Si tratta di un caso chiaro di eurocentrismo
di GABRIELE GERMANI (Pagina FB)
Tra gli aspetti poco considerati nella formazione del potere in fase arcaica vi è il rapporto con il prestigio.
Prestigio è concetto vago e mutevole per tempi e luoghi. La vulgata vuole che i primi “capi” fossero uomini violenti, particolarmente forti, abili cacciatori; tendiamo a concentrare nella forza fisica o nella brutalità la capacità di gestione del potere. Questo è un meccanismo molto forte nella nostra società (essere in alto vuol dire essere “uno squalo”, non a caso), ma non automatico nel resto del mondo. Si tratta di un caso chiaro di eurocentrismo, in cui i nostri valori vengono proiettati su tutti gli altri.
In molto società di transizione tra la fase tribale o di banda e la chefferie (capitanato), notiamo infatti una stretta correlazione tra potere e prestigio. Il leader doveva poter fare grandi doni, organizzare cerimonie, offerte alle divinità, ad essere centrale non era la sua forza, ma la sua capacità di accumulare ricchezza.
Il primo punto che va chiarito è che nelle società a cui stiamo facendo riferimento raramente l’accumulazione era ereditaria, molto più spesso questa coincideva con la capacità di “creare” nuova ricchezza.
In un mondo ancora in transizione tra la fase agricole e quella di caccia e raccolta, non era affatto facile produrre ricchezza; per questo più che la forza bruta, ad essere importante era la capacità di pianificazione e organizzazione, la persuasione. In questo assume rilevanza la forza della famiglia/clan e il numero dei suoi membri (e la capacità di sostenerli a livello alimentare), una famiglia numerosa poteva aiutare nello sforzo produttivo e successivamente politico, il futuro leader, portandolo poi al potere.
Non a caso in queste società troviamo anche molti scontri dinastici: il peso del gruppo sul singolo era fortissimo. Convincere i propri parenti a mettere a disposizione la propria forza-lavoro non era cosa da poco. Molti studiosi concordano ormai che la forza bruta svolgesse un ruolo marginale; non possiamo escludere che qualche volta questa subentrasse, ma furono casi isolati.
Organizzare una comunità e soprattutto farla collaborare richiedeva persuasione, abilità retorica e prestigio; il capo non doveva essere temuto, ma doveva essere stimato. Il potere assumeva quindi una connotazione positiva e al contempo ordinatrice e generosa. Era tale perché riusciva a produrre più cibo, più utensili e questi venivano messi a disposizione della comunità, in virtù di questa maggiore capacità ci si affidava a lui ritenendolo la persona più fidata.
Le società tribali erano ben consapevoli delle dinamiche (potere della famiglia sul leader; contro-potere dello sciamano; rischio di non riuscire a conservare il prestigio o a elargire nuovi doni) e non vedevano come probabile una cristallizzazione del potere. Si trattò di un processo lento, graduale e multifattoriale, in cui anche l’agricoltura (il controllo delle acque) svolse forse un ruolo, ma non così determinante come raccontato fino ad ora.
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