenze gioachimite[7] e millenariste che si intravedevano nella prima comunità ‘rivoluzionaria’ francescana. Il tema è densamente politico, si tratta di interrogarsi, sue parole, se “sia possibile per un cristiano concepire una sorta di compimento all’interno delle vicende di questo mondo, se sia possibile cioè una specie di utopia cristiana, una sintesi di utopie e di escatologia”. Qui avviene un episodio interessante, siamo nel 1952, nella tesi di settecento pagine il giovane candidato sostiene che la rivelazione non è un insieme di proposizioni contenute nelle scritture, ma l’azione storica di Dio nel mondo e può mutare insieme alle vicende umane. Il relatore, Michael Schmaus, lo attacca violentemente accusandolo di modernismo e lui accetta di espungere tutta la parte di discussione teologica. La sua obbedienza e disciplina viene premiata con la cattedra di Teologia dogmatica a Frisinga. Ma in un articolo di quegli anni accusa la Chiesa di essersi troppo ‘mondanizzata’, e quindi debba tornare ad essere solo una ‘comunità dei credenti’ evitando di impegnarsi con il potere temporale. Sono i temi che poi, in una chiave diversa, impronteranno la sua pluridecennale battaglia con la “Teologia della liberazione”[8].
Entra quindi nel Concilio Vaticano II a seguito del Cardinale Frings, cercando tra Tradizione e Scrittura (le due fonti dell’ortodossia cattolica) una strada per essere un’alternativa all’era moderna entro questa. Nello scontro dottrinale intorno allo schema “De fontibus Revelationis”, contro il quale afferma la tesi, poi contenuta nei “Dei verbum”, che la fonte è la parola di Dio stessa, che si manifesta attraverso strumenti come le Scritture e la Tradizione.
In seguito segue Hans Küng a Tubinga, ma a partire dal 1966 inizia a mutare orientamento, sente che ci si è spinti troppo oltre, e che l’aggiornamento della dogmatica e dei riti sia, piuttosto, un accomodamento con lo spirito del mondo. La contestazione del 1968 è per lui, proveniente da ambienti molto conservatori, completamente incomprensibile. Fugge a Ratisbona sotto la tutela di un vescovo anticonciliare come Rudolf Graber e litigando con il suo ex amico Küng. Fonda la rivista “Communio” che cerca di riscrivere il Concilio come prolungamento della Tradizione. Nel giugno 1976 il Vaticano lo sceglie per affermare una linea anti-progressista prima come arcivescovo e poi cardinale, a cinquanta anni.
Il riallineamento è stato premiato.
Diventa il braccio destro di Karol Wojtila, di cui condivide la linea politica che si può riassumere, come scrive Roberto Paura[9] “mitigare gli eccessi di riformismo post-conciliare e stoppare brutalmente ogni deviazionismo teologico tendente a sinistra, in particolare al marxismo”. Quando accede alle posizioni di influenza in vaticano, di cui sarà interprete per decenni, regola i conti con gli altri teologi tedeschi: revoca l’insegnamento a Hans Küng nel 1979 e blocca la carriera di Metz, interferendo pesantemente nelle tradizionali libertà accademiche attraverso un intervento autoritario e centralizzatore da Roma. Ci sarà un grande scandalo internazionale di cui si continuerà a parlare per anni. Nel 1981 è nominato da Giovanni Paolo II alla guida della vecchia inquisizione, ribattezzata Congregazione per la Dottrina della Fede. Ad agosto 1984 la Congregazione pubblica la “Istruzione su alcuni aspetti della Teologia della Liberazione”[10] nella quale, con grande chiarezza, si tratta di “attirare l’attenzione dei pastori, dei teologi e di tutti i fedeli, sulle deviazioni e sui rischi di deviazioni, pericolosi per la fede e per la vita cristiana, insiti in certe forme della teologia della liberazione, che ricorrono in maniera non sufficientemente critica a concetti mutuati da diverse correnti del pensiero marxista” e per questo distingue tra la “liberazione dal peccato”, primaria, e quella “dalle molteplici schiavitù di ordine culturale, economico, sociale e politico, che in definitiva derivano tutte dal peccato, e costituiscono altrettanti ostacoli che impediscono agli uomini di vivere in conformità alla loro dignità”, mera conseguenza del peccato e quindi secondarie. Più specificamente nel testo è sviluppata questa distinzione cruciale:
