Una breve storia della Palestina: dalle origini alla fondazione dello stato d’Israele
DA LA FIONDA (Di Paolo Arigotti)
Le prime tracce di insediamenti umani in terra di Palestina – nome derivante dal greco “Palaistine”, considerato la traduzione del nome ebraico biblico Peleshet, a sua volta riferito alla terra dei Filistei (Pelishtim) – risalgono a molti millenni prima di Cristo.
I primi israeliti vi sarebbero arrivati circa quattromila anni fa, provenienti dalla Mesopotamia, allora sotto il controllo ittita, stabilendosi nella parte meridionale della Palestina. Tuttavia, la carestia e le scorribande degli Hyksos, popolazione che all’epoca controllava l’Egitto, spinsero gli israeliti a cercare rifugio nella terra dei faraoni dove, stando al racconto biblico, sarebbero stati ridotti in schiavitù. Intorno al 1.200 a.C. gli ebrei riuscirono a fuggire e passando per il Sinai avrebbero fatto ritorno in Palestina, la “terra promessa” da Dio al popolo eletto, scalzandone i cananei, che vi abitavano da molti secoli, e i filistei, popolo di origine cretese.
Stando sempre alla tradizione biblica, la fondazione del regno di Israele sarebbe avvenuta con Saul, intorno al mille avanti Cristo. Il nuovo stato si sarebbe espanso sotto il suo successore Davide, che conquistò e fece di Gerusalemme la sua capitale, mentre al figlio Salomone viene attribuita l’edificazione del primo tempio. Alla morte del mitico sovrano, gli succedette il figlio Roboamo, sotto il cui governo sarebbe maturata la divisione del regno unitario in due entità distinte e rivaleggianti: Israele propriamente detto al nord (con capitale Samaria) e Giuda al sud (capitale Gerusalemme). Nel corso del secolo successivo iniziata l’occupazione degli assiri, che intorno al 700 a.C. sconfissero il regno di Israel e deportarono in Mesopotamia (corrispondente grossomodo all’attuale Iraq) molti dei suoi abitanti; poco più di un secolo dopo anche il regno di Giuda venne sopraffatto dai babilonesi – che erano subentrati agli assiri nel dominio sulla Mesopotamia – distruggendo il primo tempio e deportando molti suoi abitanti, specie l’élite, a Babilonia (la cosiddetta cattività babilonese).
L’opinione che sia esistito di un vero e proprio regno d’Israele non è unanimemente condivisa. Il prof. Alessandro Barbero sostiene che il regno di Davide e Salomone appartenga al mito, ricordando che numerosi studiosi, anche ebrei, ritengono che in quelle terre, nell’epoca presa in esame, esistessero per lo più popolazioni nomadi, prive di una stabile organizzazione; perfino l’esistenza di Gerusalemme, che al più sarebbe stata un piccolo villaggio e non la città magnificente descritta nella Bibbia assieme al suo famoso Tempio non sarebbero mai esistiti, per lo meno non intorno all’anno mille a.C. Il che nulla toglie, beninteso, alla valenza, fosse pure solo mitologica, di quel racconto sotto il profilo storico e geopolitico.
Tornando alla cronaca dei fatti, la sconfitta dei babilonesi da parte dell’imperatore persiano Ciro – siamo a metà del 500 a.C. – riportò la tribù giudaica in terra di Palestina, che sarebbe però rimasta nell’orbita della Persia (l’attuale Iran); in questo periodo sarebbe stato edificato a Gerusalemme un piccolo tempio.
Nel 322 a.C. fu Alessandro Magno, re di Macedonia, a conquistare la Palestina, mentre si deve ai suoi successori (specie ai lagidi e seleucidi, dal 129 a.C.) l’introduzione di una cultura di stampo ellenistico, destinata a imporsi fino all’arrivo dei romani. Tra il II e I secolo a.C. gli ebrei maccabei, ribellatisi agli eredi dell’impero macedone, diedero vita all’ultimo stato ebraico autonomo, che sopravvisse fino al 63 a.C., quando i romani conquistarono la Giudea, trasformandola in provincia, pur lasciando sul trono il re Erode, il quale secondo la tradizione costruì il secondo tempio di Gerusalemme nel 37 a.C.
