Il massacro di Nanchino
di DIFESA ONLINE (Mario Veronesi)
86 anni fa avveniva il massacro di Nanchino, una delle pagine più buie nel contesto della seconda guerra sino-giapponese (1937–45), nella quale persero la vita più 20 milioni di cinesi.
Dal momento dell’ingresso in città le truppe giapponesi seminarono il terrore tra gli abitanti sopravvissuti ai bombardamenti. Nonostante le uccisioni fossero incominciate con la giustificazione di eliminare soldati cinesi travestiti da civili, continuarono stupri, saccheggi, e uccisioni. Circa un terzo della città fu dato alle fiamme e nella documentazione del massacro, compaiono foto di persone sepolte vive (ultima foto), impalate, cadaveri di bambini ammassati in attesa della sepoltura.
Uno degli episodi più orrendi fu la gara di uccidere 100 persone con la spada, in cui si sfidarono due ufficiali dell’esercito giapponese (foto seguente).
Nel 1931 il Giappone era già riuscito a creare uno stato fantoccio in Manciuria, nel nord della Cina, ma il conflitto esplose il 7 luglio 1937, col pretesto dell’incidente del Ponte Marco Polo. I giapponesi sbarcarono a Shanghai e trovarono una strenua resistenza. Fu proprio questa resistenza che spronò ulteriormente le truppe nipponiche a marciare su Nanchino. Dopo Shanghai, infatti, il governo nazionalista si era trasferito a Chongqing e non erano rimaste grosse difese nella capitale, ormai abbandonata a se stessa. All’epoca a Nanchino vivevano molti occidentali, che si occupavano di commerci, e numerosi missionari.
Quando l’esercito giapponese iniziò a bombardare la città, quasi tutti rientrarono nei propri paesi d’origine. Il tedesco John Rabe funzionario della Siemens rimase, e creò un “Comitato internazionale per la zona di sicurezza”, il comitato istituì nel quartiere occidentale della città una zona demilitarizzata per i civili cinesi. Si stima che in questo modo Rabe abbia salvato da 200.000 a 250.000 cinesi.
Subito dopo la caduta della città le truppe giapponesi si misero a cercare con determinazione gli ex soldati cinesi, catturando migliaia di giovani uomini. Molti di questi vennero condotti sulla riva del Fiume Azzurro e falciati con raffiche di mitragliatrice in modo che i loro corpi cadessero in acqua. Migliaia di persone furono portate via e uccise dopo essere state condotte in quello che fu chiamato “il fosso dei diecimila cadaveri”, una specie di trincea lunga circa 300 metri e larga 5.
In assenza di cifre ufficiali, si stima che il numero dei sepolti nella fossa possa essere stato tra i 4.000 e i 20.000. Il Tribunale per i Crimini di Guerra di Tokyo, ha stimato che in sole sei settimane siano state stuprate 20.000 donne, anziane, madri e bambine e uccise 200 mila persone nei modi più barbari. Molte altre fonti ne contano oltre 300.000.
In soli 5 giorni i giapponesi gettarono nel fiume Yangtze 150.000 cadaveri.
Nel gennaio 1938 i giapponesi dichiararono che l’ordine era stato ristabilito in città e smantellarono la zona di sicurezza, ma le uccisioni continuarono fino alla prima settimana di febbraio.
Nel verdetto del processo del 10 marzo 1947 furono stimati 190.000 morti per omicidi di gruppo e 150.000 per singole uccisioni.
La cifra di 300.000 è stata proposta per la prima volta nel gennaio 1938 da Harold Timperley, un giornalista che si trovava in Cina al momento dell’invasione, e che si basava sui racconti di testimoni oculari dell’epoca.
Nel dicembre 2007 alcuni documenti resi pubblici dal Governo federale degli Stati Uniti, hanno portato il totale delle vittime a 500.000, considerando anche quanto successo nei dintorni della città prima della sua cattura.
Al termine della Seconda guerra mondiale il Tribunale militare internazionale per l’Estremo Oriente e il Tribunale per i crimini di guerra di Nanchino, hanno condannato alla pena capitale alcuni generali giapponesi ritenuti responsabili del massacro, non incriminarono però l’imperatore Hirohito e i membri della famiglia imperiale, in virtù di patti stipulati con il generale statunitense D. MacArthur. Il generale Iwane Matsui venne processato dal tribunale di Tokyo per crimini contro l’umanità, fu poi condannato a morte e giustiziato nel 1948. Anche i generali Hisao Tani e Rensuke Isogai vennero condannati a morte dal Tribunale di Nanchino per i crimini di guerra.
Gli ufficiali Toshiaki Mukai e Tsuyoshi Noda, i due “gareggianti” nel decapitare 100 persone con le loro spade, furono condannati a morte e giustiziati.
Il principe Yasuhiko Asaka zio di Hirohito, che era stato l’ufficiale di grado più elevato presente a Nanchino nel momento in cui il massacro era al culmine, si limitò a rilasciare il 1º maggio 1946, una deposizione alla sezione internazionale del tribunale di Tokyo. Negò che fosse avvenuto alcun massacro di cinesi e sostenne di non aver mai ricevuto alcuna lamentela riguardo al comportamento delle sue truppe.
Nel 1985 fu costruita la Nanjing Memorial Hall, in memoria delle centinaia di migliaia di vittime del massacro.
Fonte: https://www.difesaonline.it/news-forze-armate/storia/il-massacro-di-nanchino
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