Nonno Attilio
Erano venuti a prenderlo una gelida mattina di novembre 1942. Aveva appena fatto in tempo a vendere la “mussa” (l'asina) assieme al carretto con cui consegnava legna e carbone per essere portato via dal camion dei fascisti. Assieme a lui una dozzina di altri uomini che dovevano essere deportati, probabilmente padri di famiglia come lui. Lasciava così senza sostentamento la famiglia, con mia madre (in quei giorni undicenne) figlia più “vecchia” di quattro fratelli. Sarebbero stati tempi molto duri per tutti.
Impenitente socialista (nulla a che vedere con le degenerazioni successive della Milano da bere, mi preme ricordare), non si era mai voluto fare la tessera del fascio. E alla fine i fascisti gli presentarono il conto: campo di concentramento.
Autarchia fascista è il termine che più ricorre nei ricordi materni di quei giorni. A torto o a ragione l'autarchia sembra avesse causato un drastico ridimensionamento dell'attività di nonno Attilio. Carbone non ne arrivava più, o molto poco. I treni che lo trasportavano erano desolatamente vuoti. Sì, d'accordo, l'Acai (azienda carboni italiani) aveva fondato Carbonia e altre città in prossimità dei giacimenti carboniferi nel territorio italiano di allora (Istria compresa) e la produzione mostrava numeri di tutto rispetto. Ma la memoria familiare racconta altre cose.
Dove fosse stato internato non lo si seppe mai, né lui mai lo disse. Accennò solo qualche volta ai doberman dei nazisti che in più di qualche occasione avevano sbranato dei prigionieri.
In sua assenza la famiglia aveva dovuto arrangiarsi come meglio poteva. Mia nonna e mia madre furono costrette a lavorare in fabbrica per portare a casa qualche soldo. Poi la guerra finì, i campi di concentramento vennero liberati, ma di lui nessuna traccia. Passarono mesi dalla Liberazione ed ancora nessuna notizia, né di lui né dei suoi compagni di sventura. Ormai era dato per morto, una delle tante vittime senza nome della barbarie nazista e fascista.
E invece un giorno dell'autunno '45 ricomparve. Fu grande festa. A titolo di risarcimento si era portato via due pesantissime terrine di porcellana. Io me le ricordo ancora. Bianche, rotonde e spesse, con la base abbastanza piccola e l'ampia apertura avevano lati dritti fino al bordo di spessore doppio. Sul retro c'era il marchio inconfondibile: l'aquila della Luftwaffe e qualche scritta tedesca che non ricordo, tutto stampigliato in inchiostro blu. Per me bambino che non aveva conosciuto gli orrori della guerra quella era la prova che il nazismo non era solo un racconto dei “vecchi”. I nazisti avevano deportato mio nonno e lui gli aveva portato via le due terrine. Centinaia di chilometri a piedi verso casa, come la maggior parte degli internati fece, con quei due pesantissimi trofei. Semplicemente grandioso.
In quanto a portare a spasso oggetti spaventosamente pesanti se la cavò bene anche dopo.
Me lo ricordo ancora sulla sua bicicletta da fornaio: nera, pesante, con il telaio doppio, un enorme portapacchi davanti ed uno altrettanto grande dietro e le ruote piccole (penso fossero da 22 contro le moderne 28).
Quando veniva a conoscenza che da qualche parte (non importa quanto distante) c'era un paracarro o una pietra miliare divelta da un incidente o da lavori stradali lui non perdeva tempo e si dirigeva in bici a recuperare il prezioso pezzo di trachite per portarselo a casa.
Me lo ricordo ancora seduto a battere con la mazzetta sullo scalpello che doveva ridurre il masso a dimensioni accettabili per farne un pezzo del muro di casa sua. Ogni tanto la mazzetta scivolava e la mano sanguinava: lui leccava il sangue, bestemmiava e proseguiva con l'opera. Fu così che si costruì la casa. Una casa di pietra, rara da queste parti dove i mattoni sono sempre stati il materiale principale per l'edilizia.
