Prima dell’alluvione: le responsabilità delle amministrazioni locali
di GLI ASINI (Elena Piffero)
Ripubblichiamo un pezzo del 2020 sull’alluvione a Nonantola
Nonantola, inizio dicembre 2020: scatta l’allerta arancione per criticità idraulica. È in corso una piena imponente e si teme un’esondazione del fiume Panaro, ma verso le 7:30 di mattina di domenica 6 dicembre, quando l’acqua è alta sì ma ancora un paio di metri al di sotto del colmo, si apre una breccia nell’argine destro del fiume. Metà del paese finisce sott’acqua, inclusi la zona artigianale, un asilo, parte delle scuole elementari, le scuole medie, l’archivio di materiale archeologico del Museo di Nonantola, l’ufficio anagrafe, la biblioteca, la scuola di musica, la farmacia comunale. Si salvano la parte orientale del paese, tutto il centro storico e l’Abbazia, protetti dalla barriera del Canal Torbido e più alti rispetto alla campagna circostante: i monaci benedettini del VIII secolo sapevano il fatto loro. Anche durante la storica alluvione del 1966, in cui le acque del Panaro sommersero circa 9.600 ettari di territorio, l’acqua si fermò lì.
Cronache di un disastro se non proprio annunciato, di certo non inaspettato.
Prima di tutto, perché il nodo idraulico di Modena, con due fiumi a carattere torrentizio, il Secchia e il Panaro, è uno dei più problematici della regione, che già di per sé ha la percentuale di popolazione esposta alle alluvioni più alta d’Italia: oltre il 63% secondo Arpae. Rotte e tracimazioni di uno o entrambi i fiumi si sono verificate nel 1966, 1969, 1972, 1973 e, seppure su scala minore, 1982. 37mila circa gli ettari complessivamente allagati.
Secondo, per l’aumento di frequenza, negli ultimi anni, di eventi meteorologici intensi, non più “eccezionali” o “estremi” ma parte di una nuova normalità legata ai cambiamenti climatici. Peraltro lo scenario in questione (piogge torrenziali sulla neve caduta di recente sull’Appennino tosco-emiliano) era stato delineato già alcuni giorni prima dai modelli meteorologici quindi improvviso non era.
Terzo: quel tratto di argine era già stato soggetto di recente a un parziale collasso a poche decine di metri dalla falla apertasi a dicembre. Nella relazione di cento pagine depositata a seguito della rotta arginale del Secchia nel 2014, due pagine sono dedicate a descrivere un “ribassamento locale della sommità [dell’argine del Panaro] di circa 3m. Il terreno collassato sarebbe stato interessato da fenomeni di filtrazione ed erosione se non fosse stato tempestivamente compattato utilizzando una ruspa intervenuta sul posto”.
Ricorda spesso dalle pagine di “Altreconomia” Paolo Pileri, docente di pianificazione e progettazione urbanistica al Politecnico di Milano, che in Italia abbiamo una tendenza consolidata ad autoassolverci e, invece di prenderci cura del territorio su cui cade la pioggia, ce la prendiamo con la pioggia. Senza dimenticare che sulle circostanze climatiche che rendono la pioggia di oggi così intensa, concentrata, talvolta fuori stagione, anche su quello avremmo delle responsabilità scientificamente dimostrate. Eppure quello che si fa è soprattutto tamponare le emergenze: secondo il Consiglio nazionale dei geologi, “i costi degli interventi di difesa del suolo prima degli eventi catastrofici sono stati stimati con un rapporto di 1 a 10 rispetto a quelli del post emergenza, [quindi] è ormai chiaro come sia necessario attuare misure preventive in periodi brevi” (“Giornata Mondiale del Suolo, i geologi: occorre approvare una legge nazionale”, 9 dicembre 2020).
Solitamente però, l’approccio emergenziale diventa un volano politico per il sindaco o presidente di Regione, eroi che magari vanno pure a spalare il fango coi concittadini per dimostrare vicinanza, anziché lavorare, e alacremente, sulla prevenzione. E questo nonostante la giurisprudenza della Corte dei conti, organo preposto al controllo del bilancio dello stato, sottolinei che “l’intrinseco grado di imprevedibilità che caratterizza un evento calamitoso di origine naturale, quale una frana o un’inondazione, non deve esimere le pubbliche autorità dall’adottare le opportune precauzioni, tese a prevenire o a limitare i danni che da tali eventi possano derivare ai cittadini, e l’omissione al riguardo costituisce una negligenza che non può ritenersi di lieve entità” (Sezione della Corte dei conti della Valle d’Aosta n. 4 del 2001).
Nel concreto, quindi, chi dovrebbe fare cosa e chi non sta facendo nulla di quel che dovrebbe fare, o sta facendo quel che non dovrebbe?
Partiamo dall’adattamento: ossia le misure intese a diminuire la vulnerabilità dei sistemi naturali e socio-economici.
La pianificazione nazionale di riferimento in materia è rappresentata da due strumenti.
