20 maggio 2023, l’arrivo in Giappone del presidente Zelensky per il vertice del G7.

Da settembre 2022, ossia da sette mesi, le truppe di Kiev sono impegnate solo a Karkiv e a Bakhmut/Artyomovsk. Karkiv non fa parte del Donbass, quindi non è rivendicata dalla Repubblica di Donetsk, aderente alla Federazione di Russia. Lo scontro si è perciò risolto rapidamente: le forze armate russe si sono ritirate. Bakhmut/Artyomovsk è invece aerea di cultura russa, quindi le forze armate russe resistono. Durante l’inverno la battaglia si è trasformata in guerra di trincea, letale quanto lo fu quella di Verdun. Sicché tutti, almeno in Occidente, ora aspettano che la primavera consenta a Kiev di lanciare la controffensiva.

Si badi bene che nessuno crede che la Russia intenda proseguire l’offensiva in direzione di Kiev, giacché tutti hanno capito che l’intenzione di Mosca non è mai stata d’invadere l’Ucraina e conquistarne la capitale, ma solo di riprendere il Donbass e ora anche la Novorossia, aree di cultura russa i cui abitanti pretendono di appartenere non più allo Stato ucraino ma a quello russo. Ciononostante, politici e media occidentali continuano a denunciare «l’invasione» russa dell’Ucraina.

L’ipotetica controffensiva

La sbandierata controffensiva avrebbe dovuto iniziare ad aprile. Ora si parla di fine maggio. Kiev sostiene che il ritardo è dovuto alle difficoltà nella fornitura delle armi occidentali: per ridurre al minino le perdite, le operazioni inizieranno solo quando tutto il materiale sarà sul posto. Eppure mai, nella storia, sono stati consegnati a uno Stato simili quantitativi di armi per fare una guerra.

La spiegazione potrebbe essere che l’operazione di cui Rete Voltaire ha dato notizia all’inizio della guerra continui: nei primi mesi del conflitto tre quarti del materiale bellico inviato all’Ucraina dall’Occidente veniva dirottato verso il Kossovo e l’Albania per foraggiare altri conflitti, in Medio Oriente e nel Sahel. Oppure è possibile che la Russia stia distruggendo sistematicamente armi e munizioni, ancor prima che vengano distribuite alle unità di combattimento.

In ogni caso, la retorica della controffensiva riguarda le forze armate ucraine, non la popolazione. I media della Nato non parlano più della «valorosa resistenza del popolo ucraino»: in Crimea, in Donbass e in Novorossia non ci sono state azioni significative di questo tipo. Si parla di azioni di sabotaggio delle Forze speciali ucraine nei territori diventati russi dal 2014, ma non di resistenza popolare nei territori successivamente annessi alla Federazione.

Le armi possono coinvolgere loro malgrado chi le fornisce

Le armi sono merci particolari. Chi le fabbrica non può venderle o regalarle senza autorizzazione statale. E lo Stato pretende da chi le riceve un impegno scritto sull’uso che ne farà. Esige non solo la garanzia che tali armi non andranno nelle mani del nemico, né che violeranno un embargo delle Nazioni Unite, ma anche che non saranno usate per aggredire un Paese terzo, in violazione della Carta delle Nazioni Unite.

Ogni trasferimento che non rispetti tali regole è ritenuto «traffico d’armi», punito dalle leggi nazionali e internazionali.

Dall’inizio del conflitto gli Occidentali si rifiutano di fornire armi che potrebbero essere usate non da Kiev per difendere il proprio territorio, ma dai nazionalisti integralisti per attaccare la Russia all’interno dei suoi confini. Costoro infatti vanno proclamando, sin dalla prima guerra mondiale, che la loro missione è cancellare i «moscoviti» dalla faccia della terra. La loro lotta non è in alcun modo legata all’operazione speciale russa: è la lotta apocalittica del Bene (loro) contro il Male (i russi).