“15. Neppure è possibile localizzare il male principalmente e unicamente nelle cattive ‘strutture’ economiche, sociali o politiche, come se tutti gli altri mali trovassero in esse la loro causa, sicché la creazione di un ‘uomo nuovo’ dipenderebbe dall’instaurazione di diverse strutture economiche e socio-politiche. Certamente esistono strutture ingiuste e generatrici di ingiustizia, che occorre avere il coraggio di cambiare. Frutto dell’azione dell’uomo, le strutture, buone o cattive, sono delle conseguenze prima di essere delle cause. La radice del male risiede dunque nelle persone libere e responsabili, che devono essere convertite dalla grazia di Gesù Cristo, per vivere e agire come creature nuove, nell’amore del prossimo, nella ricerca efficace della giustizia, nella padronanza di se stesse e nell’esercizio delle virtù. (13)
Ponendo come primo imperativo la rivoluzione radicale dei rapporti sociali e criticando, per questo, la ricerca della perfezione personale, ci si mette sulla via della negazione del significato della persona e della sua trascendenza, e si distrugge l’etica e il suo fondamento che è il carattere assoluto della distinzione tra il bene e il male. Per altro, poiché la carità è il principio della perfezione autentica, questa non può essere concepita senza l’apertura agli altri e senza lo spirito di servizio”.
Di seguito lo zelo dei pastori che cercano di “trovare mezzi efficaci che permettano di porre fine al più presto ad una situazione intollerabile”, rappresentata dalle ineguaglianze e dallo sfruttamento, sono denunciate come “altrettanto rovinose per l’uomo e la sua dignità quanto la miseria” se si dimenticano le corrette priorità. La denuncia è rivolta a una nuova interpretazione che corrompe l’impegno per i poveri a causa della “assunzione non critica di elementi dell’ideologia marxista e il ricorso alle tesi di un’ermeneutica biblica viziata di razionalismo”. Torneremo diffusamente su questo ultimo punto. Ciò che si oppone all’analisi razionalista sulle strutture, nel mentre se ne denuncia non infondatamente la connessione con specifiche posizioni filosofiche ed ideologiche, è semplice:
“il criterio ultimo e decisivo di verità non può essere, in ultima analisi, che un criterio esso stesso teologico. È alla luce della fede, e di ciò che essa ci insegna sulla verità dell’uomo e sul significato ultimo del suo destino, che si deve giudicare della validità o del grado di validità di ciò che le altre discipline propongono, spesso d’altronde in maniera congetturale, come verità sull’uomo, sulla sua storia e sul suo destino”.
E, riguardo alla gerarchia:
“13. Da una simile concezione della Chiesa del popolo si sviluppa una critica delle stesse strutture della Chiesa. Non si tratta soltanto di una correzione fraterna nei confronti dei pastori della Chiesa, il cui comportamento non riflette lo spirito evangelico di servizio e si attiene a espressioni anacronistiche di autorità che scandalizzano i poveri. È anche messa in causa la struttura sacramentale e gerarchica della Chiesa, quale l’ha voluta il Signore stesso. Nella gerarchia e nel Magistero si denunciano i rappresentanti effettivi della classe dominante che è necessario combattere. Dal punto di vista teologico, questa posizione sta a dire che il popolo è la sorgente dei ministeri e che esso può, dunque, scegliersi i propri ministri, in base alle necessità della sua storica missione rivoluzionaria”.
