Come la “nuova Europa” ha gettato la “vecchia” sull’orlo del precipizio
di L’ANTIDIPLOMATICO (Giacomo Gabellini)
A partire dal 1991, la Germania si rivelò capace di cogliere l’occasione presentatasi con il crollo dell’Urss per affinare ulteriormente il proprio livello di specializzazione nella produzione di beni di investimento complessi (automobili, aerei, treni, ecc.) e in tutti i vari aspetti della logistica, nonché per verticalizzare la manifattura e il commercio estero mediante la delocalizzazione delle produzioni dal ridotto valore aggiunto presso i Paesi dell’Europa centro-orientale. Nell’arco di pochi anni, il fenomeno ha consentito a Berlino di riprodurre nel cuore del “vecchio continente” il modello giapponese di specializzazione industriale nei comparti ad alto e/o altissimo valore aggiunto – con polacchi, ungheresi, cechi, sloveni, ecc. che hanno vestito i panni di malesi, taiwanesi, indonesiani e coreani – in grado di aggirare gli effetti negativi prodotti dai salari relativamente elevati e dall’orario di lavoro sempre più corto degli operai tedeschi.
Anni ’90: la Mitteleuropa a guida tedesca
Il risultato è stata la trasformazione dell’intera area mitteleuropea, già protagonista di un rapido processo di integrazione nella Nato, in fornitrice di componenti semilavorati per conto dell’hub industriale tedesco, le cui esportazioni cominciarono a caratterizzarsi da quel momento da un forte contenuto di importazioni. Come ha spiegato Marcello De Cecco nel 2009: «la Germania, negli ultimi due decenni, ha sviluppato una struttura geografica e anche merceologica del commercio estero abbastanza simile a quella che aveva prima del 1914. È riuscita a costituire al centro dell’Europa un enorme blocco manifatturiero integrato, includendo via via tutte le aree industriali ad essa vicine in una rete produttiva le cui maglie sono divenute sempre più strette. La misura della integrazione del sistema produttivo che la Germania ha ricreato al centro dell’Europa dopo la caduta del muro di Berlino è data dal rango che nelle statistiche tedesche ricoprono piccoli Paesi della Mitteleuropa come Slovacchia, Repubblica Ceca, Ungheria […] [, ma anche Polonia, Romania, Belgio, Olanda, Austria e Svizzera]. Ciascuno di questi Paesi, nella classifica mondiale per esportazioni e importazioni, occupa posizioni assai inferiori a quelle che ha come partner commerciale della Germania. E quasi tutti, poiché o adottano l’euro o hanno monete ad esso agganciate, hanno poco da preoccuparsi dello squilibrio dei loro conti con i tedeschi».
Naturalmente, il ruolo di dominus rivestito dalla Germania in ambito comunitario ha comportato l’allineamento delle politiche europee alle necessità tedesche. Prova ne è la decisione del Consiglio d’Europa di ridurre del 35% i finanziamenti destinati ai Paesi mediterranei che erano stati concordati per il periodo 1992-1996 per riorientarli verso l’Europa orientale. Da allora, le sovvenzioni sono cresciute di anno in anno benché i Paesi destinatari degli aiuti non avessero l’obbligo di conformarsi agli stessi, rigidissimi criteri d’austerità a cui erano chiamati ad adeguarsi i membri dell’eurozona, sottoposti ai vincoli della Banca Centrale Europea.
Anni 2000: la pioggia di aiuti europei alla Polonia
La Polonia, nazione strategicamente cruciale per la penetrazione economica tedesca verso est e per la sua posizione geografica di “ponte” tra Russia ed Europa continentale, è stata letteralmente investita da una pioggia di aiuti economici europei (oltre 81 miliardi di euro tra il 2007 e il 2013) grazie ai quali Varsavia ha avuto modo di ammodernare la rete dei trasporti nell’ambito di un poderoso programma di ricostruzione delle fondamentali infrastrutture nazionali che ha inciso poco o nulla in termini di indebitamento (il debito pubblico e di poco superiore al 50% del Pil). Tra il 2008 e il 2016, moltissime imprese multinazionali hanno aperto propri stabilimenti in Polonia favorendo il dimezzamento del tasso di disoccupazione (15,2% del 2004 al 7,7% del 2014) e il rilancio della produttività interna. Nazioni anch’esse caratterizzate da basso costo del lavoro e da una manodopera di buon livello quali Ungheria, Repubblica Ceca e Slovacchia hanno imboccato processi di sviluppo paragonabili a quello polacco, beneficiando a loro volta della delocalizzazione degli impianti produttivi e dell’ampio margine di manovra in ambito di interventi statali sull’economia incoraggiati dalle regole europee.