Se i nazionalisti integralisti prendessero il sopravvento sulle autorità civili ucraine, il rischio di un attacco a obiettivi in territorio russo sarebbe reale. In tal caso, gli Stati che avessero fornito armi usate contro la Russia si ritroverebbero automaticamente in guerra, ossia diventerebbero co-belligeranti. La Russia potrebbe legittimamente rispondere attaccandoli sul loro territorio.

È un rischio molto serio. Secondo lo Washington Post [1], che cita i documenti rivelati da Jack Teixeira (Discords Leaks), alcuni mesi fa il presidente Volodymyr Zelensky ha proposto al Pentagono di conquistare villaggi russi frontalieri, sabotare il gasdotto che collega la Russia all’Ungheria (Paese membro della UE, come Francia e Paesi Bassi, proprietari del Nord Stream), nonché puntare missili a lunga gittata contro la Russia.

Inizialmente gli Occidentali hanno consegnato solo strumenti offensivi da usare sul campo di battaglia ucraino: armi da fuoco portatili e fucili d’assalto. Successivamente sono passati ai cannoni e ai blindati. Oggi discutono di aerei. I Mig-29 forniti dalla Polonia e dalla Slovacchia risalgono agli anni Settanta. Vecchi di mezzo secolo, la Russia li ha abbandonati, quindi non possono che soccombere in caso di scontro con aerei moderni come i Sukhoi-35. Possono servire sul suolo ucraino, ma a condizione che un sistema di difesa antiaereo efficace li protegga dagli aerei russi.

Il presidente Zelensky è andato a mendicare F-16 nel Regno Unito. Il primo ministro britannico, Rishi Sunak, e quello olandese, Mark Rutte, hanno annunciato che se ne stanno occupando. Gli F-16, che risalgono agli anni Novanta, sono molto più moderni dei Mig-29. La questione è stabilire se sono in grado di addentrarsi in territorio russo. Nessuno può saperlo con certezza fino quando non si proverà a farlo. Le difese antiaeree russe hanno fatto notevoli progressi e potrebbero essere in grado di abbatterli.

La scorsa settimana, dei Mig-29 armati di missili franco-britannici SCALP/Storm Shadow sono riusciti a distruggere un Su-34, un Su-35 e due elicotteri Mi-8 su un aerodromo militare, in territorio russo. Pare che i russi non sapessero che l’Ucraina aveva già ricevuto questi missili da crociera. I piloti non pensavano che i Mig-29 ucraini avrebbero potuto colpirli, quindi non li hanno abbattuti. Sarà difficile che ci caschino una seconda volta. Per tutta risposta i russi hanno gravemente danneggiato una batteria antiaerea ucraina Patriot. L’obiettivo di Mosca è far sì che i propri aerei possano intercettare senza rischio gli aerei ucraini.

Nell’episodio citato, la Russia sarebbe stata giuridicamente in diritto di rispondere al Regno Unito, che ha fornito a Kiev i missili Storm Shadow. Londra, che probabilmente non è stata avvisata dell’attacco, avrebbe potuto trovarsi in guerra senza volerlo.

L’escalation avanza: al vertice del G7 il presidente Joe Biden ha annunciato che gli Stati Uniti autorizzeranno i Paesi cui hanno venduto F-16 a consegnarli all’Ucraina: Washington non li fornirà direttamente, per non rischiare di trovarsi in guerra, ma Belgio, Danimarca, Paesi Bassi, Polonia e Norvegia potranno farlo a loro rischio e pericolo.

Le sette grandi potenze occidentali a Hiroshima, il 20 maggio 2023.

Il punto di non-ritorno

Siamo vicini al punto di non-ritorno: ancora un piccolo passo degli Occidentali e i nazionalisti integralisti ucraini generalizzeranno la guerra, con o senza il consenso degli sponsor.

Secondo Seymour Hersh [2], la Polonia ha chiesto all’Ucraina di accettare un cessate-il-fuoco e di negoziare la pace. L’iniziativa di Varsavia è sostenuta da altri Stati dell’Unione Europea: Cechia, Ungheria e Stati Baltici.