Si conclude, richiamando Paolo VI:
“Noi confessiamo che il Regno di Dio, cominciato quaggiù nella Chiesa di Cristo, ‘non è di questo mondo’, ‘la cui figura passa’; e che la sua vera crescita non può essere confusa con il progresso della civiltà, della scienza e della tecnica umane, ma consiste nel conoscere sempre più profondamente le imperscrutabili ricchezze di Cristo, nello sperare sempre più fortemente i beni eterni, nel rispondere sempre più ardentemente all’amore di Dio, e nel dispensare sempre più abbondantemente la grazia e la santità tra gli uomini”.
Segue una vasta campagna contro i vescovi e teologi sudamericani che portavano avanti i temi della Assemblea Generale di Medellin del 1968 e del “Patto delle catacombe”[11] a favore della lotta delle classi subalterne. Vengono condannati Leonardo Boff[12] e Gustavo Gutíerrez[13], e il tentativo di fare del cristianesimo “uno strumento della trasformazione concreta del mondo”[14]. Nel 1989 ben 311 teologi cattolici, e sedicimila parroci, protestano nella “Dichiarazione di Colonia” contro la volontà di Ratzinger di estendere il magistero papale alla libertà di pensiero. Il tono del nostro inquisitore arriva ad opporsi fermamente alla dichiarazione del Giubileo, nel quale il Papa chiede perdono per gli errori storici della Chiesa, come l’Inquisizione, la persecuzione degli ebrei, la discriminazione delle donne. Per il Prefetto della Congregazione la Chiesa non pecca mai.
Ormai il punto è “respingere il relativismo” (che, attenzione, significa esattamente che tutto il Vero è nel messaggio della gerarchia romana) in favore di “punti fermi” che sono indicati dalla Tradizione romana e cattolica.
Quando ha 77 anni viene candidato dal Papa come successore con l’appoggio della Curia. Gli si contrappongono candidati del lato progressista, in primis Jorge Bergoglio, arcivescovo di Buenos Aires. Del resto Ratzinger è un decano e conosce la macchina vaticana come nessun altro, e vede l’opportunità di portare avanti la sua battaglia di “demondizzazione”, ovvero, come dice nel discorso inaugurale del Conclave, di contrastare la “dittatura del relativismo che non riconosce nulla come definitivo e che lascia come ultima misura solo il proprio io e le sue voglie”. Nel terzo scrutinio Bergoglio prende 40 voti, per costringere Ratzinger (che deve raggiungere i due terzi) a ritirarsi. Soccorre il nuovo regolamento che dal quarto scrutinio passa al ballottaggio a maggioranza semplice. Il 19 aprile 2005 è eletto.
Come Papa combatte aspramente la “canonizzazione del relativismo”, che lascia libertà di critica e di pensiero, e riammette i lefrevbiani e della “messa tridentina” (con il sacerdote rivolto all’altare ed in latino). Attacca l’Islam e concede un’udienza ad Oriana Fallaci, attacca il razionalismo illuminista e la libertà di pensiero, fede ed opinione. Secondo l’interpretazione di Hans Küng nella sua biografia: “Ciò che viene storicamente dopo il Medioevo non interessa a Joseph Ratzinger come uno sviluppo fecondo, ma piuttosto come uno sviluppo pernicioso, una fase della decadenza dell’Occidente”[15]. Ma essere contro l’età moderna tutta significa anche che ci sono valori etici “veri e solidi”, sottratti al dibattito democratico.
Dopo la rinuncia del 11 febbraio 2013 il suo candidato perde contro Bergoglio.