Nonostante i romani avessero rispettato usi e religione locali, nel 66 d.C. gli ebrei tentarono una ribellione, che venne brutalmente repressa dai dominatori, che reagirono distruggendo Gerusalemme e radendo al suolo il tempio, sancendo così la definitiva sottomissione della provincia. Una nuova rivolta sarebbe stata domata intorno al 130 d.C., per effetto della quale molti ebrei ricorsero a due distinte opzioni: la conversione alla religione pagana o cristiana oppure la via dell’esilio, che segnò l’inizio della cosiddetta diaspora; solo un’esigua minoranza ebraica rimase in terra di Palestina.
Nel 325 Costantino, il primo imperatore romano convertitosi al cristianesimo, volle a Gerusalemme l’edificazione della chiesa del Santo Sepolcro, sullo stesso luogo – il colle del Golgota – dove circa tre secoli prima sarebbe stato crocifisso Gesù Cristo.
La divisione dell’Impero Romano in due entità politiche fece della Palestina una parte dell’impero d’Oriente, e tale sarebbe rimasta fino al 637, quando venne invasa e conquistata dagli arabi, che imposero l’Islam e la dominarono fino al X secolo; in questa fase storica fu edificata la moschea dedicata al profeta Maometto, con una convivenza tra le diverse confessioni rivelatasi piuttosto pacifica.
Le crociate indette dagli europei nel nuovo millennio portarono alla liberazione e alla conquista di Gerusalemme (1099), dove fu creato un regno latino che massacrò gli infedeli (ebrei compresi) rimasti nella città santa; nel 1187 gli arabi, comandati dal mitico Saladino, si presero una rivincita, con un’ondata di nuovi massacri, questa volta perpetrati ai danni dei cristiani.
Nel 1517 furono i turchi a imporsi, sottraendo la regione ai mamelucchi d’Egitto e trasformando la Palestina (assieme ad altri territori) in una provincia del loro vasto impero, all’interno della quale la libertà di culto fu sempre rispettata. E tale sarebbe rimasta, con un crescente grado di autonomia, sino al termine della Prima Guerra Mondiale, che determinò la sconfitta, e successivamente il disfacimento dell’impero Ottomano.
La Palestina (assieme alla Transgiordania), come vedremo, venne quindi formalmente attribuita a titolo di “mandato” (una sorta di protettorato) alla Gran Bretagna ad opera della neonata Società delle Nazioni (1922).
Da questo primo excursus storico, ovviamente molto sommario, si evince, senza con questo voler entrare nel merito di qualunque ragione o rivendicazione storica, meno che mai parteggiare per una o l’altra parte, come la permanenza dell’etnia ebraica in terra di Palestina non sia mai stata continuativa nel tempo (perlomeno sino al 1948): in questo senso, più che di una regione naturale, parliamo di una storico-antropica, con una vicenda molto articolata alle spalle.
L’esistenza di regni ebraici nei secoli prima di Cristo, con alcune brevi parentesi storiche nell’era cristiana, non esclude che per la maggior parte del tempo questa terra sia stata sottoposta a svariate dominazioni (Egitto, Assiria, Babilonia, Persia, Macedonia, Roma, Arabia, Turchia, Regno Unito) le quali, pur nella diversità del contesto storico (e non sempre dando vita a un assetto unitario), fecero di questa parte del mondo un oggetto del contendere e/o il pretesto per scatenare guerre e persecuzioni di ogni sorta, che – tanto per cambiare – andarono a detrimento degli abitanti della regione, che fossero arabi o giudei o cristiani poco importa.
Inoltre, a parte forse il primo secolo di dominazione romana (e, in parte, quella islamica), non c’è mai stato da parte del dominatore di turno una reale volontà di rispettare usi, costumi e credenze degli autoctoni, facendo scoccare la scintilla di ribellioni o contrasti, nella gran parte dei casi soffocati in un bagno di sangue.
In questo senso, senza voler mettere in discussione le risoluzioni della Nazioni Unite (molte delle quali non sono mai state rispettate, in tutto o in parte, dallo stato di Israele), a cominciare dalla 181 del 1947 e dalla 242 del 1967, vantare un diritto storico (se non divino) sul territorio palestinese è un’argomentazione priva di fondamento, e non rappresenta con ogni probabilità – prescindendo da tutto quello che è venuto dopo il 1948 – il modo migliore per approcciarsi a un contesto la cui storia millenaria ha assistito a conflitti sanguinosi, scatenati da più parti, ma accomunati dalla volontà prevaricatrice di un potere quasi sempre percepito come estraneo da chi vi abitava in precedenza. E, si badi bene, che ancora una volta ci riferiamo a tutte le genti, a prescindere da credo, etnia o provenienza.
