Guerra delle armi, guerra delle coscienze
da ERETICAMENTE (Roberto Pecchioli)
Un vecchio amico di destra, persona solitamente mite, a proposito degli eventi in Palestina ha detto, livido di rabbia e con uno sguardo che non gli conoscevo: spero che gli Israeliani distruggano per sempre quella gentaglia. Toni a parte (non sempre…) è il concetto espresso da tutti i partiti, dal giornalismo “unificato” e dalla comunicazione politica d’Occidente. A ranghi invertiti, concetti uguali e contrari si possono ascoltare da sostenitori della causa araba.
Si è impadronito di noi l’odio, armato di una violenza verbale, di un accanimento, di un’incapacità di valutare le ragioni altrui che lascia sbalorditi. Bianco o nero, nessuna sfumatura è ammessa. Il nemico è qualcuno con cui occorre farla finita in ogni modo, anche con lo sterminio. La caduta morale delle nostre coscienze sgomenta, sulla scia dell’orribile esempio delle élite neo liberali. In evidente difficoltà sul terreno del potere mondiale, sono divenute assertive, rancorose, brutali. Vittoriose contro i nemici – il fascismo prima, il comunismo poi – si sono disfatte della residua morale “borghese”, con le sue ipocrisie ma anche con un certo stile, rigore e senso del limite, per finire nel gorgo di un nichilismo che ha smarrito ogni ancoraggio etico. La guerra delle armi si trasferisce sul terreno delle coscienze, avvelenandole. In più perde il senso della realtà.
Chi scrive ebbe modo di ascoltare dalla voce dei genitori il racconto del 10 giugno 1940, il giorno dell’entrata in guerra dell’Italia. La mamma, adolescente allieva di sartoria, dopo aver udito il discorso di Mussolini, sperimentò in poche ore la cruda realtà bellica. Genova venne bombardata dall’aviazione francese la stessa sera. Fu l’inizio di anni di corse a perdifiato nei rifugi al suono delle sirene, il frastuono delle bombe, la paura, la distruzione, l’odore del sangue, il terrore di non ritrovare la propria casa e di riconoscere tra le macerie amici, parenti, conoscenti. Il babbo era alpino a Mondovì e venne mobilitato il giorno stesso. Raggiunse il vicino fronte e cominciò a sparare contro soldati di cui riconosceva la familiare parlata delle vallate alpine. Vide morire i primi commilitoni, anticipo della drammatica campagna di Russia a cui partecipò. Freddo, fame, morte, la scoperta dell’umanità dei contadini russi – i nemici – il fortunoso ritorno a casa tra le macerie della patria sconfitta.
Questa è la guerra. Non siamo pacifisti con la bandiera arcobaleno. Bisogna mettere in conto l’eventualità del conflitto – pòlemos è il padre di tutte le cose, scriveva Eraclito duemilacinquecento anni fa – mantenere la fortezza e saper affrontare chi ci minaccia. Tuttavia, non riusciamo ad accettare il furibondo linguaggio bellicista, la diffusione dell’odio, la tenace volontà di padroni e servitori di cancellare le ragioni degli altri e la loro stessa esistenza, la negazione al nemico della qualifica di uomo.
Nel 2022 ci hanno convinto che la Russia è malvagia, hanno diffuso una russofobia devastante che non ha risparmiato l’arte, la letteratura, la storia di quel grande paese. Sono invasori, sì, ma di terre russe per storia, lingua e sentimenti, per difendersi dall’accerchiamento geopolitico dei “buoni” occidentali, il cui suprematismo invertito (noi, quelli della tolleranza, del multiculturalismo, dei “diritti”) è la maschera dell’imperialismo, della volontà di potenza, del colonialismo. Abbiamo dimenticato che due popoli vicini e fratelli si stanno massacrando in conto terzi. Lutti, distruzione, sangue, dolore. Oggi per la gioia di chi fa lucrosi affari con le armi e l’economia di guerra. Domani, l’affarone: la ricostruzione miliardaria (il fondo Black Rock è in prima fila) di quel che resterà di una nazione distrutta, che ha perduto, tra fughe, profughi, emigrazione, caduti di guerra, metà della popolazione.