Dal punto di vista filosofico il pensiero di Ratzinger appare connesso con quello di Heidegger su molti e qualificati punti. In un testo del 1968, riletto da Roberto Fineschi[16] viene chiarito che la fede è un salto nell’abisso, in linea di principio infondata su ciò di cui si può avere esperienza, ma che ritiene essere il “vero effettuale”, proprio ciò che non si può esperire. Il pensiero tecnico sarebbe allora quello derivante dalla modernità, per il quale ciò che deve essere fatto diventa il nuovo fondamento ontologico. “La verità con la quale ha a che fare l’uomo non è né la verità dell’essere né alla fine quella delle sue azioni passate, bensì è la verità del cambiamento, della formazione del mondo, una verità riferita al futuro ed all’azione”[17]. Quindi al rapporto tra sapere e fare, proprio della impostazione storicista e tecnicistica, occorre contrapporre quello tra essere immutabile e capire. Si tratta di affidarsi piuttosto alla fede, che è “il consegnarsi al non-fatto-da-sé e mai fattibile, che proprio per questo fa da fondamento e rende possibile tutto il nostro fare”[18]. È la distinzione heideggeriana tra pensiero calcolatore e pensiero della coscienza, tra le quali occorre semplicemente scegliere, senza alcuna argomentazione o ragione. ‘Capire’ è la forma attraverso la quale “riceve il suo rapporto con la verità dell’essere”, cioè “capire il Senso a cui ci si è affidati”. Ancora, “capire significa cogliere e comprendere il Senso, che si è ricevuto come fondamento, come Senso vero e proprio”. Ma chi non accede a questo deve accedervi dialogando con gli illuminati, ovvero con la Chiesa.
In altre parole, da una parte la mossa parte dal dire che la Verità è data nel dettato cattolico, e dobbiamo prenderla per buona così come è, dall’altra aggira l’obbligo di dimostrare una così impegnativa affermazione affermando semplicemente che non è possibile farlo. Una strana forma di universalismo, fondata su un’accettazione idiosincratica, indisponibile al dialogo. Dialogo e discorso razionale che per Hegel è la ‘ragione’ vera e propria, posta tra la ragione strumentale e quella che chiama la cultura dell’immediato.
Per come la mette Fineschi,
“Il ratzingerismo fa sparire tendenziosamente questa terza dimensione e riduce la ragione a mera ragione strumentale; ciò non è casuale ovviamente: si vorrebbe con ciò far credere cioè che alla ‘ragione’ – ridotta a calcolo tout court – c’è una sola alternativa possibile, la legge del cuore; scartata la conoscenza razionale (ma in realtà intellettuale) l’unica alternativa sarebbe l’irrazionalismo mistico cotto in varie salse”.
Il fatto è che in sostanza lui ha paura delle cose che cambiano, le vuole ferme per controllarle meglio, e quindi si rifugia (proprio mentre accelera il cambiamento e la rivolta) nella Tradizione, nella sicurezza e stabilità. Inoltre opera un singolare travestimento del comunitarismo nella gerarchia della Chiesa, la quale è una comunità della conoscenza di Dio che deve essere accettata ‘per fede’, insieme al magistero.
Si potrebbe trattare solo di dispute dottrinali, ma c’è altro. Nella lotta pluridecennale che Ratzinger, in uno con i settori più conservatori della gerarchia cattolica, ha condotto contro i fermenti di liberazione che si manifestavano nel Sudamerica (ma non solo) c’è un sovrappiù. Una precisa scelta di campo.
Dagli anni Sessanta, e poi nella vicenda cilena, la ‘Teologia della liberazione’ era stata un decisivo centro di elaborazione ed irradiazione di un autentico spirito di ribellione al dominio imperialista e alla logica della dipendenza sudamericana, ponendosi con nettezza e coraggio dalla parte dei secondi, e degli ultimi. I settori conservatori della chiesa cattolica, e le organizzazioni della destra, come i settori borghesi più legati al dominio oligarchico e contemporaneamente subalterno alle relazioni di dipendenza internazionali, si schierarono immediatamente contro questa insorgenza, facendogli pagare un pesantissimo tributo fino al versamento del sangue di molti esponenti, grandi e piccoli[19]. Negli anni Ottanta l’opposizione giunse ai diretti pronunciamenti censori della gerarchia centrale; con l’ordine da Roma di emarginare, con i mezzi più brutali, migliaia di sacerdoti, religiosi e laici legati alla “teologia”. E si arrivò in conseguenza alle azioni più violente del braccio armato del capitalismo internazionale. Ad esempio, nel 1980 molti gesuiti che militavano in essa furono uccisi dagli spietati “squadroni della morte” salvadoregni, che non si fermarono neppure davanti al primate. Nel 1980 viene infatti ucciso sull’altare l’arcivescovo Romero[20], morte preceduta dall’omicidio del gesuita Rutilio Grande[21], e seguita, pochi anni dopo, da quello dell’attivista e collaboratrice Marianella Garcia Villas[22]. Sfortunatamente la lista è molto lunga.