E me lo ricordo quando dopo aver pranzato, ancora seduto sulla sedia, si appoggiava al palmo e si appisolava a bocca aperta. Si alzava sempre prestissimo e non tollerava intrusioni in quell'attimo di riposo. Se ne rese conto anche la vespa che lo continuava ad infastidire: finì masticata. D'accordo, non fu una decisione brillante quella di masticare la vespa, perchè questa ricambiò il favore pungendolo sulla lingua. E si spaventarono un po' tutti quando videro come si era conciato. Ma lui bestemmiò un quarto d'ora in più e risolse la questione così.
Un altro episodio che mia nonna mi raccontò fu quando andarono al cinema a vedere un film di guerra. Mia nonna insistette parecchio prima di convincerlo. Film? Roba che non gli interessava. Ma se è di guerra, boh, vediamo cos'è un film di guerra. Pagano, entrano e si siedono. Inizia il film. Le scene che si succedono evidentemente rinverdiscono le sue memorie. Non aveva voluto mai parlare della sua permanenza nei campi di concentramento, ma quel film stava facendo affiorare immagini mai dimenticate. Finì per diventare una questione sua personale tra lui e gli attori che personificavano i ruoli dei nazisti, e non smise di apostrofarli pesantemente per tutta la durata della proiezione. Ad un certo punto mia nonna per calmarlo lo convinse ad uscire. Fine del film, e fine della sequela di improperi. Non si era mai vergognata così tanto, mi confessò.
Io al contrario avevo trovato la cosa buffa, ma nulla di cui vergognarsi. Avrebbero dovuto vergognarsi i fascisti che lo misero nel camion ed i nazisti con i loro doberman, semmai. Ancora oggi mi stupisce il suo incanto davanti alla finzione filmica. Un po' come la prima proiezione mai fatta, quando gli spettatori che vedevano la locomotiva avvicinarsi scappavano terrorizzati. Certo, lo scopo è proprio quello di rendere reale qualcosa che non lo è. Mi chiedo solo perchè chi non sa distinguere l'inganno dalla realtà sia considerato più sciocco di chi crea l'inganno.
Quando tornò dal campo di concentramento si mise a fare quei i mestieri che gli uomini semplici di una volta sapevano fare: muratore e agricoltore. Nessuna specializzazione, solo buon senso e tanta fatica. Nessuna scuola, a parte quella della vita. Una volta era così: ci si arrovellava per cose concrete senza andare in cerca del “quantum leap”, per dirla in linguaggio forbito. Nessuna priorità a parte quelle vitali (la casa, il mangiare e vestire) e non c'era quell'affannosa ricerca di quei “miglioramenti” (qualsiasi questa cosa possa significare, dal PIL allo status symbol) che da un bel pezzo sono diventati il leit-motiv della vita moderna. All'epoca avere una vita “migliore” significava avere abbastanza da riempirsi la pancia. Oggi invece la pubblicità della CNA ci ammonisce: “noi abbiamo vissuto meglio dei nostri padri, e i nostri figli dovranno vivere meglio di noi”, in un crescendo vorticoso di “miglioramenti” obbligatori.[1] Secondo questa proiezione siamo tutti destinati a diventare miliardari che passano le loro giornate sulla tolda di un lussuoso yacht bevendo millesimato, e nessuno lavorerà più.
Morì con ancora tutti i suoi denti in bocca, un primato di cui sicuramente io, pur ancora molto più giovane di lui adesso, non posso menare vanto alcuno. Sono un portatore sano di falsità odontoiatriche, destino molto comune al giorno d'oggi. Lui invece con i suoi denti piccoli e gialli spaccava le ossa di pollo per succhiarne il midollo. Un lusso che mi costerebbe un mutuo da versare direttamente nel conto corrente del mio dentista. Oggi poi le ossa di pollo non si danno neanche più ai cani: un altro segno di come sono cambiati i tempi.