La vicenda del popolo ebraico, che nella sua storia millenaria ha vissuto persecuzioni e discriminazioni di ogni genere, vuoi di matrice etnica che religiosa (ricordiamo l’accusa plurisecolare di “Deicidio”, in quanto uccisori del Cristo), resta emblematica, trovando il suo culmine in quello che viene giustamente considerato uno dei crimini più efferati della storia dell’umanità: l’Olocausto (o shoah per gli ebrei), giunto al termine di un processo di diffusione dell’antisemitismo (inteso in senso biologico razziale, e non più religioso), che affonda le sue radici nel XIX secolo e che, purtroppo, ebbe una portata molto estesa, potendo fare leva su pregiudizi plurisecolari. Un crimine perpetrato dal nazionalsocialismo e dai suoi volenterosi carnefici e collaboratori (non solo di nazionalità tedesca, giova rammentarlo), che conserva ancora oggi una sua peculiarità, essendo stato il primo genocidio a essere pianificato in modo scientifico e industriale: non a caso, riferendosi al lager di Auschwitz, divenuto il simbolo di quegli orrori, si è parlato di “fabbrica della morte”.
In questo senso, la coincidenza tra la fine della guerra (e di quegli orrendi crimini) e la nascita dello stato di Israele nel territorio di Palestina rappresentò, agli occhi dell’opinione pubblica mondiale, una sorta di “riparazione” per quelle atrocità perpetrate nella “civilissima” Europa, e su questo punto, in via di principio, sarebbe arduo dissentire.
Il problema, casomai, si potrebbe porre nel momento in cui si volesse fare leva su quei fatti atroci e criminali per attribuire dignità storica a una sorta di titolo (giuridico, e non morale) per il possesso di determinati territori: una fonte legittima in questo senso, in linea col diritto internazionale comunemente riconosciuto, può essere rappresentata da un trattato, da una risoluzione dell’ONU o da una conquista bellica, la quale – piaccia o meno – è un titolo di legittimazione a tutti gli effetti in base alle consuetudini internazionali. E, nel caso d’Israele, la risoluzione esiste – la già menzionata 181 del 1947 – la quale però prevedeva anche altro per la Palestina.
Il progetto politico di una patria ebraica in quel territorio non nasce alla fine della Seconda Guerra Mondiale, bensì circa mezzo secolo prima. Il movimento sionista (dall’antico nome di Sion), nato a fine Ottocento, si fece promotore di questa linea, promuovendo una dottrina politica che potremmo definire “socialisteggiante”: lo stesso esperimento dei primi kibbutz, una sorta di comunità collettiva, ispirata alla condivisione del lavoro e della terra, nacque in Palestina, dai primi coloni, nel primo decennio del XX secolo.
L’idea della migrazione in Palestina maturò nel pensiero dei suoi promotori (tra i quali spicca la figura del giornalista Theodor Herzl) nel contesto di crescenti discriminazioni e persecuzioni – una per tutte il noto affaire Dreyfuss – per difendersi dalle quali si pensò che la strategia migliore sarebbe stata la nascita di uno stato ebraico in quella che, secondo il racconto biblico, sarebbe stata la terra promessa.
In realtà, ebrei in Palestina già ce n’erano: nel XIX secolo si stima che 20mila di loro vi risiedessero, convivendo pacificamente con le altre confessioni, a cominciare da quella musulmana, allora nettamente maggioritaria. Si deve agli inglesi la prima e consistente immigrazione ebraica in Palestina: nel 1840 fu Lord Palmerston, allora primo ministro britannico, a promuovere i primi insediamenti, considerati funzionali agli interessi dell’impero nella regione; circa venti anni dopo saranno gli ebrei provenienti dalla Russia, in fuga dai pogrom, a trasferirsi in Terra Santa, dando avvio all’acquisto seriale (a titolo di diritto privato) dei terreni coltivabili dai proprietari locali. Quando vi giunse nel 1906 David Ben Gurion, futuro fondatore e primo capo del governo dello stato d’Israele, la Palestina contava circa 645.000 arabi e appena 55.000 ebrei; fu lui stesso a definirla come una terra “primitiva, abbandonata e derelitta”.