Singolare paradosso, che vede persone ed aree che si sentono umiliati ed offesi dalle ineguaglianze delle quali è intessuta la nostra società, schierarsi insieme alle élite di tutto il mondo nella celebrazione, voluta dai più potenti mezzi di manipolazione dell’opinione, della figura centrale della repressione ideologica (e poi materiale) delle istanze di liberazione. Quel Joseph Ratzinger che nel combattere la “mondizzazione” intendeva propriamente affermare il potere gerarchico della Chiesa di Roma e il suo monopolio della Verità, prima e sopra qualsiasi possibilità di discuterne e dissentire.
Né si tratta qui di una mera difesa dell’autonomia del magistero storico di una reverenda istituzione millenaria, o della cultura cristiana, in quanto tale radicalmente indisponibile a schiacciarsi su fonti di valore secolari incompatibili. Per questo ogni Papa, incluso l’ultimo, ha sempre fatto il suo dovere. Si tratta di altro. Della posizione che si prende nei conflitti dirimenti del proprio tempo, e questo, spiace, mette Ratzinger da una parte specifica e chiara: con i più forti.
[1] – Uso questo termine vago, ma autoattribuito, per indicare una complessa costellazione di organizzazioni, individui e testate che sono in disaccordo su tutto, ma concordi a concepirsi come radicalmente opposti allo stato delle cose e dei poteri presenti.
[2] – Rinvio, per una valutazione di questa al mio “La guerra necessaria. Logiche della dipendenza”, La Fionda 2/2022, p. 143.
[3] – Si vedano in particolare le encicliche “Laudato sì”, del 24 maggio 2015, e “Fratelli tutti”, del 3 ottobre 2020. Per una lettura della prima si veda questo post “Papa Francesco, ‘Laudato si”, del 7 luglio 2015.
[4] – Enciclica “Fratelli tutti”, 2020.
[5] – Nel concilio che vide, come previsto e preparato dal predecessore, vincere Ratzinger il più probabile avversario era proprio Bergoglio e nel successivo, quando Benedetto aveva predisposto l’elezione di Angelo Scola, vince al quinto scrutinio.
[6] – Luigino Bruni, “L’arte della gratuità. Come il capitalismo è nato dal cristianesimo e come lo ha tradito”, Avvenire, 2021.
[7] – – Gioacchino da Fiore (1145 – 1202) è stato un monaco cistercense, figlio di un notaio e abate di Corazzo fino al 1187. Esonerato dal papa Clemente III fondò l’eremo di San Giovanni in Fiore e fondò l’ordine florense. Scrisse diverse opere teologiche, alcune perse, come il “De articulis fidei” e il “De unitate seu essentia trintatis”, oltre alcune opere esegetiche e raccolte di sermoni. La storia è riletta da Gioacchino come una successione di stadi, che porterà all’epoca dello Spirito, un’epoca di suprema libertà, perfetta carità, completa spiritualità. Guidata in questo da un ordine religioso perfetto.
[8] – La “Teologia della liberazione” prende le mosse dal Concilio Vaticano II, e trae ispirazione, calandola nella condizione concreta dello sfruttamento, dal tentativo di Giovanni XXIII di aggiornare il pensiero della chiesa nel mondo moderno, intorno al senso della giustizia e dell’amore. Si sviluppa da questo impulso negli anni Sessanta, mettendosi in connessione con la “Teoria della dipendenza”, neomarxista. Dall’altra parte, nell’insegnamento di Gustavo Gutierrez, il cui testo capitale è “Teologia della liberazione. Prospettive”, del 1971, la salvezza viene calata dentro la condizione concreta di povertà e miseria dei poveri e quindi tradotta in un appello di giustizia. Come scrive nel suo libro: “Da una prospettiva di fede ciò che, in ultima analisi, spinge i cristiani a partecipare alla liberazione dei popoli oppressi e delle classi sociali sfruttate, è il convincimento della totale incompatibilità delle esigenze evangeliche con una società ingiusta e alienante” (p.124). Seguono questa linea i fratelli Boff, Jon Sobrino, Enrique Dussel, e Hugo Assmann.