Nel corso degli anni, l’Europa orientale si è gradualmente emancipata dal ruolo di mera subfornitrice dell’industria tedesca, adattandosi a svolgere le fasi produttive più complesse; un fenomeno che trae origine dalla carenza di manodopera qualificata in Germania, dove – a differenza dei Paesi mitteleuropei – le scuole vocazionali hanno cominciato a perdere buona parte della loro attrattiva in favore delle università. Questo, per lo meno, è quanto asserito dalla maggioranza del Bundestag per giustificare l’introduzione di un disegno di legge atto a schiudere le porte tedesche a migliaia di lavoratori qualificati provenienti dai Paesi non aderenti all’Unione Europea, nonostante i forti sospetti sollevati in alcuni ambienti progressisti secondo cui l’intera manovra sarebbe frutto di una campagna orchestrata dagli industriali tedeschi interessati a rinfoltire l’esercito di manodopera scarsamente retribuita per mantenere costante la pressione sui salari interni.
Il fenomeno delle “reverse maquiladoras” nel cuore dell’Europa
Fatto sta che la presunta scarsità di operai altamente specializzati è stata sfruttata come pretesto dalle imprese manifatturiere tedesche per riprodurre nel cuore dell’Europa il fenomeno, fino ad allora confinato al continente nordamericano, delle reverse maquiladoras, coniato in riferimento agli stabilimenti messicani in cui si assemblano prodotti statunitensi dall’elevato valore aggiunto. Non è un caso che, tra il 1998 e il 2013, quasi il 60% del valore aggiunto della produzione tedesca sia stato realizzato proprio con manifatture a elevato impiego di manodopera disseminate nella Mitteleuropa, oltre che in Danimarca, Finlandia, Svezia, Austria, Benelux e Italia settentrionale. La Germania si è imposta come principale partner commerciale praticamente di tutti questi Paesi; l’interscambio realizzato con Austria, Repubblica Ceca, Lussemburgo, Olanda, Slovacchia, Ungheria e Polonia è in genere più del doppio rispetto a quello che gli Stessi accumulano con il loro secondo partner commerciale.
La strategia mercantilistica tedesca, all’origine dei colossali avanzi commerciali inanellati dalla Bundesrepublik anno dopo anno, è stata costruita proprio sul blocco geoeconomico dai cambi depressi e dalla manodopera a basso costo allestito da Berlino nel cuore dell’Europa. Nonché sulla compressione della domanda interna, sulla strutturale sottovalutazione dell’euro e sulla praticamente illimitata disponibilità di materie prime ed energia a prezzi fortemente contenuti messa a disposizione dalla Russia. I flussi energetici russi, in particolare, hanno garantito una fondamentale spinta propulsiva alle poderosa macchina esportatrice tedesca, ma sono sempre stati guardati con forte irritazione dalle nazioni dell’Europa orientale. A partire dalla Polonia, Paese di stretta osservanza atlantista legato alla Russia da rapporti storicamente difficili e timoroso di ritrovarsi stritolato dall’“abbraccio mortale” russo-tedesco. Per l’esecutivo di Varsavia, il raddoppio del Nord Stream realizzato da Berlino e Mosca con l’obiettivo specifico di rafforzare il collegamento diretto tra fornitore e acquirente aggirando in pianta stabile gli inaffidabili partner dell’Europa orientale (Ucraina in primis, responsabile di sistematici “prelievi” sulle forniture russe destinate all’Europa occidentale), rappresentava un vero e proprio “Patto Molotov-Von Ribbentrop 2.0”.
Gli Stati Uniti entrano in scena contro il “Patto Molotov-Von Ribbentrop 2.0”
È in questo complicato contesto che è andato innestandosi l’attivismo degli Stati Uniti; avendo già conseguito l’arruolamento nella Nato di praticamente tutta i Paesi europei collocati ad est della linea Oder-Neiße in spregio agli accordi verbali siglati nel 1990 tra James Baker e Mikhail Gorbacëv, Washington cominciò a dedicarsi all’erosione del legame energetico tra Russia ed Europa. Nello specifico, gli Usa accordarono pieno supporto alla costruzione del gasdotto trans-adriatico in quanto funzionale, al pari del già esistente oleodotto Baku-Tbilisi-Ceyhan, all’obiettivo strategico di allentare il vincolo di dipendenza europea dai rifornimenti di idrocarburi russi. D’altro canto, già sotto Trump ma con accresciuta convinzione in seguito all’insediamento dell’amministrazione Biden, gli Usa moltiplicarono gli sforzi per sabotare la realizzazione del gasdotto Nord Stream-2, intensificando le pressioni diplomatiche sul governo di Angela Merkel e predisponendo una serie di sanzioni contro tutte le imprese coinvolte nella costruzione della conduttura ai sensi del Countering America’s Adversaries Though Sanction Act del 2017 e del Protecting Europe’s Energy Security Act del 2019.
