Escalation in Israele. Stavolta però a infuocare la Terra Santa non è una nuova intifada o uno scontro con Hamas sulla striscia di Gaza. La coalizione di governo che fa capo al premier Benjamin Netanyahu da mesi insiste sulla necessità di approvare la controversa riforma della giustizia, che ha attirato feroci critiche da opposizioni, esercito e perfino dalla comunità internazionale. Tra domenica 26 e lunedì 27 marzo la situazione è esplosa.
1. Perché sono scoppiate le proteste in Israele
Il popolo israeliano quest’anno è sceso in piazza la prima volta a gennaio per manifestare contro la riforma della giustizia. I tafferugli sono proseguiti anche nel mese di febbraio, mentre la Knesset cominciava a discutere, non senza polemiche, il provvedimento. Nelle ultime ore gli scontri con la polizia, in particolare a Gerusalemme e nei pressi della residenza del Primo ministro dove i manifestanti hanno cercato di sfondare le barricate, sono stati tra i più violenti dall’inizio delle proteste. Il motivo va rintracciato nella decisione, annunciata da Netanyahu, di licenziare il ministro della Difesa Yoav Galant. Galant si era espresso contro l’approvazione della riforma, chiedendo di sospendere l’iter legislativo. Il premier non ha accettato la titubanza del suo ministro, silurandolo.
La mobilitazione è partita subito in tutto il Paese: più di 600mila persone si sono riversate nelle strade delle principali città israeliane. Il sindacato Histadrut, la più grande organizzazione sindacale d’Israele, ha indetto (e poi terminato) uno sciopero generale straordinario, così come l’ordine dei medici, l’ordine degli avvocati, i centri commerciali della catena Big e i lavoratori dell’aeroporto Ben Gurion di Tel Aviv, che ha bloccato tutti i voli in partenza. Intanto una contromanifestazione organizzata dall’estrema destra israeliana è stata programmata lunedì. Il ministro delle Finanze Bezalel Smotrich ha invitato i suoi sostenitori a radunarsi oggi pomeriggio: “Non dobbiamo fermare per alcun motivo la riforma. Siamo la maggioranza, non dobbiamo arrenderci alla violenza, all’anarchia, agli scioperi selvaggi, alla disobbedienza. Ci troviamo tutti alle 18:00 alla Knesset. Non consentiremo che ci rubino i nostri voti e il nostro Stato”, ha affermato Smotrich in un tweet.
In un discorso dai toni più conciliatori, il Premier ha invitato i manifestanti di entrambi gli schieramenti a “mostrare responsabilità e a non ricorrere alla violenza”, ma intanto contro di lui si erano schierati il corpo diplomatico, alcuni settori e personalità di primo piano delle forze armate e la società civile. E fuori dalla Knesset erano già in 80mila a contestarlo. Alla fine però Netanyahu si è arreso e nella serata israeliana ha annunciato la sospensione temporanea della riforma, rimandata alla sessione estiva della Knesset che comincerà a maggio.
2. Cosa prevede la riforma della giustizia
In Israele vige la common law, cioè lo Stato è imperniato su quello che in gergo viene definito diritto consuetudinario. Non esiste una costituzione scritta, ma soltanto alcune leggi fondamentali (in ebraico huqey ha-yesod) che regolano i rapporti tra lo Stato e i cittadini e nell’ordinamento israeliano occupano il rango più alto. Questo sistema conferisce alla Corte suprema un potere ragguardevole. Può abolire qualsiasi atto, non solo della Knesset ma anche del governo, purché sia ritenuto contrario o “irragionevole” rispetto a quanto prescritto dalle leggi fondamentali.
La riforma proposta dal ministro della Giustizia Yariv Levin rovescerebbe l’autorità detenuta dalla Corte modificando le modalità di nomina dei 15 giudici associati. Oggi i membri vengono nominati dal presidente di Israele che però non li seleziona: ne hanno facoltà i componenti di una commissione incaricata ad hoc di cui fanno parte nove elementi (tre giudici, due avvocati dell’associazione forense israeliana, due funzionari del governo e due parlamentari). Il governo di Netanyahu, con questa riforma, vorrebbe aumentare il numero dei membri “politici” portandolo a otto, diventando così la Corte suprema un organo diretta emanazione dell’esecutivo.
Inoltre, se approvata, la riforma consentirebbe alla Knesset di far passare qualsiasi legge esautorando di fatto il potere giudiziario, che così si limiterebbe a un formale controllo costituzionale. Ma non solo: in un altro passaggio controverso della legge, qualsiasi sentenza in contrasto con quanto stabilito dal parlamento potrebbe essere annullata con una votazione a maggioranza semplice alla Knesset. La proposta così formulata è stata criticata poiché rischierebbe di compromettere la separazione dei poteri. Secondo l’alto commissario per i diritti umani dell’Onu, Volker Turk, tali modifiche nel loro insieme “metterebbero a serio rischio l’efficacia della magistratura nel difendere lo stato di diritto, i diritti umani e l’indipendenza giudiziaria”. Il provvedimento è stato approvato in prima lettura il 21 febbraio scorso, prima di venire congelato dal governo.
