Il ritorno della Dottrina Monroe
di TERMOMETRO GEOPOLITICO (Pietro Pinter)
E’ necessario parlare del continente americano, specialmente mentre l’attenzione del mondo è concentrata sulle guerre in Ucraina e in Israele/Palestina.
Il continente dimenticato dalla geopolitica, anche da questo blog – su 86 articoli pubblicati finora, solamente uno ha come argomento principale l’America Latina – potrebbe presto tornare alla ribalta, in particolare per quanto riguarda la dialettica tra la sua componente latina e la superpotenza statunitense che esercita un’influenza predominante sul continente da circa due secoli. Quel rapporto che viene riassunto sotto l’etichetta di “dottrina Monroe“.
Prima di tutto, un po’ di storia.
La famosa dottrina nasce simbolicamente in occasione di un discorso pronunciato davanti al congresso americano dal presidente James Monroe nel 1823. Pochi anni dopo il Congresso di Vienna, che sancisce la restaurazione dell’ancien regime in Europa dopo la sconfitta del tentativo di egemonia continentale di Napoleone. Ad aver vinto le guerre napoleoniche (e ad essere intenzionate a trarne profitto) sono principalmente due potenze: Russia e Gran Bretagna.
La prima con una lunga campagna di terra, da una Mosca abbandonata e data alle fiamme all’ingresso trionfale a Parigi. La seconda tramite un asfissiante blocco navale della Francia, dopo la sconfitta della flotta napoleonica a Trafalgar nel 1805, e il supporto a tutte le formazioni anti-napoleoniche sul continente. Behemot e Leviatano che si uniscono contro la “potenza ibrida” determinata a conquistare il continente eurasiatico e proiettarsi sugli oceani, come nella prima e nella seconda guerra mondiale.
Va da se che – laddove le spoglie di guerra russe saranno raccolte sul continente – l’Impero Britannico utilizzerà la vittoria per rinforzare il suo primato sugli oceani e, soprattutto, sul “nuovo mondo”.
A fare gola a Londra sono principalmente le ex colonie spagnole e portoghesi, diventate indipendenti mentre le armate napoleoniche occupavano le rispettive capitali. Il Regno Unito vuole impedire che la restaurazione sul continente corrisponda ad una restaurazione delle colonie in America, così da poter finalmente mettere mano a quella metà del continente dove i colonialisti iberici si erano radicati prima che il popolo britannico si trasformasse da un popolo di pastori ad un popolo di pirati, ed in seguito esploratori e conquistatori.
La Dottrina Monroe nella sua accezione originale – quella di non permettere a potenze extra-americane di stabilirsi nuovamente nel continente – è dichiarata dagli americani ma fatta rispettare dalla Royal Navy – che controlla saldamente l’atlantico – e sfruttata da Londra per una massiccia penetrazione commerciale e diplomatica nella regione. Londra che aveva sconfitto gli USA appena 10 anni prima, muovendo dal Canada, dando alle fiamme la Casa Bianca di Washington. USA ancora lontani dal completare l’espansione verso ovest, con la Florida ancora in mani spagnole e una marina che valeva poco e niente. Un docile partner a cui l’Impero Britannico poteva affidare la protezione nominale di quella zona di mondo, non ancora un egemone in controllo della regione.
Come cambia la mappa politica dell’America Latina dopo le guerre napoleoniche. Nel 1830 ancora non è morto il tentativo – sventato da britannici e americani – di unificazione di Simon Bolivar:
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ESPANSIONE E CONTRAZIONE DELLA DOTTRINA
Le cose cambiano verso la fine del diciannovesimo secolo, quando gli Stati Uniti hanno raggiunto la costa del Pacifico e risolto le loro contraddizioni interne con la guerra civile. Gli Stati Uniti adesso hanno le carte in regola per diventare una potenza a pieno titolo, e hanno la fame di ogni giovane nazione in espansione che si rispetti: la conquista del Nord America abitato dagli indigeni non poteva essere l’ultima frontiera di uno stato costruito sull’idea di frontiera da conquistare. Il prossimo obiettivo naturale è il “mediterraneo” delle Americhe, il Mar dei Caraibi da cui dipendono la sicurezza della costa statunitense e – soprattutto – il controllo del Canale diPanama, in via di costruzione. E’ proprio qui che i marines statunitensi sbarcano le prime volte nel diciannovesimo secolo. Per arrivare alla guerra di conquista contro la Spagna nel 1898, dopo la quale Cuba, Porto Rico, Guam e le Filippine diventeranno a vario titolo territori americani.
