di Gabriele Toma
«La maggiorparte dei sudditi crede di essere tale perché il Re è il Re, ma non si rende conto che egli è tale perché essi sono sudditi»
Karl Marx
In un’epoca profondamente nichilista come quella che stiamo vivendo, in cui la dimensione trascendentale dell’individuo nella storia è completamente assente dall’orizzonte, la riflessione pubblica vira sempre più verso una aridità tecnica, ritenuta una qualità poiché necessitata da un sistema sempre più sofisticato, ma di cui, a ben vedere, costituisce strumento di conservazione, proprio perché nega a priori quello “slancio” dello spirito senza il quale – a torto o a ragione – nessuna rivoluzione si è mai verificata nella storia.
La contropartita di questa enorme “assenza di Dio” – che è morto, secondo Nietzsche, o quantomeno “non esce fuori col temporale” secondo i più simpatici Colapesce e Dimartino – è una cultura di “followers”, seguaci, che idolatrano paradossalmente proprio chi trae profitto da loro, monetizzando views, likes e capitalizzando la “community” stessa, raccolta non intorno ad un ideale o ad una visione del mondo, ma attorno a un mero “brand”.
La pervasività di questo meccanismo, alimentato da un modello economico generatore di disuguaglianze (capitalismo neoliberista di matrice anglo-americana), è tale da permeare perfino le aree del dissenso politico, all’interno delle quali i nuovi tribuni della plebe digitale hanno gioco facile a fare e disfare, proclamare, promettere, senza rendere conto né argomentare, in barba alla trasparenza (teoricamente) insita nella forma democratica.
I più intelligenti tra i nichilisti osservano poi che il primato della tecnica, e la conseguente impossibilità di rivoluzione sul piano politico, siano da attribuirsi ad un ineluttabile dato di natura: ogni sistema è matematicamente traducibile in un numero finito di variabili, e le loro interazioni possono produrre modificazioni piccole o grandi, ugualmente descrivibili nell’ambito di un numero finito di possibilità. Pertanto per questi “realisti” ogni sistema “si rivoluziona” SE e QUANDO sussistono “le condizioni” tecniche, intese come potenzialità latenti e intrinseche allo stesso sistema. Tutto ciò non può che condurre ad una forma di fatalismo, ad una svalutazione dell’azione umana politicamente intenzionata e ad una “cessione di sovranità” individuale rispetto all’agire sociale che lascia il posto ad una sconsolata rassegnazione di fronte alla dura realtà dei numeri. Nella pratica, ciò si concretizza nel migliore dei casi in un senechiano “ritiro a vita privata”, con tutti i suoi piaceri, patimenti e le pur nobili intenzioni, mentre nel peggiore dei casi ciò si concretizza nella dissonanza cognitiva e nella depressione. Sempre ammesso che le due cose possano avvenire distintamente e che il “sistema” lo permetta, ovviamente.
