Il rublo è tornato ad avvitarsi e a scendere sotto la soglia psicologica del cambio di 100 a 1 col dollaro nelle ultime settimane in un contesto che vede la Russia chiamata a fare i conti con le conseguenze a medio termine dell’economia di guerra a un anno e mezzo dall’invasione dell’Ucraina. Tra alta inflazione, crollo dei depositi interni, fughe di capitali e sanzioni occidentali Mosca sente il fiato sul collo della crisi economica e deve farvi fronte.
Togliendo lo choc che lo ha portato a 150 a 1 di cambio col dollaro due settimane dopo l’invasione dell’Ucraina, nel marzo 2022, il rublo è oggi di fatto ai minimi sia contro il biglietto verde che contro l’euro. Due sono i dati che permettono di capire la base di questo problema: innanzitutto, il crollo dell’85% del surplus delle partite correnti del Paese, sceso a 25,2 miliardi di dollari nel semestre gennaio-giugno. Questo significa che la differenza tra entrate e uscite del sistema-Paese russo si è notevolmente compressa in un anno, facendo venire meno una fonte notevole di entrate che serviva a difendere il valore del rublo.
In secondo luogo, l’aumento della spesa militare, che Mosca ha fissato inizialmente per l’anno in corso a 54 miliardi di dollari complessivi ma potrebbe esplodere, secondo i dati elaborati da Reuters, fino a 100 miliardi di dollari, assorbendo un terzo del bilancio pubblico. La spesa militare è sicuramente un calmiere sul breve periodo in termini di Pil e occupazione, soprattutto industriale. Ma a suo modo in tempi di guerra è un acceleratore inflazionistico, perché le armi e i sistemi prodotti vengono distrutti e consumati sui campi di battaglia, si sottrae una quota di risorse alla produzione di beni di consumo e al welfare, si devono assorbire costi legati alle ricadute sanitarie della guerra e alla protezione sociale di veterani, feriti e mutilati.
Questo combinato disposto, legato sul primo fronte all’erosione dei prezzi di gas e petrolio e alla chiusura graduale dei mercati occidentali e sul secondo alle problematiche della guerra in Ucraina, ha minato la strategia che per diversi mesi ha tenuto a galla la Russia. Promossa dalla Banca centrale di Elvira Nabiullina che nell’ultimo anno ha imposto agli esportatori di convertire in rubli l’80% della valuta pregiata ottenuta dalle transazioni con l’estero, difendendo il valore della divisa russa, permettendo così a Mosca di mollare la presa sui tassi. Dal 20% del post-invasione Nabiullina li ha gradualmente rilassati fino al 7,5%. Negli ultimi mesi è tornata ad aumentarli e dopo il crollo del rublo sotto la soglia psicologica di 1 a 100 col dollaro ha convocato una riunione d’emergenza dell’istituto per alzarli dall’8 al 12% per fermare l’inflazione.
“Nonostante l’aumento dei prezzi del petrolio di luglio, i proventi delle esportazioni rimangono bassi, non solo a causa dei massimali dei prezzi occidentali, ma anche perché gli esportatori non rimpatriano una parte significativa dei loro guadagni in valuta estera”, ha scritto il Financial Times, sottolineando che la scelta liberale e tecnocratica di Nabiullina può “tagliare le gambe” alle pretese degli estremisti del partito di Vladimir Putin che spingono per il finanziamento a ogni costo della guerra, a prescindere dagli effetti di bilancio. Vladimir Solovyev, popolare commentatore pro-Cremlino, ha dichiarato in televisione che per colpa di Nabiullina e della Banca centrale “il mondo sta ridendo di noi” contestando l’innalzamento dei tassi. E nei canali Telegram e Twitter si è tornato a parlare della possibile uscita di scena di Nabiullina. Ma è difficile pensare che, tra l’incudine e il martello, la Banca centrale avrebbe potuto fare scelte diverse. E soprattutto che in assenza di un sostituto all’altezza Putin si possa privare dell’economista che di fatto gli permette di pagare per una guerra che lei stessa, in prima persona, non ha mai fatto mistero di non amare.
La Russia si trova ora in una situazione di crescita dopata dalla spesa pubblica per la guerra, che ha un riflesso positivo nei dati sul Pil ma rischia di contorcere notevolmente l’economia. La riduzione della rendita petrolifera e gasiera mette sotto pressione il rublo, mentre le sanzioni occidentali fanno il resto impattando sulla fuga di capitali dalla Federazione russa che secondo i calcoli del Moscow Times ha portato all’uscita di 253 miliardi di dollari di depositi dal Paese da febbraio 2022 a luglio 2023.
In quest’ottica, la Banca centrale le sta provando tutte: aumento dei tassi, ricerca di piattaforme di pagamento alternative tramite l’istituzione-pilota di una moneta digitale come strumento di pagamento per le transazioni capace di bypassare l’uso del dollaro, invio di messaggi di stabilità ai mercati. A cui si aggiunge, nei limiti del possibile, la focalizzazione sui mercati di sbocco non occidentali per provare a de-dollarizzare i commerci con Paesi come Turchia, Cina, India, Emirati Arabi e via dicendo. Ma di fronte a un’economia ormai convertita allo sforzo bellico, i problemi del rublo scontano anche la fragilità del sistema russo alle sue radici, il calo dei consumi, la crisi della classe media di fronte alla situazione di grande caos apertosi.
Già una volta, l’anno scorso, con grandi sacrifici Nabiullina ha salvato l’economia russa dal tracollo imponendo una sanguinosa politica monetaria di difesa del cambio che indirizzava sull’acquisto dei rubli i proventi dell’export. Ora la quota di risorse a disposizione per tali manovre ardite si è ampiamente ridotta. E non è detto che tornare al tradizionale rialzo dei tassi possa far guadagnare tempo a una Russia la cui principale distorsione macroeconomica è legata alla riconversione militare della spesa. Difficilmente sostenibile sul lungo periodo senza contraccolpi sostanziali alla stabilità del Paese.
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