PONTE MORANDI/ “A rischio crollo, lo sapevamo”: ma chi ha regalato la vittoria ai Benetton?
di IL SUSSIDIARIO (Paolo Annoni)
Nel corso del processo per il crollo del ponte Morandi, l’ex ad della holding “Edizione” dei Benetton, nonché ex consigliere di amministrazione di Aspi e Atlantia, Gianni Mion, ieri ha dichiarato che nel 2010 “emerse che il ponte aveva un difetto originario di progettazione e che era a rischio crollo. Chiesi se ci fosse qualcuno che certificasse la sicurezza e Riccardo Mollo mi rispose ce la autocertifichiamo”. “Non dissi nulla e mi preoccupai. Era semplice: o si chiudeva o te lo certificava un esterno. Non ho fatto nulla, ed è il mio grande rammarico”.
Il manager ha continuato spiegando che “fu fatto un errore da parte di Aspi quando acquistò Spea, la società doveva stare in ambito Anas o del ministero, doveva rimanere pubblica. Il controllore non poteva essere del controllato”. Mion ha aggiunto: “avevo la sensazione che nessuno controllasse nulla. La mia idea è che c’era un collasso del sistema di controllo interno e esterno, del ministero non c’era traccia”.
Le dichiarazioni di ieri ci ricordano che la vicenda giudiziaria, il processo per accertare le responsabilità del crollo del ponte, è ancora in corso. Invece la vicenda economica e finanziaria è ampiamente chiusa, a dieci mandate, con la cessione, nel 2021, della partecipazione di Atlantia in Aspi (Autostrade per l’Italia), l’88%, a un consorzio formato da Cdp, Blackstone e Macquarie sulla base di una valutazione di circa 9 miliardi di euro per il 100%. Dopo mesi di trattative iniziate con l’accordo firmato dal governo Conte, il closing avviene sotto il governo Draghi.
La vicenda borsistica di Atlantia, ora rinominata Mundys, si chiuderà un anno dopo, a giugno del 2022 dopo un’opa a 23 euro per azione per cassa lanciata da un veicolo di cui Edizione, la holding dei Benetton, ha la maggioranza assoluta. Il prezzo pagato è del 40% più alto di quello che il titolo aveva nei giorni in cui veniva firmata la vendita, nel 2021, ma soprattutto appena dell’1% più basso, contando i dividendi pagati (90 centesimi nel 2019 e 74 centesimi a maggio 2022), del prezzo con cui il titolo aveva chiuso il 13 agosto prima del crollo del ponte la mattina successiva. Il giorno dell’opa dentro Atlantia c’erano, la componente più rilevante del gruppo, gli 8 miliardi di euro e passa versati dal consorzio guidato da Cdp.
La storia di Atlantia aveva avuto una svolta industriale nel primo semestre del 2018, qualche mese prima del crollo del ponte, con l’opa per cassa lanciata sul maggiore competitor europeo, Abertis, dentro cui si trova il principale operatore autostradale spagnolo, il secondo maggiore francese oltre che uno dei principali player nel mercato sudamericano. La cassa, abbondantissima, generata dalla principale rete autostradale italiana, sostanzialmente un monopolio, permette ad Atlantia di diventare il principale operatore europeo a suon di miliardi di euro. La concessione autostradale di un Paese uscito distrutto dalla crisi dei debiti sovrani è talmente florida da permettere operazioni a leva sui rivali europei; a prezzi talmente interessanti da scoraggiare resistenze o controfferte di sistema o finanziarie.
La storia finanziaria della vecchia Atlantia e della sua principale controllata Autostrade per l’Italia è chiusa per sempre; anche se la “nuova” Autostrade, a guida Cdp, dovesse per gli infiniti giri della finanza e della politica tornare in borsa. È una storia che interroga gli studiosi delle privatizzazioni, posto che non c’è niente di male a far gestire da un privato un bene pubblico; purché, in teoria, i rendimenti siano commisurati ai rischi. Una domanda comunque è inevitabile: se il ponte fosse crollato nel New Jersey piuttosto che nella valle della Loira o in Baviera, la storia finanziaria sarebbe finita così? La conclusione della vicenda economica non era inevitabile e, ci sembra, ha avuto un solo vincitore.
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