Innanzitutto, questa posizione “razionalistica” è viziata dal fatto che la necessità di astrazione di cui un qualsiasi processo analitico non può fare a meno, porta a concepire il sistema come entità separata rispetto all’osservatore, mentre invece ognuno di noi ne è parte integrante e costituisce dunque una variabile – più o meno consapevole, attiva e quindi influente – al suo interno. Ma in questa posizione tecnocentrica e nichilista c’è un problema ancora più profondo: il fatto che le “possibilità di sviluppo” di un sistema, e quindi eventualmente anche la sua rivoluzione, siano in numero finito non vuol dire che esse siano tutte conoscibili o conosciute: infatti per via dei limiti nostri, dei nostri strumenti, dell’indagine stessa, non è detto che siamo capaci di contemplare e descrivere matematicamente TUTTE le pur finite possibilità. Tanto più che “la realtà” continua a modificarsi imperterrita nel mentre che noi proviamo a fotografarla per descriverla. Per cui, pur volendo rinunciare ad una romantica fede nell’“infinito” potenziale dell’uomo, pur riconoscendo l’ingenuità di un certo “pensiero positivo”, possiamo ragionevolmente affermare che ogni sistema presenta un numero INDEFINITO di linee di sviluppo, non tutte conoscibili o conosciute, pertanto è statisticamente possibile che alcune di esse aspettino solo di essere “attivate”. In questo senso lo “slancio” rivoluzionario sopra accennato partecipa tanto della natura razionale di chi analizza il sistema per scovarne le faglie, tanto della natura “mistica” di un salto nell’indefinito, in nome di una visione del mondo ideale che porta il militante a scommettere con la storia. Visione che può essere più o meno fondata, ma comunque auspicabilmente migliore per definizione dello stato cose che la produce. D’altronde la fede in qualcosa che si vede non è vera fede, così come non è vera fede l’idolatria verso qualcosa di così campato in aria che non può manifestarsi. È forse lì, nel limite tra conoscibile e inconoscibile, noto e ignoto, fatto e sogno, che si gioca la partita del rivoluzionario: verosimilmente, il primo anonimo inventore della ruota avrà sì visto un sasso o un tronco rotolare da cui prendere spunto, ma avrà anche come minimo desiderato di viaggiare senza carichi pesanti sul groppone.
L’indifferenza oggi imperante di fronte alla res publica e il rigetto sprezzante di ogni forma di militanza politica sono di certo insostenibili nel lungo periodo, poiché qualora “il sistema” , nel dispiegamento statistico delle proprie molteplici possibilità di sviluppo, dovesse arrivare ad intaccare lo stesso “ritiro a vita privata”, lastricato di beni, servizi, serie tv e… “buone intenzioni”, allora non solo non avremmo i mezzi “tecnici” per far valere i nostri diritti (leggi, istituti, organi di rappresentanza ecc) ma non avremmo nemmeno diritto a lamentarci, in quanto, a forza di concepire noi stessi come entità separate dal “sistema”, avremmo messo in atto quella passività che rende il nostro essere una “variabile” al suo interno totalmente ininfluente. Ma non è tutto: credere che un sistema di qualsivoglia natura o colorazione possa rivoluzionarsi da se’ denota una certa ingenuità politica dal momento che ogni sistema è tale in quanto sussistono determinati rapporti di forza e sfere di interesse che ne garantiscono la stabilità: questi fattori tenderanno a marginalizzare, quando non obliterare del tutto, ogni variabile che minacci anche solo lontanamente di alterare tali equilibri. Proprio per questo è necessaria una “forza”, seria e organizzata, in grado di innescare una dialettica di potere che metta in discussione lo status quo.
Fatte queste premesse, il presente scritto mira ad approfondire il concetto di “sovranità”, traslandolo dal piano collettivo giuridico-costituzionale al piano individuale, arricchendolo di un orizzonte di senso teleologico senza il quale non faremmo per definizione altro che ribadire il nichilismo, nella consapevolezza che il “popolo” è ALMENO la somma delle proprie parti, che sono appunto gli individui.