Continuando a parlare di Regno Unito, la superpotenza dell’epoca, è proprio su questo impero che incombe una precisa responsabilità storica e politica di tutta una serie di scelte, che si inserirono nel contesto del primo conflitto mondiale: ci riferiamo alla famosa dichiarazione Balfour del 1917 e alle contemporanee promesse fatte agli arabi, destinate inevitabilmente nel tempo a confliggere.
Siamo nel 1916, il conflitto contro gli imperi centrali (alleati del sultano ottomano) non sta andando come ci si attendeva e i britannici, impegnati già sul fronte europeo, hanno bisogno degli arabi per contrastare i turchi: l’idea era quella di guadagnarne l’aiuto militare, promettendo loro la creazione di uno stato sovrano (includente la Palestina) una volta vinta la guerra; e quel sostegno si rivelerà determinante per prevalere sugli ottomani, in una battaglia che costerà agli arabi circa 600mila morti. Latore della proposta e parte del negoziato era stato il commissario inglese in Egitto, all’epoca un protettorato britannico, Sir Henry McMahon.
Allo stesso tempo, però, serviva l’appoggio degli Stati Uniti nella lotta contro la Germania, che si sarebbe rivelato decisivo per la vittoria bellica. E non era facile ottenerlo, visto che il presidente Woodrow Wilson aveva vinto un secondo mandato nel 1916 promettendo di serbare una rigida neutralità rispetto al conflitto in corso. I leader sionisti, consapevoli della notevole influenza della componente ebraica nei circoli di potere anglosassoni, fecero pressione sul ministro degli Esteri britannico, lord Arthur James Balfour, per il tramite del titolare degli Interni Herbert Samuel (ebreo e sionista), affinché assumesse una sorta di impegno non ufficiale, che poi divenne la cosiddetta dichiarazione Balfour, in cambio di pressioni sulla Casa Bianca in favore dell’intervento.
Si tratta di una lettera, indirizzata ai leader sionisti Lord Rothschild e Sir Weizmann, recante l’impegno del governo di Sua Maestà per la nascita di un “focolare ebraico” (national home nel testo originale) in Palestina, nel rispetto dei diritti (civili e religiosi) delle genti che già vi abitavano e delle organizzazioni non ebraiche. Per Palestina, nel caso di specie, si intendevano i territori di Cisgiordania, Gaza, Golan, una parte della riva orientale del Giordano e la parte meridionale dell’attuale Libano, all’epoca parte dell’impero ottomano.
Venne accuratamente evitata la parola “stato”, per quanto tale fu l’interpretazione accolta dai sionisti, per un documento in realtà privo di qualunque valenza sotto il profilo del diritto internazionale, tenuto conto che il Regno Unito non poteva evidentemente disporre di un territorio non sottoposto alla propria sovranità e nel quale non aveva un presidio militare significativo (gli inglesi si erano rivolti agli arabi proprio per questo).
Come abbiamo già anticipato, nel primo dopoguerra i britannici avrebbero governato la Terra Santa, per il tramite di militari e funzionari civili, sotto forma di mandato della Società delle Nazioni; ai francesi andò, invece, il mandato su Siria e Libano, sulla scorta degli accordi di Sykes-Picot, firmati segretamente nel 1916 dai due rappresentanti delle maggiori potenze coloniali.
Sotto il mandato inglese, già nel corso degli anni Venti, giunsero in Palestina altri 60.000 ebrei, che si trovarono così a convivere con le locali comunità arabe. All’epoca non esisteva quello che potremmo chiamare il nazionalismo palestinese, al più ne esisteva uno di stampo panarabo, e gli autoctoni vivevano in una società ispirata alla logica delle fedeltà tribali; ancora in questa fase, almeno sulla carta, restava in vigore l’impegno britannico per la creazione di uno stato arabo, assunto come sappiamo nel corso della grande guerra.
La maggior parte degli ebrei che arrivavano in Palestina erano di estrazione sociale elevata: tra loro figuravano studiosi, intellettuali, architetti, artisti, imprenditori, che diedero vita a molte nuove imprese e che già nel 1909 avevano fondato la città di Tel Aviv, non a caso ancora oggi la più “europea” delle città israeliane.
