E se fossero le coop a contrastare lo sfruttamento delle piattaforme digitali?
di STRISCIA ROSSA (Rinaldo Gianola)
Nelle pieghe del dibattito estivo sul lavoro povero, sulle basse retribuzioni e dunque sulla necessità di introdurre il salario minimo legale nel nostro Paese (richiesta sostenuta da opposizione e sindacati, ma respinta dal governo Meloni che, in aggiunta, ha cancellato pure il reddito di cittadinanza e lanciato la social card con la lista delle spesa sovranista) si può individuare un tema sociale ed economico più ampio che riguarda la cosiddetta economia delle piattaforme, la sua organizzazione, i suoi successi e le conseguenze della sua diffusione nel mondo.
La grande illusione del progresso
Come spesso accade sono gli Stati Uniti a proporre le novità più rilevanti sotto il profilo del cambiamento tecnologico, dell’evoluzione di Internet, dell’innovazione fino all’Intelligenza Artificiale, ma il progresso economico e sociale associato a queste metamorfosi spesso viene esaminato e pure contestato perché l’economia delle piattaforme porta con sé indiscutibili miglioramenti della nostra vita, ma introduce anche forme di sfruttamento, emarginazione, esclusione. Le piattaforme digitali, infatti, rappresentano un’evidente rivoluzione tecnologica che andrebbe governata, e in alcune parti pure contrastata, per evitare possibili, dannose conseguenze.
All’inizio del nuovo millennio, con l’avvio di molte piattaforme digitali di successo si era aperta la speranza che l’economia digitale, con tutte le sue opportunità di applicazione, potesse aprire la strada verso una democratizzazione del sistema e di una maggior giustizia sociale, di un diverso equilibrio nei rapporti tra impresa e lavoro. La stessa definizione di Sharing economy (molto di moda e assai abusata come sostenibilità, transizione, green economy) prospettava una società in cui la proprietà individuale sarebbe stata accompagnata dalla condivisione digitale.
La speranza si è trasformata in un’illusione se si guarda all’affermazione delle grandi piattaforme digitali attive nei più svariati servizi (mobilità, logistica, ristorazione, commercio, ticketing…), che hanno conseguito brillanti risultati economici, diventando autentici fenomeni di massa e con comportamenti simili ai vecchi monopoli, con un impatto sociale controverso. Per fare un esempio il combattivo senatore democratico Bernie Sanders, presidente della Commissione del Senato per i diritti, il lavoro, il welfare, ha avviato da pochi giorni un’indagine sulle condizioni dei dipendenti di Amazon che, tra l’altro, avrebbe “sistematicamente sottostimato” gli incidenti nei suoi magazzini e richiamato il colosso Starbucks perché discrimina i dipendenti che hanno votato a favore dell’ingresso dei sindacati in azienda.
In Italia siamo in presenza, ancora, di un faticoso sforzo per disciplinare i rapporti di lavoro, con diritti e garanzie minime per i rider che consegnano pizze e kebab e sono diventati il simbolo del modello economico delle piattaforme. Migliaia di lavoratori dipendono unicamente da una piattaforma digitale, sono governati, selezionati, sfruttati da un algoritmo, svolgono una funzione continua con orari senza limiti e risultano essere lavoratori autonomi, privi di assistenza e garanzie. La situazione è talmente degenerata (è toccato alla magistratura mettere alcuni punti fermi contro questo evidente sopruso) che le piattaforme digitali sono spesso associate a casi cronaca di precarietà, conflitto sociale, sfruttamento. Ma l’economia delle piattaforme pare non avere limiti perché è una nuova dimensione dell’economia, si sta allargando a settori come l’assistenza alle persone, al welfare, e dunque sarebbe utile studiare e definire modelli alternativi a quelli fino a oggi prevalenti sul mercato, soprattutto per quei soggetti (anche grandi imprese, fondazioni, banche) che puntano a svolgere ruoli di intervento sociale, solidale, assistenziale.
Il senso del “platform cooperativism”
Una proposta alternativa arriva dagli Stati Uniti dove da pochi anni è attivo il movimento del “platform cooperativism”, che ha l’obiettivo di applicare le dinamiche e le regole delle cooperative all’interno del mondo digitale. Questa opzione può essere un’occasione utile anche per l’Italia dove la cultura della cooperazione ha radici profonde, democratiche, che si ritrovano nelle esperienze socialiste, cattoliche, civiche dell’Ottocento. Nei giorni scorsi a Milano, ospite della Fondazione Feltrinelli, è arrivato Trebor Scholtz, ricercatore e attivista, fondatore e direttore dell’Institute for the Cooperative Digital Economy a New York, per presentare il suo progetto d’azione.
La sua idea è di rilanciare il principio della cooperazione che sarebbe congenito nelle piattaforme, prima di essere travolto dalle logiche di interesse, di profitto e di mercato. Ha creato e sviluppato il Platform Cooperative Consortium per promuovere la diffusione del modello di piattaforma cooperativa che ha trovato sbocchi oltre che negli Stati Uniti, in Giappone, Australia, Hong Kong. India, Germania, Svezia e ora parte in Italia. Si tratta di un’idea coraggiosa anche se, di fronte alla potenza incontenibile e all’enorme ricchezza delle grandi piattaforme, può sembrare illusoria e temeraria. Però la condivisione cooperativa delle piattaforme, con la regia e la promozione dei comuni, della pubblica amministrazione, dei sindacati e di imprese aperte e innovative, potrebbe diventare un orizzonte ambizioso e positivo per molti.
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