[9] – Roberto Paura, “Indagine su Ratzinger”, 2.12.2002.
[10] – Sacra Congregazione per la Dottrina della Fede, “Istruzione su alcuni aspetti della Teologia della Liberazione”.
[11] – Subito dopo il Concilio alcuni vescovi e teologi firmarono il “Patto delle catacombe”, che elencava 13 punti per porre in attuazione questi principi. In America Latina questo impulso fu particolarmente forte, grazie alla base data dal movimento anni Cinquanta brasiliano delle “comunità di base”, intorno alla figura di Carlos Mesters e la Celam (Conferenza episcopale latino-americana). La Celam organizzò a Medellin un congresso per tradurre le indicazioni conciliari in America Latina. Il tema principale fu che era la dipendenza economica, e la povertà che ne derivava, a contrastare con la volontà di Dio, per cui è la liberazione da questa a dover interessare la chiesa. Ne seguiva il dovere di “difendere, secondo il mandato evangelico, i diritti dei poveri e degli oppressi”, e, quindi, “denunciare energicamente gli abusi e le ingiuste conseguenze delle eccessive disuguaglianze tra ricchi e poveri, tra potenti e deboli” (relazione del vescovo Pironio).
[12] – Ex frate francescano e teologo, dottorato a Monaco nel 1970 avendo come relatore proprio Joseph Ratzinger, è uno dei più importanti esponenti della Teologia della Liberazione sudamericano che lo porta ad un crescente scontro con le gerarchie vaticane. Nel 1984 viene processato a Roma dalla Congregazione per la Dottrina della Fede del suo vecchio professore per effetto delle tesi sostenute in “Chiesa: Carisma e Potere”. Nel 1992 abbandona l’Ordine dei Francescani per effetto delle minacce e denunce ricevute dal Papa Giovanni Paolo II. Da quell’anno si occupa come laico delle comunità cristiane di base brasiliane ed insegna all’università di Rio de Janeiro. Diviene un elemento di spicco del Movimento No Global e sostiene Lula. Nella sua impostazione il nesso tra povertà e capitalismo, e quello tra povertà e globalizzazione economica portano a ritenere che la liberazione cristiana debba essere “integrale”, e non concentrata solo sulla componente spirituale. La sua denuncia dell’atteggiamento delle gerarchie vaticane passa per la qualifica di atteggiamento ‘feudale’, che concepisce la Chiesa come organo del ricco per il povero e non con il povero. Riecheggia il dibattito storico tra Agostino e Pelagio.
[13] – Teologo peruviano dell’Ordine dei frati predicatori, docente all’Università Notre Dame e dottorato a Lione. Nel settembre 1984 l’episcopato peruviano, convocato a Roma per condannarlo, si è opposto fermamente, difendendone l’ortodossia e l’impegno per i poveri. Ha scritto il libro “Teologia della Liberazione”, nel 1972 e, più di recente, “Alla ricerca dei poveri di Gesù Cristo”, nel quale ripercorre la vita di Bartolomeo de Las Casas.
[14] – In Joseph Ratzinger, “Rapporto sulla fede. Vittorio Messori a colloquio con Joseph Ratzinger”, San Paolo edizioni, 2005 (ed. or. 1984).
[15] – Hans Küng, “Una battaglia lunga una vita”, Bur, 2015
[16] – Si tratta di Joseph Ratzinger, “Introduzione al Cristianesimo. Lezioni sul simbolo apostolico della fede”, Queriniana, 2003, citato in Roberto Fineschi, “Annuntio vobis gaudium magnum: habemus papam! Ratzinger, a Roma via Friburgo”, Marxismo oggi”, 2005/2.