I Piani di assetto idrogeologico (Pai), risalenti al 1989, seguono uno schema stato-regioni e mirano a regolamentare l’uso del territorio: perimetrano le aree affette da pericolosità idraulica e geologica, le classificano e associano a ognuna una corrispondente disciplina normativa. I Pai contengono prescrizioni vincolanti a cui gli strumenti urbanistici comunali sono tenuti ad adeguarsi.
I Piani di gestione del rischio alluvioni (Pgra), invece, non sono vincolanti; contengono indicazioni sulla pianificazione sostenibile del territorio e la restituzione dello spazio naturale ai fiumi oltre alla predisposizione, manutenzione e riqualificazione di opere di difesa idraulica. I Pgra sono affidati ad Autorità di bacino distrettuale insieme a regioni, enti locali e al Dipartimento nazionale della protezione civile. La perimetrazione delle aree potenzialmente allagabili nei Pgra segue tre differenti scenari temporali (30, 100 e 300 anni) e definisce il livello di rischio in relazione al numero di abitanti, al tipo di attività economica insistente, al patrimonio culturale e ambientale. Gli scenari a trenta anni solitamente costituiscono la base per l’elaborazione dei piani territoriali di protezione civile.
Pai e Pgra sono correlati ma il coordinamento dei loro contenuti è complesso, data la diversa impostazione tecnica e amministrativa e le diverse dinamiche procedurali che ne caratterizzano la definizione. Essi dovrebbero confluire, insieme ai Piani generali per l’utilizzazione delle acque pubbliche (Pguap), nei cosiddetti Piani di bacino distrettuali (di cui di fatto costituiscono degli stralci).
Si evidenziano qui i primi, grandi intoppi: “Un contesto decisionale ed operativo caratterizzato dal coinvolgimento di più soggetti pubblici, spesso tra loro non dialoganti e/o in contrapposizione (gestioni commissariali, uffici regionali, amministrazioni centrali, enti locali), fattore di complessità e di criticità” (Deliberazione 1/2015/G Corte dei conti). Il cosiddetto ProteggItalia, il Piano nazionale contro il dissesto idrogeologico firmato nel febbraio 2019 dal primo governo Conte, prevede azioni per unificare le finanze, agevolare l’allocazione di risorse e garantire una maggiore omogeneizzazione e integrazione delle banche dati esistenti, ma già parte con un numero eccessivo di centri decisionali coinvolti: quattro ministeri, due dipartimenti della presidenza del Consiglio dei ministri più gli enti locali (regioni, province autonome e comuni). Se le responsabilità sono poco chiare, alla fine non sono attribuibili a nessuno e questo favorisce la litania del “Non di mia competenza”.
A questo si aggiunge poi “un quadro continuamente mutevole di risorse finanziarie disponibili ed una programmazione non iscritta in un disegno strategico di opere strutturali, ma frammentata in una molteplicità di interventi che (…) lasciano supporre la preferenza per criteri di scelta basati prevalentemente sulla concertazione tra i diversi soggetti istituzionali coinvolti (regioni, enti locali e stato) piuttosto che sugli esiti delle analisi” (Deliberazione 1/2015/G Corte dei conti). È complicato anche tracciare le risorse totali messe in campo, che per questo frequentemente non vengono spese anche quando sono disponibili.
Il tema delle risorse ha dei riflessi anche sulla manutenzione essenziale delle opere idrauliche. In Pianura Padana, perché Aipo (Autorità interregionale per il Po) possa predisporre azioni efficaci e sistemiche di protezione delle arginature nei confronti delle frequenti fragilità causate dalle tane di istrici, tassi e volpi (come reti anti-intrusione o ringrossi delle sagome arginali), sono necessari fondi molto più consistenti rispetto a quelli disponibili.
Tra pianificazione parcellizzata, responsabilità frammentate o confliggenti, dati non aggiornati o discrepanti, procedure farraginose e lente spesso dovute a normative che cambiano in rapida successione, risorse troppo scarse e difficilmente accessibili, uffici (specie quelli comunali) in cronica ed evidente carenza di organico e impossibilitati dai vincoli di bilancio e personale a integrare figure amministrative o tecniche (come geologi) di supporto, la risposta più immediata al “chi dovrebbe fare cosa” sarebbe che la politica nazionale prendesse la tutela del suolo seriamente e non per pompose dichiarazioni (in genere rese ex post).
Ci sono comunque poche ragioni per essere ottimisti. Nella bozza del Piano nazionale di ripresa e resilienza, legato al fondo europeo Next Generation, si legge che per dare attuazione alla transizione ecologica bisognerà introdurre dei meccanismi che assicurino che la valutazione di impatto ambientale si “dovrà svolgere secondo un iter ulteriormente accelerato e semplificato rispetto a quello previsto” (pag. 96, punto d). Si chiede Paolo Pileri: “Come è possibile? Perché il governo vuole fare le opere del piano facendosi degli sconti proprio su quelle procedure che, in modo preventivo, verificano se e quanto un’opera danneggia l’ambiente?” (“Altreconomia”, Piano nazionale di ripresa: la “rivoluzione verde” che fa pagare il conto al verde, 24 dicembre 2020).