Alla fine, avendo resistito con tutte le sue forze alle forze distruttive della modernità del “secolo breve” di Hobsbawm ne venne comunque infettato al punto di morirne: il tumore ai polmoni non gli lasciò scampo. Alle volte le battaglie più dure non sono quelle contro i nemici visibili come gli uomini che lo internarono. Alle volte la vittoria è solo apparente ed il nemico si prende silenziosamente la rivincita. “Il carcinoma del polmone è la neoplasia con il maggior tasso di incidenza e di mortalità nel mondo.. maggiore tasso d'incidenza nelle popolazioni esposte all'inquinamento proveniente …dall'esposizione soprattutto ai fumi provenienti dalla combustione del gasolio e dei carburanti derivati dal petrolio.”[2]
I nazisti e fascisti avevano perso, ma aveva vinto la modernità, che richiedeva adeguati contributi.
E la modernità non si era mai affrancata da un modello di sviluppo di matrice nazista:
“Da questo momento l’industria Tedesca deve fare tutti i passi necessari per assicurarsi la supremazia commerciale nel dopoguerra. Ogni industria dovrà fare alleanze con imprese estere senza attrarre alcun sospetto. Il partito nazista ed il Terzo Reich sosterranno ogni impresa con sostegno legislativo e finanziario” commentò il dott. Scheid (che rappresentava Bormann) il 10 agosto 1944 presso la Rotes Haus di Strasburgo a cui parteciparono tutti i vertici militari, industriali e finanziari della Germania nazista.[3]
In quei giorni la guerra stava avviandosi verso la sua conclusione, con vinti da una parte, vincitori dall'altra e la modernità nel mezzo. Nonno Attilio sopravvisse al nazismo e al fascismo, ma non sopravvisse alla modernità.
[1]http://www.ra.cna.it/campagna_immagine/campagna_immagine_2012.php
[2]http://it.wikipedia.org/wiki/Carcinoma_del_polmone
[3]https://www.appelloalpopolo.it/?p=2216
Questo post è stata occasione per rileggersi quelli sulle relazioni fra USA e Germania nazista, cui si rimanda nei post sul cartello petrolchimico (nota 3).
Il link del primo scritto è stato aggiunto al nostro post su USA-Germania: la partita infinita, nella speranza che vengano letti.
Grazie e complimenti
p.s.
sarebbe altresì interessante comprendere perchè a Torino le fabbriche del sig. Bianchi verranno bombardate, e quelle della Fiat risparmiate dai bombardamenti alleati. Sarà per la presenza in città di Almirante che nel frattempo, come racconta Vinciguerra, si era rifugiato presso una famiglia ebrea residente a Torino per scampare alla presa dei partigiani?
Ma non è da scandalizzarsi: i conflitti non sono mai quelli apparenti. Per questi motivi la Germania non volle l'euro, mentre oggi si ostina a difenderne l'architettura che non la vide d'accordo. Leggere meglio le dinamiche in gioco sullo scacchiere globale ci potrebbe aiutare a comprendere se ci stiamo comportando come cani che corrono dietro la lepre.
Ho inviato il link di questo bellissimo articolo a molti amici, alcuni dei quali molto giovani.
Spero proprio che questi ultimi lo leggano con la dovuta attenzione e sensibilità.
Hvala lepa.
Buona questa esaltazione strisciante del passato preindustriale. Perfetta per chi non l’ha mai vissuto.
I bei tempi antichi erano quelli in cui la stragrande maggioranza della popolazione mangiava carne una volta a settimana e viveva beatamente (questo sì) nello stato di idiozia rurale stigmatizzato dal giudeo di Treviri (quello stato che la società multimediale sta ripristinando mutatis mutandis).
Tempi in cui chi arrivava all’età adulta era effettivamente robusto perché gli altri, nell’assenza di antibiotici, morivano in fasce. In cui i bambini venivano messi al lavoro in ferriera o nei campi a otto anni, otto o dieci ore al giorno non perché a quell’età fossero in grado di contribuire significativamente alle attività produttive, ma perché dovevano asimilare fin dalla più tenera età quello che sarebbe stato l’immutabile destino di una vita di fatiche, sei giorni e mezzo la settimana.
In cui i vecchi non avevano pensione e venivano mantenuti (spesso controvoglia e in malo modo) dai figli, presi in giro o a sassate dai monelli per la strada.