[17] – Op.cit, p. 32
[18] – Op.cit., p. 37
[19] – Durante gli ultimi anni Settanta e gli anni Ottanta la ‘Teologia della Liberazione’ pagò un durissimo debito di sangue per la sua scelta di campo, con l’uccisione di tanti gesuiti, come padre Espinal Camps (“Lucho”) in Bolivia, ucciso il 21 marzo 1980, tre giorni prima di Romero in Salvador. Ma dovette subire anche la repressione incruenta della gerarchia cattolica, che partendo dalla Congregazione della Fede coordinata da Ratzinger, mise sotto accusa l’intera tendenza, destituendo padre Arrupe (superiore generale della Compagnia di Gesù) e sostituendo molti vescovi con esponenti dell’Opus dei. Cfr, https://books.fbk.eu/media/pubblicazioni/allegati/Rizzi_10.14598Annali_studi_relig_14201304.pdf
[20] – Oscar Romero viene ucciso il 24 marzo 1980 nella capitale del San Salvador con un colpo di fucile da parte di un cecchino in auto. Eletto nel 1977 grazie all’appoggio dell’oligarchia locale, cambia progressivamente opinione grazie al contatto di teologi della liberazione come Rutilio Grande. Il 12 marzo 1977 padre Rutilio viene assassinato insieme a due catecumeni e l’arcivescovo inizia una battaglia che porterà a continue stragi per vendetta e intimidazione. Ad Aguillares furono uccisi 200 fedeli, e sempre più collaboratori di Romero ne seguirono le sorti. Alla fine, il maggiore Roberto D’Aubisson ordinò la sua stessa morte. Venti giorni prima in un discorso alla radio diocesana disse: “Il martirio è una grazia di Dio che non credo di meritare, ma se Dio accetta il sacrificio della mia vita che il mio sangue sia un seme di libertà e il segno che la speranza sarà presto realtà… Io parlo in prima persona perché questa settimana mi è arrivato un avviso che sto nella lista di coloro che stanno per essere eliminati la prossima settimana. Ma rimanga il punto fermo che la voce della giustizia nessuno mai potrà ammazzarla.” Aveva 63 anni.
[21] – Il gesuita Rutilio Grande, grande amico di Oscar Romero, viene ucciso il 12 marzo 1977 ad Aguilares. Nato da una famiglia povera e parroco di Aguillares, dal 1973 si impegna a creare Comunità Cristiane di Base nelle quali il messaggio religioso viene associato strettamente ad una inflessibile denuncia delle condizioni di sfruttamento economico e sociale. Ancorato alla “Teologia della Liberazione” si impegnò anche per far entrare il suo amico Romero in contatto con le reali condizioni del paese e del suo popolo. D’Aubisson ne ordinò la morte per mettere a tacere la sua voce, ma riuscì solo ad amplificarla. Al suo funerale parteciparono 100.000 persone. Aveva 49 anni.
[22] – L’avvocato Marianella Garcia Villas viene uccisa il 14 marzo 1983 a Suchitoto. Era una figlia della ricca borghesia locale, laureata in legge e filosofia nel 1970 si impegnò sin dall’inizio con le comunità contadine salvadoregne, condividendone la dura vita e impegnandosi nell’Azione Cattolica Universitaria prima poi nel Partito democratico Cristiano dal quale fu presto emarginata ed espulsa. Fuggita dal Salvador e rifugiata in Messico (come tanti in quegli anni) continua ad entrare nel paese per cercare prove delle repressioni e denunciarle all’Onu. Nel corso di una di queste incursioni, mentre nel 1983 cercava prove dell’utilizzo del fosforo bianco nelle repressioni della giunta militare, pur sapendo di essere in testa alla lista delle persone da uccidere (D’Aubisson l’aveva mostrata in televisione con tanto di foto), fu oggetto di un agguato, ferita, catturata, selvaggiamente torturata e abbandonata in una discarica in un cumulo di cadaveri. Aveva 39 anni.
FONTE: https://tempofertile.blogspot.com/2023/01/poche-note-sulla-morte-di-joseph.html?m=1
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