In questo frangente storico – siamo nel periodo in cui gli stati centroamericani vengono definiti “repubbliche delle banane”, per intendersi – la Dottrina Monroe raggiungerà la sua massima espansione teorica, con l’affermazione – tramite pronunciamenti e atti legali come il “corollario Roosevelt” e “l’emendamento Platt” a inizio secolo – del diritto di intervento degli Stati Uniti ovunque nel continente americano a tutela dei propri interessi e financo di quelli della “società civilizzata” in generale. Una vera e propria potestà – esplicitamente dichiarata – sull’intero emisfero occidentale, che durerà fino alla fine della seconda guerra mondiale.
Durante la guerra fredda gli Stati Uniti – ora un impero globale con impegni militari in tutto il mondo e un nemico potente da fronteggiare – devono ridimensionare le loro ambizioni in America Latina. Non è più possibile usare la forza militare in modo così estensivo, si relega la tutela degli interessi commerciali americani a forze locali coadiuvate dalla CIA, e/o addestrate nella “Scuola delle Americhe” in Georgia, che formerà intere generazioni di militari latinoamericani (e filoamericani).
In certi frangenti, la dottrina ritorna alla sua basilare concezione iniziale: semplicemente evitare che potenze eurasiatiche ostili si stabiliscano nel territorio dell’emisfero occidentale. La crisi dei missili di Cuba dimostra quanto gli USA siano disposti a rischiare per perseguire questo obiettivo.
Questo avviene durante l’amministrazione “razionalizzatrice” di Nixon e Kissinger. Quest’amministrazione (racconta il Segretario di Stato) decide di lasciar correre la nazionalizzazione delle imprese americane in Perù, mentre sceglie di eliminare Allende – troppo vicino all’URSS, troppo un cattivo esempio per i comunisti europei – e impedisce la costruzione di una base di sottomarini sovietici a Cienfuegos, Cuba.
Come sappiamo, con le amministrazioni Raegan e Bush Sr. gli USA “passano all’attacco” nella guerra fredda – per poi vincerla – e il continente americano non fa eccezione. La forza militare diretta torna ad essere usata con disinvoltura, non solo per impedire ai sovietici di stanziarsi sul continente: nel 1983 per un cambio di regime a Granada (ironia della sorte, su richiesta del governatore coloniale britannico), nel 1990 per liberarsi dell’ex alleato Noriega a Panama. Nel 1994 – in piena era unipolare – gli USA sbarcano ad Haiti per rovesciare una giunta militare salita al potere 3 anni prima.
L’era dell’unipolarismo americano (1991-2008 circa) vede il trionfo totale degli interessi statunitensi in America Latina, quasi sempre (come in Europa) senza che la potenza che ha vinto tre guerre mondiali di fila debba combattere.
Regimi amici – come quello di Fujimori in Peru – distruggono le ultime sacche di guerriglia marxista/maoista, in Colombia le FARC vanno verso un lungo e tortuoso processo di pace. In Guatemala gli USA riescono a spodestare gli odiati sandinisti. Sul continente inizia la stagione delle privatizzazioni sull’onda del Washington Consensus: in paesi come il Messico grossi pezzi dell’economia statale vengono (s)venduti all’estero, contribuendo – proprio come in Italia – all’ascesa di oligarchi locali amici degli interessi americani. L’unica eccezione (su cui torneremo) è il Venezuela di Chavez, a cui fa sponda una Cuba riuscita a malapena a sopravvivere alla tormenta della fine dell’URSS.
La dottrina Monroe è pienamente realizzata nel suo senso più ampio, quello inteso da Roosevelt.
Muoviamo quindi nuovamente verso una fase di contrazione della “fisarmonica” della Dottrina, segnata dalla graduale nascita del mondo multipolare, accelerata da eventi come la crisi finanziaria del 2008 (per la Cina) la guerra in Georgia e lo sviluppo dello scudo antimissile americano (per la Russia). Segnata dalla formazione di molti poli indipendenti – globali, regionali – in grado di perseguire autonomamente i propri interessi, talvolta (anche se non sempre) in contrasto con quelli americani.