L’imponente campagna montata da Washington contro la conduttura scontava l’approvazione dei Paesi dell’Europa orientale, la cui domanda di “sicurezza energetica” trovò parziale soddisfazione con l’intervento “provvidenziale” dell’amministrazione Trump, che nel giugno del 2017 inviò la prima fornitura di Gnl verso l’impianto di rigassificazione polacco di Swinoujscie – costruito ad hoc – e predisposto ulteriori consegne sia a questo che ad altri terminali. A partire da quello che sorge presso l’isola croata di Krk, cofinanziato dall’Unione Europea a dispetto dei costi vertiginosi (circa 600 milioni di euro), del colossale impatto ambientale e dell’anti-economicità del Gnl statunitense rispetto al gas russo perché funzionale alla diversificazione delle fonti di approvvigionamento e, soprattutto, perfettamente confacente al progetto Usa mirato a ridisegnare il sistema di distribuzione energetica europea. L’impianto di Krk è stato infatti concepito per essere collegato a quello Swinoujscie attraverso un apposito corridoio nord-sud ancorato al Northern Gateway, un gasdotto baltico progettato per garantire l’afflusso di metano norvegese estratto del Mare del Nord e trasformare la Polonia in un importante distributore di gas naturale alternativo a quello russo per tutta l’Europa centrale, grazie anche alla serie di inter-connettori realizzati verso Lituania, Slovacchia e Ucraina. Il che spiega le manifestazioni di giubilo inscenate urbi et orbi dal parlamentare europeo ed ex ministro degli Esteri polacco Radoslaw Sikorski – oltre che dall’immancabile Victoria Nuland – in relazione alla messa fuori uso dei gasdotti Nord Stream-1 e Nord Stream-2, successivamente attribuito da Seymour Hersh a un’operazione di sabotaggio congiunta tra Stati Uniti e Norvegia.
Il “Trimarium”, la presenza militare Usa e il disaccoppiamento dalla Russia
Il notevole attivismo registrato in Europa centro-orientale è maturato nell’ambito del Trimarium, una versione del vecchio Intermarium aggiornata al XXI Secolo e declinata secondo un canone spiccatamente geoeconomico, implicante l’unificazione del “grande spazio” ricompreso tra il Baltico, il Mar Nero e l’Adriatico attraverso un programma di ammodernamento infrastrutturale (ferrovie, autostrade, condutture energetiche e canali) che favorisca le interconnessioni tra i Paesi aderenti, vale a dire Polonia, Repubblica Ceca, Slovacchia, Ungheria, Estonia, Lettonia, Lituania, Austria, Slovenia, Croazia, Romania e Bulgaria. Legandosi tra loro attraverso il Trimarium, gli Stati partecipanti al progetto hanno impresso una forte accelerata al processo di “disaccoppiamento” dalla Russia nei settori non solo economico, ma anche strategico. Lo si evince dall’incremento astronomico degli stanziamenti alla difesa registrati tra il 2010 e il 2019 in tutti i Paesi europei che sorgono lungo questa nuova “cortina di ferro”: +232% in Lituania, +178% in Lettonia, +165% in Bulgaria, +154% in Romania e +51% in Polonia. Anche l’Ucraina, che non appartiene all’Alleanza Atlantica né al Trimarium, ha aumentato le spese militari del 132%. Lo scopo del Trimarium risultava quindi chiaro fin dall’inizio: si trattava di «colpire la Russia facendo calare il suo export di gas in Europa (obiettivo realizzabile solo se l’export di gas Usa, più caro di quello russo, sarà incentivato con forti sovvenzioni statali); legare ancor più agli Usa l’Europa centrale e orientale non solo militarmente ma economicamente, in concorrenza con la Germania e altre potenze europee; creare all’interno dell’Europa una macroregione (quella dei “tre mari”) a sovranità limitata, direttamente sotto influenza Usa, che spezzerebbe di fatto l’Unione Europea e si allargherebbe all’Ucraina e oltre».