Le fratture e i dissapori tra due comunità così diverse si accrebbero progressivamente: se gli ebrei tendevano a considerare la Palestina la loro “Terra promessa”, in attesa di instaurarvi un vero e proprio stato, gli arabi li percepivano come intrusi ed estranei. In questo senso il sentimento nazionalista, rispettivamente ebraico e palestinese, inesistente alle origini, nacque e maturò proprio per effetto della convivenza.
L’avvento al potere del nazismo in Germania fece crescere esponenzialmente l’afflusso degli ebrei dall’Europa: tra il 1933 e il 1939 furono decine di migliaia i nuovi arrivi, con la città di Tel Aviv che arrivò a sfiorare i 150.000 abitanti; nel 1935 fu creata l’agenzia ebraica di Palestina, con Ben Gurion eletto alla presidenza, col compito di favorire le immigrazioni e l’insediamento in terra di Palestina. Già nel 1929 era nata la Jewish Agency for Israel (organizzazione di ebrei tedeschi sionisti, chiamata anche Sochnut o JAFI), che il 25 agosto 1933 firmò con la Germania di Hitler l’accordo di Haavara, per facilitare la migrazione degli ebrei in Palestina; la stessa JAFI, nel 1936, costituirà l’Haganah, considerata dagli arabi un’organizzazione terroristica, una formazione paramilitare ebraica, nata per fornire sicurezza ai correligionari a fronte dei primi scontri violenti con gli arabi, consumatisi sul finire degli anni Venti.
Difatti, il moltiplicarsi degli arrivi aveva progressivamente acutizzato le tensioni con gli arabi, tanto che nel 1936 questi ultimi indissero un primo sciopero generale per chiedere di fermare le immigrazioni e la vendita delle terre ai coloni; le autorità britanniche repressero nel sangue le proteste e si contarono centinaia di morti, sia tra gli ebrei che tra i palestinesi.
Nel tentativo di fermare disordini sempre più violenti e nell’imminenza della guerra, gli inglesi presero una delle decisioni più foriere di conseguenze drammatiche: bloccarono quasi del tutto le migrazioni verso la Palestina e dichiararono di non essere a favore della nascita di uno stato ebraico. Fu soprattutto la prima delle due a produrre, col senno di poi, gli effetti più nefasti, visto che molti degli ebrei che non poterono rifugiarsi in Palestina – per quanto proseguisse un’immigrazione clandestina – sarebbero finiti nell’ingranaggio demoniaco della “fabbrica della morte”.
Poco prima dello scoppio della guerra (1939) la Gran Bretagna aveva proposto un piano per la creazione entro dieci anni di uno stato di Palestina unitario, dove le due etnie, araba ed ebraica, avrebbero convissuto. Ma la guerra scombussolò tutti i piani: i gruppi ebraici si schierarono prontamente con gli Alleati, mentre molti arabi furono attratti nella sfera dell’Asse, sperando che una vittoria della Germania li avrebbe aiutati a liberarsi del giogo britannico. Un episodio che resta famoso fu l’adesione a questa linea del gran Muftì di Gerusalemme, Haji Al-Husayni, suprema autorità giuridica islamica sunnita e responsabile della corretta gestione dei luoghi santi islamici della città, già promotore di numerosi attentati contro il potere britannico; il suo avvicinamento al terzo Reich culminò con una visita a Berlino (novembre 1941), dove incontrò lo stesso Adolf Hitler, che gli promise il suo interessamento per la causa araba, un impegno rimasto privo di qualunque seguito.
A partire dal 1944, sotto la guida del futuro primo ministro Menachem Begin, gli ebrei più estremisti iniziarono una vera e propria rivolta contro il mandato britannico, dando luogo a una frattura interna con l’agenzia guidata da Ben Gurion, che premeva per una via legalitaria e pacifica per la nascita dello stato ebraico. Le azioni terroristiche, come quelle dell’Irgun (sigla che in ebraico sta per “Organizzazione Militare Nazionale”), si moltiplicarono, tra le quali quella del luglio del 1946 contro l’Hotel King David di Gerusalemme, sede del quartier generale britannico in Palestina, che spinse sempre di più il Regno Unito verso la decisione di abbandonare la Terra Santa al suo destino, rimettendo la questione nelle mani della neonata ONU; nel 1947 la stessa organizzazione avrebbe approvato la famosa risoluzione 181, quella che prevedeva, tra l’altro, un regime internazionale per la città di Gerusalemme e la fine del mandato britannico, formalmente concluso il primo agosto del 1948.