Sovranità statale
Nel diritto la “sovranità” di uno Stato è il potere originario e indipendente da ogni altro potere, che non necessita di una validazione da parte di un’altra fonte giuridica: ogni sovranità particolare, territoriale, amministrativa, individuale e di qualunque altra persona giuridica che non sia lo Stato è sottomessa all’ordinamento statale, che diventa metro della legittimità dell’agire particolare. A seconda dell’ordinamento statale, questa sovranità può essere più o meno estesa, più o meno effettiva nei vari ambiti della vita pubblica e privata: lavoro, istruzione, sanità, sicurezza, ecc: ad esempio, in un ordinamento puramente comunista, la sovranità statale sarà capillare ed effettiva in pressoché tutti i settori, fino a giungere potenzialmente ad una società del controllo, mentre in un ordinamento puramente liberale la sovranità statale sarà ridotta al minimo poiché ogni aspetto amministrativo di ogni ambito sarà delegato ai soggetti privati che, partecipando alla competizione del mercato, saranno legittimati a perseguire i propri interessi individuali, indipendentemente dai costi ambientali e sociali che ciò dovesse comportare. Ognuno di questi estremi minaccia di schiacciare l’individuo: uno con l’oppressione istituzionalizzata, l’altro con le disuguaglianze (ovvero con l’oppressione di fatto). Al mondo vi sono innumerevoli ordinamenti mediani che tendono da un lato o dall’altro, con varie sfumature, ma tendenzialmente ogni ordinamento contiene i contrappesi al proprio “ingombrante” imperio: se lo stato pone regole e sanzioni anche gravi da un lato, dall’altro garantisce l’effettività dei diritti sociali e civili delle popolazioni, in modi e misure diverse a seconda appunto delle colorature politiche degli stessi ordinamenti e delle culture popolari di cui tali ordinamenti sono espressione. Lungi dal voler snocciolare tutte le possibili declinazioni, per le quali si rimanda a studi di costituzionalismo comparativo, ciò che interessa è limitarsi al caso dell’ordinamento italiano, cioè di una Repubblica democratica fondata sul lavoro, che, facendo parte di organismi sovranazionali (Unione Europea e NATO su tutte), ha optato per limitazioni e cessioni significative della propria sovranità. Il caso italiano peraltro presenta delle unicità assolute rispetto alle più vicine democrazie occidentali, scritte nero su bianco in Costituzione.
Sovranità popolare
“L’Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro.
La sovranità appartiene al popolo, che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione.”
art. 1 Cost
“La sovranità appartiene al popolo”. Parafrasando Lelio Basso, partigiano e padre costituente di fede socialista, dobbiamo notare che la sovranità in Italia non “emana” dal popolo, non appartiene allo Stato che rappresenta il popolo o alla nazione, ma APPARTIENE AL POPOLO, “che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione”. Lo Stato italiano dunque, l’ordinamento della “Repubblica democratica fondata sul lavoro”, è lo strumento per mezzo del quale il popolo esercita la propria sovranità: il popolo delega allo stato, per mezzo della democrazia rappresentativa, l’esercizio di un potere la cui proprietà resta però sempre popolare. Se il popolo italiano è il sovrano, lo Stato italiano è il suo scettro. Essendo il popolo formato da individui, ogni cittadino è sovrano pro quota, detiene dunque una quota di potere, ma affinché questo potere sia esercitato, necessita dell’assunzione di una certa responsabilità: in primis l’osservanza delle forme e dei limiti della Costituzione, che delinea appunto gli istituti e i rituali sociali affinché l’esercizio di questo potere diventi effettivo ed equilibrato su tutto il territorio nazionale, in secundis la partecipazione attiva alla vita politica del paese (art. 3), senza la quale non c’è lamentela da bar o da divano che tenga. Qualsiasi concetto astratto, come può essere appunto la “sovranità popolare”, diventa concreto quando si riveste di forme e assume dei limiti: a ben vedere forma e limite sono la stessa cosa. In sostanza, nessun sovrano che non conosca il proprio scettro, o non sia allenato ad impugnarlo, saprebbe adoperarlo, motivo per cui è essenziale che ogni cittadino italiano conosca approfonditamente almeno la Costituzione, in modo da riconoscere le limitazioni (nonché le modalità di esercizio) del proprio potere sovrano pro quota.
Sovranità individuale
“Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali.
E` compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese.”
art. 3 Cost
Ogni cittadino che lavori partecipa dunque di diritto della natura del sovrano, ed è pertanto ragionevole concepire, a fianco dei concetti di “sovranità statale” (presupposto giuridico che legittima l’ordinamento quale fonte del diritto) e “sovranità popolare” (presupposto politico che legittima la sovranità statale), il concetto di “sovranità individuale”, ovvero quel principio etico-filosofico che, oltre ad essere una conseguenza pro-quota della sovranità popolare, la legittima in quanto ne determina la qualità più propriamente democratica, poiché, come si è già detto, il popolo consta (almeno) di una somma di individui, pertanto la possibilità che essi aggregandosi in partiti condizionino la “vita politica, economica e sociale del paese” rende effettivo il “governo del popolo”. Questo fatto sottende e implica l’obiettivo alla base di tutta l’architettura Costituzionale (e dunque Statale): il principio di autodeterminazione dell’individuo, detto anche libertà. Una libertà indubbiamente mediata e limitata, si obietterà, se deve realizzarsi attraverso meccanismi di delega e assunzione di responsabilità. Ma ad un occhio attento, non può che essere così. Innanzitutto la “mediazione” è l’essenza stessa della politica, l’“arte regia” platonica, che nasce per dirimere il conflitto sociale – essa non può venire meno in quanto prima o poi le libertà assolute degli individui tenderanno a scontrarsi. Non esiste società civile che non attui una mediazione per risolvere il conflitto sociale. La rimozione di quest’ultimo in nome di una libertà assoluta non può che generare disuguaglianze e infine guerra e caos, in quanto ai ferri corti vincerà la forza e non necessariamente la giustizia, e questa è proprio una delle principali critiche al neo-liberalismo: per quanto si ammanti di nobili ideali relativi all’individuo, sul piano macroscopico esso tende a farsi mero darwinismo sociale. Quindi una libertà mediata nel suo esercizio previene a monte il conflitto sociale. Non solo: le limitazioni a tale libertà non sono poi limitazioni assolute ma per così dire procedurali, relative cioè allo stesso attuarsi della libertà, proprio perché come già detto qualsiasi principio, per passare da astratto ad effettivo, deve rivestirsi di forme e limiti. “La libertà è partecipazione” cantava Gaber, e questo nonostante fosse piuttosto disilluso sulla forma di governo democratica. In sostanza la democrazia italiana, che proprio in virtù dell’appartenenza popolare della sovranità, è la forma di democrazia più radicale possibile, sarà tanto più efficace nel perseguire gli obiettivi ideali indicati dalla costituzione, quanto più sarà partecipata. La Costituzione è infatti pacificamente considerata dai critici (e lo fu anche dai costituenti stessi) come un documento programmatico, una visione ideale del paese Italia, che va realizzata. L’unico modo per farlo è assecondarne i meccanismi interni strutturati consapevolmente dai costituenti come una macchina che si auto-alimenta, in un ciclo di energia che, a partire dalla responsabilità individuale, si fa massa popolare consapevole e dunque legge, per ritornare all’individuo sotto forma di nuovo spazio di libertà, che comporta nuove responsabilità e così via. Potremmo considerare questa dinamica come un primo circolo virtuoso.
Secondo circolo virtuoso
Stando ai principi espressi nell’art. 3, la Repubblica Italiana, facendosi carico del compito di aumentare progressivamente la partecipazione all’organizzazione del paese, ovvero di aumentare progressivamente nel tempo la sovranità popolare stessa e dunque la sovranità individuale pro quota, realizza una forma di Stato dinamico, vivo, e in continua evoluzione, che mira ad una emancipazione totale dell’individuo, destinatario di una libertà che sa di liberazione. Non mancano infatti le connotazioni spirituali: il “pieno sviluppo della persona umana” altro non è che quell’elemento di trascendenza che rende la Costituzione Italiana un unicum nel mondo occidentale. Se vogliamo vederla in maniera più laica, quello “sviluppo” corrisponde al processo di “individuazione” della psicologia di Jung, di “integrazione” degli aspetti della personalità individuale che portano l’individuo a “realizzarsi”, tanto nel mondo quanto in se stesso. Questo perché una