In cui le mogli venivano regolarmente pestate dai mariti che tornavano ubriachi a casa il sabato sera, e in assenza di contraccettivi, oltre che di svaghi diversi dal sesso, si logoravano fra un parto e il successivo, al punto che la durata media della vita femminile era 12 anni più bassa di quella maschile.
Con tutto questo ascolto con simpatia chi mi dice di voler tornare a quel mondo. Diciamo che lo vedo meglio come una crudele punizione da infliggere a un’umanità votatasi al più stucchevole culto del consumismo, che non come un felice recupero di un eden smarrito, giusta la favola soggiacente a tutti i progetti escatologici.
Taccio qui sulla mitologia antinazista: per quale motivo al mondo i nazisti avrebbero dovuto rispettare l’altrui umanità, visto che appunto si riconoscevano nella religione della razza?!
Scrive Lorenzo:
Con tutto questo ascolto con simpatia chi mi dice di voler tornare a quel mondo.
Quindi è meglio un mondo di umani raffazzonati alla bell'e meglio da una medicina al servizio del capitale piuttosto che un'umanità "filtrata" da accidenti che ne garantiscono una invidiabile salute?
Un dato solo, per smontare questa risibile critica: se, come ci informano tutti i dati medici, il tumore è una delle maggiore cause di decessi, e gli antibiotici sono un elemento che concorre alla formazione di tumori, non ti pare che l'idea di curarci con qualcosa che poi alla fine ci farà fare una vita di inferno sia la classica cura peggio del male? Certo, ci prolungano la vita. Ma lo fanno per causare dipendenza da farmaci.
Si tratta di metodi per renderci sempre meno umani e sempre più consumatori: consumiamo droghe allopatiche dalla nascita alla morte. Immagina quanto costa una cura antitumorale e che indotto ha. E magari nasce da antibiotici presi in infanzia che hanno obbligato quella persona ad una salute malferma e sempre nell'atrio del medico di base.
http://www.partecipasalute.it/cms_2/node/957
Non so poi in quale rivista di avanspettacolo tu abbia letto che i vecchi venivano presi a sassate, dato che le società di qualche decennio fa erano decisamente più patriarcali di adesso, e c'era conseguentemente un rispetto più rigoroso per i vecchi.
Per il resto, al solito, assisto ad una messe di luoghi comuni di un certo segno culturale che hanno raro riscontro alcuno con il reale.
Se l'Autore non me lo proibirà, pubblicherò questo splendido testo sul blog di Movimento Zero
Ne sarò onorato.
Grazie
Lorenzo non dice castronerie: la realtà, soprattutto quella delle aree rurali ma non unicamente, era quella descritta dalle sue parole.
Quindi la sua sollecitazione a non affrancarsi dall'attuale modello di sviluppo economico-produttivo e delle parallele relazioni sociali riprendendo acriticamente un'idea (spesso appunto molto ideologica) aurea ed arcadica di un passato più morale e umano rispetto a quello attuale, è da prendere in seria considerazione. Il rischio che così si corre è solo quello di essere nostalgicamente memori di una presunta superiorità civile e/o etica delle società pre-industriali e rurali. Un rischio che soprattutto sembra denunciare l'impotenza del soggetto contemporaneo a pensare e a ripensarsi in un mondo diverso, sia dall'attuale come da quello passato, senza affrancare la propria memoria dalle lacerazioni profonde che ogni tempo segna sulla carne degli uomini.
Quindi, così come questa società sviluppista e dei consumi è un modello (in parte subito in parte coprodotto, come sono le dinamiche reali di soggettivazione e di assoggettamento di foucaultiana descrizione) che ha visto i nostri padri pensare e costruire un modello sociale "diverso" da quelli dei loro padri (e nostri nonni), così a noi spetta pensare e costruire (nella fatica di trovare nuovi equilibri) un modello produttivo etico e sociale "diverso" da quello stesso dei nostri nonni e dei nostri padri, senza tranciare affatto nessuna memoria e connessione con quelle diversità, ma richiamandosi da (e non a) quelle diversità.