E le amministrazioni comunali in tutto questo cosa dovrebbero fare? Se i livelli superiori non si muovono autonomamente, è loro responsabilità politica conoscere (o farsi spiegare) la filiera idrogeologica, ossia cosa succede al loro territorio, al suolo, ai fossi, quando piove. Dopodiché dovrebbero tenere aggiornati i piani di protezione civile (come minimo) e fare presente con insistenza alle autorità di competenza le fragilità riscontrate, esigere e proporre interventi, fare rete con altri comuni dello stesso bacino perché vengano attuati provvedimenti rapidi e per quanto possibile sistemici sia di manutenzione che di miglioramento e se necessario di messa a punto di opere idrauliche ad hoc.
La legge di bilancio 2020 tra l’altro assegna agli enti locali contributi diretti per la messa in sicurezza del territorio a rischio idrogeologico, incluse strade, ponti, viadotti e scuole (85 milioni di euro per il 2020, 128 per il 2021, 170 per il 2022 e 200 milioni di euro per ciascun anno dal 2023 al 2034). Potrebbero essere immediatamente utilizzati almeno per il riassetto dei reticoli idraulici minori (fognature, scoli, canali, fossi), ormai sottodimensionati non solo rispetto all’entità delle precipitazioni, ma anche rispetto all’estensione degli insediamenti urbani.
Uno dei principali elementi di rischio è proprio quella urbanizzazione sconsiderata consentita dai comuni negli ultimi decenni, colpevolmente indifferente alle fragilità del territorio. Difficile intervenire sul passato, ma laddove i piani urbanistici vigenti contengono previsioni che non tengono conto dei rischi idrogeologici, questi vanno urgentemente rivisti. Non solo le previsioni su aree a rischio andrebbero cancellate, ma tutte le previsioni di nuove urbanizzazioni: siamo un Paese in cui, a fronte di una popolazione in calo, due metri quadri al secondo vengono cementificati. Anche le recenti leggi regionali che sembrano porre limiti al consumo di suolo sono ambigue e piene di scappatoie, contengono deroghe su deroghe, posticipano provvedimenti che sarebbero da attuare immediatamente, offrono compromessi e non soluzioni. E gli amministratori comunali, che spesso il suolo non sanno nemmeno cos’è, rifuggono le svolte radicali necessarie e presentano questi compromessi come saggi ed equilibrati, quando sono soltanto sciagurati. Le imprese potrebbero comunque continuare a lavorare, e tanto, nel recupero del patrimonio edilizio vacante, dismesso, abbandonato già esistente, e anche le città ne trarrebbero un immenso beneficio.
Non va meglio sul fronte della mitigazione del cambiamento climatico, ossia sulla riduzione delle emissioni: e questo nonostante il Mediterraneo sia uno degli hot-spot dove l’aumento della temperatura è e sarà maggiore rispetto alla media globale. Il Recovery Fund continua a parlare di ammodernamento della flotta automobilistica e alloca 23 dei circa 27 miliardi disponibili nelle misure per la mobilità sostenibile ad “alta velocità di rete e manutenzione stradale 4.0”. Invece di puntare a rendere l’auto privata meno conveniente rispetto alle alternative attraverso una revisione radicale del sistema del trasporto pubblico con un aumento dei mezzi, un regime di integrazione tariffaria perlomeno regionale che permetta ai pendolari una fluida intermodalità, ai bambini accompagnati di viaggiare gratis su tutte le tratte e agli anziani di avere abbonamenti calmierati, e un massiccio potenziamento della rete di mobilità attiva.
L’ecobonus al 110% per il miglioramento della performance energetica domestica offre qualche speranza, anche per le famiglie a basso reddito e con poca liquidità è necessario ottenere un finanziamento, il che significa rimetterci poi intorno al 10% a tutto vantaggio delle banche (dicono in Inghilterra che è costoso essere poveri, ed è economico essere ricchi).
Se la politica è sorda, c’è un ruolo per i cittadini? Indubbiamente si può contribuire con scelte individuali di abbattimento delle emissioni: rinuncia all’abuso dell’auto privata, limitazione del consumo di carni rosse, riduzione dei rifiuti specie in plastica, affidamento alla finanza etica o comunque ritiro dei propri risparmi da banche, pacchetti azionari e fondi che investono massicciamente nei combustibili fossili, sobrietà ed essenzialità negli stili di vita. La sfida è fare scattare l’etica della responsabilità: quella che, alla quinta bistecca della settimana, o in procinto di accendere l’auto per coprire i quattrocento metri che ci separano dalla destinazione, fa balenare nella mente le immagini di una delle tante, troppe alluvioni italiane, facendoci sentire che siamo anche noi parte del problema e possiamo essere parte della soluzione. Allora capiremmo che occorre spingere con forza la politica a contrastare gli enormi interessi economici in ballo nelle politiche di riduzione delle emissioni a favore di un altro enorme interesse: quello di tutti noi.
Dovevate proprio mettere il cambiamento climatico, quando anche ora i sassi sanno che è indotto?
Partite bene, ma poi vi perdete in stronzate.