volta che l’individuo, grazie ad un ambiente socio-politico-economico sano, abbia fatto pace con le istanze materiali, dalla sopravvivenza all’istruzione alla sanità ecc., e possieda al contempo una lavoro tale da non alienarlo né privarlo completamente del tempo per se stesso, potrà dedicarsi alla cura di istanze più elevate che se vogliamo, per semplicità, possiamo definire “spirituali”. Ed è proprio su questo punto che la dottrina comunista e la cultura millenaria della Democrazia Cristiana furono in grado di convergere in sede costituente, superando il materialismo e l’ateismo, e abbracciando principi di fatto socialisti. Addirittura si potrebbe poi affermare che la Repubblica Italiana miri a raffinarsi nel tempo, grazie alla sempre più vigorosa sovranità popolare, fino a giungere virtualmente ad un tale grado di libertà e “sviluppo” personale, che, erosi progressivamente i gradi di separazione tra potere e popolo, questi in ultima istanza si autogoverna. Utopia messa in Costituzione: lo Stato che evolve fino ad annullarsi. Insospettabile esito anarchico di un ragionamento che in realtà è radicalmente e strettamente democratico. D’altronde l’anarchia reale sarebbe possibile solo a patto che tutti gli individui siano radicalmente e completamente capaci di autogovernarsi, fin nel profondo, evitando i propri bassi istinti come avidità, sopraffazione ecc: in una parola, individui che hanno raggiunto l’illuminazione. Non stupisca dunque come il nichilismo di cui si accennava, con la sua sfiducia nell’azione politica, sia in contrasto con l’essenza stessa della sovranità, producendone per sua stessa natura la perdita. Dove c’è nichilismo non c’è sovranità popolare, dunque non c’è democrazia. Dove non c’è democrazia non ci sono individui liberi. Curiosamente, il nichilismo produce e necessita di schiavi, la democrazia produce e necessita di sovrani.
L’archetipo del sovrano
A questo punto pare molto utile, oltre che pertinente, spendere due parole sull’archetipo del sovrano. Nella psicologia di Jung e in tutta la scuola archetipica da Hillman in poi, la psiche viene concepita come una dimensione mitologica in cui le istanze dell’individuo si esprimono in maniera allegorica, e in cui le forze psichiche vengono simboleggiate appunto da figure leggendarie che incarnano concetti “ideali” (Platone). Attraverso l’esercizio concreto nel mondo delle qualità di cui l’archetipo si fa simbolo, questo viene integrato dalla psiche e sviluppato, ingenerando nell’individuo un’evoluzione che lo conduce a realizzare il proprio pieno potenziale e a sciogliere grado per grado tutti i veli mentali che lo allontanano dalla propria natura profonda. Al contrario gli archetipi, se misconosciuti o trascurati, si esprimono nel proprio aspetto-Ombra, ovvero incarnando l’esatto opposto dell’ideale: un archetipo Guerriero nutrito e sviluppato sarà un nobile e tenace condottiero, nel suo aspetto-Ombra sarà invece un testardo e aggressivo attaccabrighe ecc. La psicologia archetipica rappresenta il percorso interiore dell’individuo verso la realizzazione di Se’ attraverso l’allegoria del “Viaggio dell’Eroe”: l’Eroe è colui che affronta e supera i propri limiti, portando all’esterno i frutti di queste vittorie, l’Eroe è colui che impara a conoscersi grazie al mondo, che trasforma trasformando se stesso. Nella fattispecie l’archetipo del sovrano è quel tipo di forza psichica che impieghiamo ogni qualvolta studiamo, parliamo in pubblico, comandiamo, puniamo, deleghiamo, deliberiamo, istruiamo, programmiamo, controlliamo ma anche quando portiamo pace, ordine, giustizia, abbondanza al “Regno”, nella consapevolezza che dalle scelte effettuate ne dipenderà la salute. Quante di queste azioni compiamo davvero nel nostro quotidiano? Quanti di noi sono realmente sovrani della propria vita? Il Sovrano, colui che per definizione non ha alcun potere sopra di sé cui obbedire, l’unico che almeno apparentemente possa concedersi il lusso di essere anarchico, ha in realtà una enorme responsabilità: la corona pesa, ogni libertà ha un prezzo. In psicologia l’archetipo del Sovrano suggerisce all’Eroe l’abnegazione e il costante sacrificio di se’, nonché la capacità di morire a se stessi e rinnovarsi continuamente, di maturare visione e valorizzare le risorse disponibili, per non degenerare in arido burocrate (si può dire tecnocrate?).