Le ansie di trovare risposte certe e definitive ci dicono solo dell'angoscia e della malattia specifica di questi tempi esilianti, che ognuno di noi con modalità diverse soffre e dalla quale vorrebbe, infatti, affrancarsi o rivoluzionare. Ma i processi sono molto lenti, e non coprono affatto il tempo di una generazione. Raccogliere e impossessarsi delle nostre angosce di donne e uomini contemporanei, che vagano tra recuperi a volte folkloristici di una presunta verginità morale del passato e prospettive future tradite dalle prassi quotidiane, è l'orribile della cui cognizione dovremmo farne cibo per comprendere che il nostro compito storico è quello di ripensare un "oltre" ed un "ulteriore" di senso al fare e al dire, senza cesure con la memoria, senza dispersioni nelle distese solitarie tipiche dei soggetti desideranti tipici della contemporaneità. Semmai, ritrovarsi nello sforzo di sperimentare e sostenere relazioni produttive e sociali "diverse", che si dispongano certamente in continuità, ma anche in discontinuità. In evoluzione, appunto. Se ancora la parola socialismo ha il senso marxiano del termine, e non la chiacchiera funzionalistica che ha rivestito nel '900, in tutte le sue derivazioni politiche. Siamo stati ideologici del capitalismo, e non ne aeravamo consapevoli. E oggi a questa consapevolezza cerchiamo di resistere per non ritrovarci nel silenzio alla quale verremmo costretti dalla stessa. Non per inezia, nè per una qualche sconfitta storica finalmente compresa, ma per l'emergenza di un altro "senso" possibile (e necessario) nel caotico ed eccessivo vociare di questi tempi.
E questa è la sfida e la difficoltà che la segna, quella della ricerca dell'"equilibrio" perduto. Un equilibro che non è da ricercare in atteggiamenti "anti" qualcosa, buoni solo a raffazzonare le nostre frantumazioni identitarie. E neanche da ricercare in quelle parti del sogno mancato, e del desiderio tradito, che ci fa soltanto essere malinconici e nostalgici nell'affanno sanificante del non volere far i conti anche con il fallimento verso il quale ogni opera dell'uomo va incontro.
Bisogna essere spietati verso il tempo e la memoria, tanto quanto il tempo e la memoria lo sono verso ognuno di noi, esseri storicamente determinati di questo tempo contemporaneo dispersivo ed esiliante.
Quanto si è disposti a rimettersi in gioco come personalità? Quanto si è disposti a sottoscrivere la fallacia delle nostre ragioni? Quanto si è disposti a riconoscere l'intuizione delle ragioni dell'Altro? Quanto si è disposti a lasciarsi assediare e contaminare?
Nei tempi di crisi, come quelli che la nostra fortuna vuole adesso che noi si viva, non ci sono spazi per dividersi, non ci sono vocaboli sufficienti per nominare le cose che fra le mani vorremmo trovarci in alternativa a quelle che oggi le colmano.
E' un'altra la materia che dobbiamo manipolare. E da questa materia, e dalla tecnologia che la manipolazione di questa materia verrà a determinare, che un nuovo umanesimo comparirà. E ciò che adesso ci unisce è proprio la ricerca di un'altra materia.
Mio caro Tonguessy, per rimanere in campo medico, non nego che la modernità abbia aumentato i tumori (in realtà parte di quest’aumento deriva dall’aumentata della lunghezza media della vita) né rigetto la tua critica dell’industria farmaceutica.
Mi limito a paragonare questo stato di cose colla polvere di piombo che fin da tempi romani veniva mescolata al vino per addolcirlo, i bimbi tedeschi ubriachi a due anni perché i corsi d’acqua erano impestati da tifo e colera e venivano svezzati colla birra, la denutrizione, le operazioni chirurgiche compiute senza anestesia e senza le minime precauzioni igeniche, malaria, vaiolo, lebbra, mal sottile e mille altre malattie estinte dalla scienza moderna, per finire colle pestilenze che ogni pochi decenni si portavano via una percentuale a due cifre dell’umanità europea. E l'elenco potrebbe continuare ad libitum.