Il giornalista statunitense non ha seguito da vicino la guerra di Siria; quindi, non è consapevole della superiorità militare russa, sicché interpreta l’iniziativa polacca come reazione al bagno di sangue di Bakhmut/Artyomovsk. Ma i polacchi sanno che i missili ipersonici Kinzhal non mancano l’obiettivo e che, per ora, non si possono fermare. Negli ultimi mesi hanno distrutto molti centri di comando e depositi di munizioni; recentemente hanno danneggiato una batteria Patriot. Allo stato attuale dei rapporti di forza, per l’Ucraina la guerra è persa, ma lo sarà anche per gli Occidentali se dovesse generalizzarsi. I polacchi, fino a ieri bramosi di combattere, ora hanno capito che si sta per raggiungere il punto di non-ritorno, oltre il quale sarebbero polverizzati.

Le missioni di mediazione

Attualmente sono in corso due missioni di mediazione: della Cina e dell’Unione Africana.

Il 24 febbraio Beijing ha pubblicato un piano di pace in dodici punti [3]. Cina e Ucraina hanno entrambe riconosciuto che potrebbe essere una base per la soluzione del conflitto. Il presidente Xi Jinping ha designato Li Hui per fare la spola tra le capitali dei due schieramenti, più quelle dei Paesi alleati. Il diplomatico cinese ha già incontrato il ministro ucraino degli Esteri, Dmytro Kuleba, il presidente Zelensky e, probabilmente, ufficiali tedeschi.

Li Hui è un diplomatico di lungo corso – è stato per dieci anni ambasciatore a Mosca – quindi ha avuto l’accortezza di iniziare gli incontri dall’Ucraina: consapevole che Kiev «non avrebbe accettato alcuna proposta implicante la perdita di territori o il congelamento del conflitto», Hui sa tuttavia che la nozione di «perdita di territorio» è concetto che può mutare, se si considera la multietnicità della popolazione ucraina e quindi si riconosce a ciascuna delle sue componenti il diritto all’autodeterminazione.

L’altra missione è quella dell’Unione Africana. Capeggiata dall’Africa del Sud, ne dovrebbero far parte Congo, Egitto, Uganda, Senegal e Zambia. È una grande occasione per gli africani di mostrare di saper svolgere un ruolo pacificatore sul piano internazionale e di non essere più Paesi sottosviluppati che sanno solo mendicare aiuti. Già nel 2012 gli africani idearono una missione di pace per la Libia, ma la Nato impedì loro di recarsi a Tripoli minacciando di distruggere l’aereo su cui avessero viaggiato i capi di Stato e di uccidere quanti vi si fossero avventurati.

Ma la missione degli africani è meno ben preparata di quella cinese: non hanno esposto in un testo il loro punto di vista sul conflitto e sulla pace. Per di più gli Stati Uniti stanno ricorrendo a ogni mezzo per screditare l’Africa del Sud che, al pari di Mosca, è membro dei BRICS. Dal 22 al 24 agosto Pretoria ospiterà il vertice dell’organizzazione. Orbene, l’Africa del Sud è membro della Corte Penale Internazionale, che ha emesso un mandato di arresto internazionale contro Vladimir Putin. Ovviamente Pretoria non arresterà il presidente russo quando si troverà in presenza ufficiale nel Paese, quindi sarà in fallo. Inoltre, l’ambasciatore Usa, Reuben Brigety, accusa Pretoria di non essere neutrale e di aver segretamente fornito armi alla Russia: afferma che sono state caricate su un cargo russo, il Lady R. Questi intoppi mascherano il vero contrasto: l’Africa del Sud intende dimostrare che un mondo multipolare è possibile. Non prende posizione nel conflitto ucraino, ma il suo esercito collabora con quello russo per la formazione dei soldati, provando c

Traduzione Rachele Marmetti