In effetti, attentati a parte, la situazione stava rapidamente evolvendo. La guerra era stata vinta, ma aveva lasciato il segno, specie sui britannici, i quali stremati dal conflitto non avevano più la forza per tenere in piedi il loro impero, mentre l’ondata di sdegno seguita alla scoperta dell’Olocausto fece il resto; nel mentre aumentava ancora la comunità ebraica in Palestina che, complici le migrazioni dei sopravvissuti alla shoah, arrivò nel 1945 a poco più di un milione e mezzo di persone.
Le violenze non diminuivano, nell’imminenza della dichiarazione d’indipendenza. Ai primi di aprile del 1948 le milizie ebraiche di Irgun e Lehi operarono un vero e proprio massacro nel villaggio palestinese di Deir Yassin, fatto condannato perfino dall’Haganah e da esponenti religiosi ebraici, senza che però alcun provvedimento fosse assunto contro i responsabili. La notizia provocò un vero e proprio esodo di massa dei palestinesi, in direzione di Libano, Cisgiordania ed Egitto: si stimarono circa 700mila sfollati, mai più tornati alle loro case, fatti che passarono alla storia del popolo palestinese come al-Nakba, in arabo “La Catastrofe”. Di appoggio manifesto degli inglesi alle ragioni della componente, ebraica, accompagnata dall’accusa di aver tarpato le ali a qualunque sentimento indipendentista dei palestinesi, parla lo storico israeliano Ilan Pappé, autore, tra gli altri, di una “Storia della Palestina moderna. Una terra, due popoli” (2007).
Come sappiamo, il 14 maggio 1948 nacque ufficialmente lo stato d’Israele, mentre neanche 24 ore dopo scoppiò il primo conflitto arabo israeliano. Ma questa è un’altra storia, per oggi ci fermiamo qui.
Quanto abbiamo riportato in questo breve excursus storico, giova ribadirlo, non serve a sostenere le ragioni dell’una o dell’altra parte: se mi chiedessero da che parte sto, direi soltanto che sono per la pace: conoscere i fatti che ci hanno preceduto, e che hanno condotto al disastro attuale, dovrebbe servire casomai a far comprendere l’assurdità di certe contrapposizioni, delle quali finiscono per fare le spese, come sempre, solo i più deboli e indifesi: se c’è un insegnamento che possiamo trarre dalla tormentata storia della Palestina, è proprio questo.
Mi piace citare in chiusura un passaggio di un articolo della scrittrice palestinese Widad Tamimi, pubblicato dall’ultimo numero di Limes: “Basta, vi prego, dire stiamo con gli israeliani o stiamo con i palestinesi. Non siamo allo stadio. Per togliere nutrimento alla bestia c’è un modo e un modo soltanto: ricordarci e ricordare agli esseri umani che siamo tutti uguali, promuoverlo per davvero, sconfiggere con coraggio e determinazione ogni sopruso di una popolazione su un’altra. In coscienza, lo abbiamo fatto?”[1]
E la risposta la lasciamo a tutti noi, e soprattutto basta col tifo da stadio, non se ne può più!
FONTI
www.treccani.it/enciclopedia/palestina_%28Dizionario-di-Storia%29/
www.youtube.com/watch?app=desktop&v=10KJ_EcnlxA – Alessandro Barbero – Le “visioni” di uno storico (canale YouTube Festival della comunicazione, Camogli 2018)
www.focus.it/cultura/storia/israele-e-palestina-la-storia-di-una-terra-contesa
fondazionefeltrinelli.it/dal-1948-alla-2a-crisi-energetica-una-cronologia-necessaria/
www.agi.it/blog-italia/mappe/mappe_palestina-3929155/post/2018-05-22/
www.infopal.it/perche-la-palestina-ha-diritto-di-resistere-un-po-di-storia/
www.limesonline.com/cartaceo/la-storia-in-carte-120
www.limesonline.com/cartaceo/ce-luce-oltre-la-guerra
www.limesonline.com/guerra-israele-palestina-75-anni-ora-basta/133948
[1] www.limesonline.com/guerra-israele-palestina-75-anni-ora-basta/133948
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