Terzo circolo virtuoso
Chiunque abbia militato in un partito, ovvero si sia assunto la responsabilità non facile dell’esercizio della sovranità, sa benissimo che per tentare di influenzare la vita politica del paese è necessario sviluppare e adoperare virtù come: studio, pensiero strategico, abnegazione, integrità, capacità di relazione col prossimo, di parlare in pubblico, di agire per un bene superiore. A ben vedere le stesse virtù di un sovrano. Possiamo quindi affermare con cognizione di causa che l’esercizio stesso della sovranità popolare stimola nel militante l’attivazione dell’archetipo del sovrano, a tutto vantaggio del progresso psicologico individuale e dello “sviluppo della persona umana”. È ciò che banalmente nelle vecchie scuole di partito si chiamava “formazione del carattere”, ma in realtà è molto più di questo. Siamo infatti di fronte ad un nuovo circolo virtuoso: se il precedente, come visto, muoveva dalla responsabilità individuale nel partecipare attivamente alla vita della res publica, per ottenere nuovi spazi di libertà, in questo caso, sempre a partire dalla responsabilità individuale, l’esercizio della sovranità popolare porta l’individuo a lavorare “per un regno migliore”, quindi lo mette in viaggio nel percorso di individuazione, spingendolo a conoscersi e a sviluppare la propria personalità nel mondo per il mondo: è forse l’essenza più profonda del valore della “militanza”.
Per Jung i fenomeni sociali, essendo la somma di fenomeni psichici individuali, sono diretta espressione del livello di coscienza di ogni singolo individuo, quindi risulta inutile che un individuo si impegni politicamente se non è disposto ad approfondire la conoscenza di sé, ad aprirsi al proprio mondo psichico interiore, ad attivare quelle facoltà psichiche che gli permettono di avere un armonico sviluppo della personalità. “Sii il cambiamento che vuoi vedere nel mondo” diceva Gandhi: in altre parole, se ogni individuo si impegnasse a ricercare questa “fioritura” di sé, il mondo si popolerebbe di individui equilibrati, in armonia con se stessi e con il prossimo, e di conseguenza molti dei mali da cui siamo afflitti svanirebbero da soli. Dubitiamo che Jung conoscesse la Costituzione italiana. Chissà cosa penserebbe a sapere che una delle infinite “vie” verso quella fioritura può essere l’esercizio della sovranità popolare: la militanza politica come esercizio dell’archetipo del sovrano, come saldatura tra il mondo interiore e quello esteriore, pragmatismo e idealismo, ragione e slancio mistico, Macrocosmo e Microcosmo: l’azione altruistica del Buddhismo, il servizio devozionale dello yoga, la carità di San Paolo. Tutto scritto nella “Costituzione più bella del mondo”, frutto di un alacre lavoro tra le migliori menti italiane forgiate dalla lotta partigiana alla fine della seconda guerra mondiale, sintesi di correnti intellettuali e politiche di matrice opposta ma accomunate dall’orrore per la guerra, l’oppressione, la discriminazione, in un contesto geopolitico favorevole al momento costituente più puro.
«Una volta che abbiamo consegnato i nostri sensi e i nostri sistemi nervosi alle manipolazioni di coloro che cercano di trarre profitti prendendo in affitto i nostri occhi, le orecchie e i nervi, in realtà non abbiamo più diritti. Cedere occhi, orecchie e nervi a interessi commerciali è come consegnare il linguaggio comune a un’azienda privata o dare in monopolio a una società l’atmosfera terrestre»
Marshall Mc Luhan, Gli strumenti del comunicare
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