Nell’ottica statunitense, il Trimarium si configura quindi come uno strumento particolarmente congeniale alla strategia del “doppio contenimento” (russo e tedesco) perché sancisce la ripartizione di gran parte dello spazio geopolitico che si estende tra Mosca e Berlino in zone di influenza da assegnare a ciascun Paese membro su cui scaricare parte assai ragguardevole dei costi necessari alla costruzione delle infrastrutture previste dal progetto. Tra cui spicca l’importante linea ferroviaria idonea al trasporto militare che collega il porto baltico di Danzica a quello eusino di Costanza a una distanza di sicurezza dalle avanzate strumentazioni di guerra elettronica russe installate a Kaliningrad e (potenzialmente) in Transnistria. Il tracciato ferroviario è difeso alle sue estremità dalle installazioni Nato di Redzikowo e Deveselu, dove stazionano le basi missilistiche a doppio uso Aegis, e nel suo segmento centrale dalle basi aeree di ?ask e Câmpia Turzii, dotate di caccia F-35A Lighting e droni Mq-9 Reaper. Il governo di Varsavia ha addirittura manifestato a Washington la propria disponibilità a stanziare due miliardi di dollari per la costruzione di una struttura presso la cittadina di Orzysz, situata a ridosso di Kaliningrad in cui ospitare una divisione corazzata Usa, che il presidente Andrzej Duda propose addirittura di battezzare Fort Trump.
L’idea è quella di insediare in pianta stabile la presenza militare statunitense oltre l’ex “cortina di ferro” per la prima volta dal crollo dell’Unione Sovietica, attraverso la trasformazione della Polonia in una sorta di «portaerei inaffondabile degli Stati Uniti» – per usare un’espressione pronunciata a suo tempo da un membro di alto profilo del governo di Jaroslaw Kaczyski – dotata di armi nucleari. L’idea, già ventilata nel 2019, è tornata prepotentemente in auge in seguito all’invasione russa dell’Ucraina, che ha visto la Polonia collocarsi su posizioni addirittura più oltranziste rispetto a quelle anglo-statunitensi. Lo si evince dalle esternazioni del primo ministro Mateusz Morawiecki, che nel corso di una intervista rilasciata lo scorso febbraio al «Corriere della Sera» ha dichiarato testualmente che «sconfiggere la Russia è una ragion di Stato sia polacca che europea», e che «con i terroristi non si tratta. E la Russia è diventata oggi uno Stato terrorista».
Nei giorni successivi, ha scritto su Twitter che «l’Impero del Male è rinato ad est. I barbari russi non minacciano soltanto l’Ucraina. Minacciano l’intera Europa e tutto il mondo libero. Non si tratta di un semplice incidente, di una coincidenza, dell’impulso di un maniaco. Putin ha costruito il suo Impero del Male per 23 anni, in preparazione di questo conflitto. La “nuova Europa” lo capisce. È ora che lo comprenda anche la “vecchia Europa”».
Concetti sostanzialmente analoghi erano stati espressi durante una pressoché concomitante visita alla Casa Bianca, in occasione della quale Morawiecki aveva proclamato la Polonia «leader della “nuova Europa”» in virtù del «fallimento della “vecchia Europa”» a trazione franco-tedesca. Una dicotomia che rievoca la distinzione proposta per la prima volta agli albori del 2003 dal segretario alla Difesa Usa Donald Rumsfeld, che additava il supporto al piano di invasione dell’Iraq accordato senza remore dalla “nuova Europa” appena inglobata nella Nato come esempio positivo da contrapporre all’atteggiamento da voltagabbana adottato in proposito dalla “vecchia Europa” – in sede di Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, la Francia si era addirittura spinta ad avvalersi, di concerto con Cina e Russia, del diritto di veto per bocciare proposta di aggressione dell’Iraq presentata dagli Usa.
Allo stesso modo, l’uscita di Morawiecki si configura come un palese riferimento sia ai tentennamenti manifestati dal cancelliere Scholz nel momento in cui si trattava di autorizzare la cessione all’Ucraina dei Leopard-2, sia al recente viaggio di Macron in Cina, che ha visto il presidente francese sottoscrivere una dichiarazione congiunta con Xi Jinping in cui – tra le altre cose – si affermava l’adesione della Francia alla politica di “una sola Cina”. Per quanto co-dettata da logiche di bottega (spendere dinnanzi all’elettorato francese un argomento utile a placare la contestazione interna), la presa di posizione di Macron evidenzia la crescente insofferenza che una quota sempre più consistente di opinione pubblica europea avverte rispetto all’appiattimento del “vecchio continente” sulle posizioni statunitensi. Di cui la “nuova Europa” a guida polacca intende ergersi a portavoce, anche a costo di sospingere l’intero continente sull’orlo del baratro. E nonostante debba il proprio sviluppo economico all’integrazione nel blocco manifatturiero tedesco, cuore pulsante della “vecchia Europa”.
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