Si stava aprendo una consapevolezza nuova dinanzi al conflitto ucraino, ed ecco deflagrare lo scenario palestinese. Qui il manicheismo ha raggiunto livelli intollerabili. Se l’amico filo-occidentale si augura la fine dei palestinesi, altri sperano nell’inizio della distruzione totale dello Stato ebraico. Personalmente simpatizzo per la causa palestinese. Dal comodo salotto di casa, sorseggiando una bibita davanti alla televisione che trasmette le immagini scelte dal potere, riusciamo a immaginare noi stessi nelle condizioni di un palestinese di Gaza, della Cisgiordania o di un campo profughi? Come la penseremmo se avessero cacciato noi o i nostri genitori dal villaggio, dalla terra, da affetti e interessi?
E’ meno gravosa la condizione di chi è fuggito, diventato esule senza speranza di ritorno, e dei palestinesi cittadini israeliani. Hanno una casa, un lavoro, certo, ma sono, come i pochi cristiani rimasti, cittadini di serie B, giacché dal 2018 Israele è ufficialmente uno Stato su base etno-nazionale e confessionale. I non ebrei – semiti anch’essi – non hanno di fatto gli stessi diritti civili dei concittadini, con buona pace della narrazione sull’ “unica democrazia del Medio Oriente”.
Giulio Andreotti nel 2006 pronunciò in Senato una frase affilata come una spada: “credo che ognuno di noi, se fosse nato in un campo di concentramento e non avesse nessuna prospettiva da dare ai figli, sarebbe un terrorista”. Specie sapendo che la terra e la patria gli sono state sottratte da potenze straniere per offrirla a genti estranee, discendenti di chi era stanziato in quel territorio ben due millenni prima. I morti di oggi, le distruzioni, l’odio insaziabile sono figli di quell’evento del 1948: nasceva il focolare degli ebrei dispersi, si spegneva quello dei palestinesi.
L’azione di Hamas è stata indubbiamente feroce. Ma inumana è la condizione di troppi, rinchiusi in campi profughi, privati perfino dell’acqua, cacciati a ondate successive da coloni animati dall’arroganza di chi si sente non solo invincibile, ma superiore. Difficile immaginare una soluzione: odio chiama odio. Ed è a questa logica che dobbiamo sottrarci, innanzitutto noi, i tronfi occidentali sempre dalla parte giusta della storia. Più “giusti”, più “tolleranti”, gli unici capaci di comprendere ed accogliere le ragioni degli altri. Se non confliggono con gli interessi delle oligarchie al potere e sinché possiamo osservare gli eventi dal rassicurante cono di luce di casa.
La nicchia dorata, la nostra condizione di minoranza ricca in un mondo che non ci ama perché non crede più alla nostre bugie si basa su vecchie e nuove sopraffazioni. Il potere dell’entità detta Occidente (Usa, Gran Bretagna, Israele e in basso i valvassini europei) si basa nei fatti sulla potenza delle armi. Funziona sinché vincono i cannoni. In Iraq, in Afghanistan, prima ancora in Vietnam, in Libano, gli scricchiolii sono stati evidenti. Messaggi inascoltati. Oggi la tigre è ferita e diventa più feroce.
Ugualmente, abbiamo il dovere di comprendere alcune ragioni israeliane: dopo 75 anni, non sono più semplici occupanti. Molti sono figli e nipoti di persone nate nella terra dei progenitori antichi, che hanno modellato e fatto progredire. Comunque vada, rimarranno, resistendo armi in pugno. Che fare, dunque? La collocazione geografica rende impossibile all’Europa disinteressarsi della sorte dello Stato con la stella di Davide. Caduti loro, probabilmente toccherebbe a noi. Proprio per questo la soluzione delle armi è sbagliata, miope, impossibile da sostenere nel tempo.
A meno di accettare la logica dello sterminio. Hamas vuole la distruzione dell’”entità sionista” e la dispersione della sua popolazione. Dall’altro lato, il ministro degli Interni israeliano dichiara che i nemici non sono uomini e la guerra è “tra figli della luce e figli delle tenebre”. Un linguaggio che gli uomini di buona volontà non possono ascoltare senza rabbrividire. Dunque, nessuna possibilità di accordo: diventa legittimo uccidere, togliere l’elettricità anche agli ospedali, ordinare la fuga agli abitanti di Gaza verso un altrove inesistente. Voleva questo Lord Balfour, il primo ministro britannico che nel 1917, in piena prima guerra mondiale, scrisse la “dichiarazione“ in cui prometteva qualcosa che non era nella sua disponibilità morale, la nascita di uno Stato ebraico in terra palestinese?
