Scoppia la pace tra Siria e Paesi arabi. L’ira degli Stati Uniti
di INSIDE OVER (Marco Valle)
Chi la dura la vince. Questo potrebbe essere, dopo dodici crudeli anni di solitudine, la divisa di Bashar al Assad, il presidente di una Siria martoriata, divisa, insanguinata ma non più (ed è questa la novità geopolitica) isolata, disprezzata, reietta. Lo scorso 18 aprile il leader ha ricevuto a Damasco nel suo palazzo in stile moscovita (un’eredità del lontano flirt filo sovietico del defunto babbo Hafez al Assad) niente po’ po’ di meno che il principe Feysal Ben Farhan, il capo della diplomazia saudita. L’arci nemico di ieri e dell’altro ieri è arrivato sventolando ramoscelli d’ulivo, per l’occasione sotto forma di aiuti economici per la ricostruzione, e con l’impegno ufficiale, undici anni dopo la sua espulsione, per il rientro della Siria nella Lega Araba. Probabilmente Assad sarà già presente – nonostante le perplessità di Qatar e Kuwait – alla prossima riunione inter-araba, prevista a Riyad il prossimo 19 maggio, e a breve sarà ospite ufficiale nel regno dei Saud. Per la cronaca la visita damascena è stata preceduta dall’incontro a Gedda tra i maggiorenti della petrol-monarchia e il ministro degli Esteri siriano Feysal Mekdada per l’annuncio congiunto del ristabilimento delle relazioni diplomatiche e dei collegamenti aerei tra i due paesi.
A sigillo dell’intesa, come si legge nel comunicato ufficiale, i due governi si sono impegnati solennemente ad agevolare – grazie ai fondi sauditi – il ritorno in Patria dei rifugiati siriani (sei milioni sparsi in tutto il globo) e a creare le “condizioni per un processo di riconciliazione nazionale“. Un lavorio intenso che conferma una volta di più la nuova postura internazionale dell’Arabia Saudita dopo lo storico accordo con l’Iran patrocinato dalla Cina e l’avvio di negoziati per la cessazione della guerra nello Yemen.
La normalizzazione con Damasco si inserisce nel nuovo attivismo regionale voluto dal principe ereditario Mohammad Bin Salman (MBS per amici e detrattori) in una logica sempre più autonoma e distante dai voleri dell’antico alleato statunitense e sicuramente fissa una pietra tombale sulle convulsioni scatenate dalle nefaste “primavere arabe” del 2011 benedette da Barack Obama (e largamente propagandate e finanziate da centrali occidentali).
Ufficialmente Washington ha glissato sulla notizia ma secondo gli analisti più attenti l’irritazione della Casa Bianca è massima. Il nuovo rapporto di Riyad con Pechino, la benevola neutralità saudita verso la Russia e ora il nuovo feeling con il regime di Damasco smontano una volta di più i piani di “normalizzazione” americana in Medio Oriente. Per il momento MBS sembra imperturbabile e insensibile ai mal pancia e ai mal di testa d’oltre Atlantico e prosegue spedito per la sua strada. Agli occhi del principe la stabilizzazione dell’area sotto la leadership saudita è parte centrale del piano di riforme interne “Vision 2030” e all’ultima riunione del Consiglio di Cooperazione del Golfo – presenti anche i ministri degli esteri di Egitto, Iraq e Giordania – ha fissato una tabella di marcia valida per tutti: se Damasco deve riprendersi i suoi profughi e intensificare la lotta contro il narco traffico (la Siria è il centro della produzione di Captagon, un’anfetamina che dilaga in tutto il mondo arabo), in cambio va inasprita la battaglia comune contro il terrorismo fondamentalista e le ingerenze straniere in Siria debbono finire. A questo proposito ogni riferimento agli iraniani è voluto come è sottointesa la cessazione di aiuti da parte delle varie monarchie petrolifere all’opposizione sunnita siriana.
Un segnale chiaro. Dopo gli Emirati Arabi, la Giordania e l’Egitto, la settimana scorsa anche la Tunisia ha annunciato il ripristino pieno delle relazioni diplomatiche con Damasco. Bashar al Assad è tornato presentabile e invitabile. Con buona pace di Joe Biden.
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