3. Il rischio di una crisi di governo
Le ultime elezioni israeliane hanno premiato la coalizione capeggiata dal partito conservatore Likud e dal suo candidato Benjamin Netanyahu. Rispetto agli anni passati, “Bibi” ha scelto la creazione di un governo sostenuto e composto, oltre che dalle formazioni ortodosse, anche dalle frange più estremiste della politica israeliana, in particolare dal partito Potere ebraico del ministro Itamar Ben-Gvir e dal Partito Sionista Religioso il cui leader, Bezalel Smotrich, si è descritto come un “fascista omofobo”. Queste due anime, le più intransigenti e imprevedibili da gestire all’interno della coalizione, hanno procurato non poco imbarazzo al Premier. Ben-Gvir ha già fatto sapere che se la riforma della giustizia non verrà approvata, si dimetterà non prima di aver avuto un “faccia a faccia” con Netanyahu, che però ha promesso di prolungare i tempi per consentire il dialogo tra le parti. L’accordo sul rinvio è stato raggiunto durante la giornata. In cambio, il ministro della Sicurezza otterrà la costituzione di una milizia dipendente dal suo ministero, la guardia nazionale.
La linea dura sugli insediamenti in Cisgiordania e la politica sempre più securitaria dello Stato hanno garantito consensi facili a Netanyahu, complici l’ombra iraniana in Siria e la minaccia perenne degli attacchi terroristici. La scommessa del Primo ministro di puntare su un tema divisivo come la giustizia (in passato i tentativi di riforma sono stati puntualmente bocciati o rimandati) non ha prodotto il risultato previsto e ora Netanyahu non ha alternativa se non fermare questo processo, evitando di alimentare il conflitto. Israele, Paese di forte tradizione consociativistica, viene inoltre da due anni di un travagliato governo di unità nazionale, prima con Naftali Bennett, poi con Yair Lapid al timone. Forzare la mano in questo modo non avrebbe funzionato a prescindere dal colore politico di chi ha proposto questa legge.
Adesso il rischio è quello di ripiombare nell’ennesima crisi di governo, la quale potrebbe accompagnare la nazione al sesto appuntamento elettorale in quattro anni. Il presidente laburista Isaac Herzog, una figura eminentemente cerimoniale, ha avvertito del pericolo di una guerra civile e ha chiesto di bloccare immediatamente la riforma giudiziaria. Appelli rimasti inascoltati, almeno fino a oggi.
4. Le reazioni internazionali
I disordini in Israele potrebbero avvantaggiare una potenza straniera nemica di Tel Aviv. A dirlo sono l’ex primo ministro Bennett e l’ormai ex capo delle Idf, Galant. “I nemici di Israele stanno considerando un’offensiva militare su tutti i fronti, questa è una possibilità reale”, ha sottolineato Galant alla commissione Affari esteri e sicurezza della Knesset.
Gli Usa, i principali alleati di Tel Aviv, monitorano con preoccupazione le ultime novità in Medio Oriente. Un primo “strappo” c’era già stato durante la visita ufficiale del segretario di Stato Antony Blinken, allarmato dai piani di occupazione illegale della West Bank. Ora a parlare è il portavoce John Kirby, che interviene a nome della Casa Bianca: “Gli Stati Uniti sono profondamente preoccupati per lo sviluppo degli eventi in Israele, compreso il potenziale impatto sulla prontezza militare sollevato dal ministro (della Difesa) Yoav Gallant, che sottolinea l’urgente necessità di un compromesso”. In tutto questo tempo una persona non si è ancora espressa: Joe Biden.
Il presidente Usa ha evitato di criticare direttamente Netanyahu, ma, come fa notare il giornale israeliano Haaretz, “non è che a Biden non interessi il futuro di Israele, gli sta molto a cuore, ma governare significa scegliere”. “L’ultima cosa – evidenzia l’autore Aaron David Miller – a cui vuole pensare ora è il problema della terra troppo promessa: cosa fare di Israele e dei palestinesi o la crisi del sistema politico israeliano. Se potesse scegliere, Benjamin Netanyahu non lo disturberebbe fino alla fine del suo secondo mandato, ammesso che ne avrà uno”. La cautela americana potrebbe presto oltrepassare la soglia di ciò che è tollerabile. “Biden – prosegue l’articolo di Haaretz – è innamorato di Israele, non di Netanyahu, che vede come una sorta di truffatore, ma la cui longevità e apparente permanenza nella narrativa israeliana lo rendono una forza con cui deve confrontarsi”.
5. La posizione di Netanyahu tra scontri e processi
Non sarà un perseguitato, ma i processi contro Benjamin Netanyahu tengono col fiato sospeso tutti i suoi elettori. Il capo dell’esecutivo israeliano è indagato da tre anni con l’accusa di corruzione e quando fu estromesso dalla guida del Paese in tanti pensarono che la sua vita ai vertici delle istituzioni fosse giunta al capolinea. Invece, come l’animale anziano troppo orgoglioso per dirsi vinto, con un colpo di coda è riuscito a tornare primo ministro, sostenuto all’unanimità dal suo partito Likud. Eppure la crisi sulla riforma della giustizia pone “Bibi” in una condizione alquanto precaria.
Per stroncare sul nascere qualsiasi nuovo tentativo di mettergli i bastoni fra le ruote, Netanyahu ha fatto approvare alla Knesset una legge che impedisce al procuratore generale di rimuovere il premier dal suo incarico, garantendosi una sorta di immunità finché siederà nella poltrona di primo ministro. Questa opzione radicale era stata presa in considerazione dal magistrato israeliano Gali Baharav-Miara per risolvere la vexata questio della riforma della giustizia, ma alla fine il leader di Likud è riuscito a spuntarla ancora una volta. Contromisure obbligate dal suo punto di vista: basteranno per resistere alle piazze che si gonfiano ogni giorno di più?
FONTE:https://it.insideover.com/politica/israele-scontri-proteste-riforma-giustizia-netanyahu.html
Commenti recenti