Il capo dei colonialisti decideva come se la terra, i sentimenti, la storia, fossero un tratto di penna su una carta geografica aperta sul tavolo dello stato maggiore. Il destinatario della dichiarazione era un esponente della potentissima famiglia ebraica Rothschild, una monarchia ereditaria fondata sulla ricchezza. Dobbiamo per questo diventare nemici di ogni israelita? Neanche per sogno. Le colpe riguardano chi le ha commesse, ieri, oggi, sempre.
Per questo, con la stessa intransigenza con cui respingiamo l’antisemitismo, ci ripugnano le dichiarazioni di responsabili governativi di Tel Aviv che estendono alla popolazione intera le responsabilità di chi – Hamas – li ha attaccati con tanta violenza. Il concetto di colpa collettiva va cancellato dall’orizzonte degli uomini liberi. Il cristianesimo ha a lungo accusato gli ebrei di avere ucciso Gesù. Una macchia. I loro discendenti – dispersi dai Romani nel 70 d.C. – non dovevano essere emarginati né perseguitati. Proprio per la sua storia, l’ebraismo non può comportarsi allo stesso modo con un popolo oppresso.
Molti cittadini israeliani sono contrari alle politiche dei loro governi. Figure nobili come Martin Buber, intellettuale comunitarista ebraico, hanno passato la vita perseguendo la convivenza tra ebrei e popolazioni arabe vicine. Questo dimostra che non esistono nemici assoluti collettivi e che si deve rifuggire dall’atteggiamento delle opposte curve ultras. Ci ripugna l’idea della “soluzione finale”, l’annientamento dell’Altro.
Torno ai ricordi di mio padre, uomo semplice, al suo sconcerto di ragazzo che sparava tra i monti a soldati francesi di cui capiva le parole, alla riconoscenza nei confronti di contadini russi che condividevano un po’ di cibo, insegnandogli a difendersi dal gelo. Ogni guerra, infine, è guerra “civile”, nel senso che colpisce un altro come me. Nel caso del conflitto israelo-palestinese un dramma interno alla tragedia è che spesso chi si combatte e si odia si conosce. Le distanze fisiche sono minime, quelle interiori, morali, pratiche, immense. Ciascuno ha “buoni” motivi per odiare il vicino, nella rincorsa di torti e vendette. Tutto, però, nasce da un’ingiustizia iniziale, quella dell’imposizione di uno Stato estraneo per lingua, religione, storia, sul territorio altrui, a riparazione di un torto di duemila anni prima.
Ebreo era Emmanuel Lévinas, il filosofo che scrisse le parole più forti sull’Altro. “L’Altro uomo non mi è indifferente, l’altro uomo mi concerne, mi riguarda. In Francese si dice mi riguarda di qualcosa di cui mi occupo, ma regarder significa anche guardare in faccia qualcosa per prenderla in considerazione.“ Ovvero, prima ancora di essere soggetto, l’uomo è in relazione con altri uomini, una relazione etica oltreché sociale o politica. Per Lévinas, ciò che caratterizza l’uomo è la sua “inevitabile possibilità” di rapportarsi all’Altro. L’epifania, la manifestazione dell’Altro avviene nel dialogo, nel faccia a faccia. “La vera natura del volto, il suo segreto sta altrove: nella domanda che mi rivolge, che è al contempo una richiesta di aiuto e una minaccia”.
Resta la minaccia, l’odio che respiriamo, l’incomunicabilità, la coscienza annebbiata dal desiderio di distruggere, l’indifferenza dinanzi alla cupa contabilità di morti e rovine. La banalità del male (Hannah Arendt), purché sia dell’Altro, il nemico, la tenebra che nasconde “noi”, la luce. No. Ogni vittima ci interroga e ci costringe allo sforzo che non amiamo fare: riconoscere l’Altro.
FONTE: https://www.ereticamente.net/2023/10/guerra-delle-armi-guerra-delle-coscienze-roberto-pecchioli.html
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