Gli USA non godono più del monopolio della forza, e sono costretti a razionalizzare il proprio impero, a tracciare i confini di una sovranità imperiale che dopo la guerra fredda sembrava (e voleva) estendersi al mondo intero.
Naturalmente in questi nuovi confini rientra anche l’America Latina, ma in che modo? Nella concezione originale di Monroe – come territorio libero da forze militari eurasiatiche – o in quella del vecchio Roosevelt e di Bush, come grande spazio sotto il controllo quasi diretto di Washington?
Oggi gli USA non possono permettersi di sfondare a calci la porta del saloon e iniziare a sparare all’impazzata alla prima occasione – come a inizio o fine secolo scorso – ma senza dubbio sono determinati ad impedire di essere messi sotto scacco da potenze ostili nel loro cortile di casa, e stanno tornando ad applicare selettivamente – come durante la guerra fredda – le operazioni coperte per creare una regione favorevole ai propri interessi geopolitici e commerciali.
Molti nodi dovranno venire al pettine già nel 2024, per permettere agli USA – dopo la sistemazione dell’Europa nel 2022 e l’ancora incerta uscita dal Medio Oriente iniziata da Trump – di fronteggiare la Cina nel Pacifico con le retrovie saldamente sotto controllo.
Un ritardo – o un imprevisto come quello di Gaza – rischierebbe di creare una finestra in cui la Cina potrebbe riprendersi Taiwan, e con essa rompere la prima catena di isole e dilagare nel Pacifico, mettendo a repentaglio – come temeva l’Ammiraglio Mahan già nel 1900 – il principale veicolo del potere globale statunitense: il controllo degli oceani.
Vediamone alcuni.
VENEZUELA: “EL ESEQUIBO ES NUESTRO!”
Il Venezuela di Maduro è uno dei più grandi grattacapo per Washington. Gli Stati Uniti hanno cercato di rovesciare il “regime bolivariano” dopo le elezioni del 2018 – le prime dopo quelle successive alla morte di Chavez nel 2013 – duramente contestate come fraudolente dall’opposizione e avvenute nel contesto di una grave crisi economica. Washington riconobbe Juan Guaido come presidente legittimo – insieme ad altri alleati – e, con ogni probabilità, cercò di uccidere Maduro almeno una volta, di infiltrare mercenari nel paese per organizzare un colpo di stato.
Secondo una ricostruzione di media vicini all’Iran, addirittura, l’assassinio del generale dei Pasdaran (Qassem Soleimani) in territorio iracheno da parte degli USA, sarebbe da ricondurre anche all’intervento delle guardie della rivoluzione atto a proteggere Maduro in questo pericoloso frangente, sotto la direzione personale di Soleimani, in chiara contravvenzione alla dottrina Monroe.
Fallito il tentativo di rovesciare Maduro, seguiranno 4 anni di totale gelo diplomatico e quasi-embargo sul modello cubano, con sanzioni particolarmente dure sul settore petrolifero, principale fonte di valuta estera del paese. Le cose cambiano rapidamente con l’inizio della guerra in Ucraina e la conseguente crisi energetica, Washington intravede la possibilità di prendere due piccioni con una fava: rilasciare nuovi volumi di oro nero sul mercato globale così da abbassarne il prezzo (minare lo sforzo bellico russo, aumentare le chance di rielezione di Biden) e indebolire i legami del Venezuela con Russia e Iran senza dover ricorrere a un cambio di regime.
Nell’estate del 2022, il dipartimento di stato americano permette ad ENI e Repsol – non sfuggirà la rappresentazione in purezza della Dottrina Monroe: gli USA si arrogano il diritto di permettere, o meno, agli europei di commerciare con i paesi latinoamericani – di esportare nuovamente petrolio venezuelano. Al Cop 27 del Cairo – novembre dello stesso anno – l’emissario americano John Kerry saluta calorosamente Maduro con “Mr. President!”, consegnando l’ex beniamino americano Juan Guaido alla pattumiera della storia. Poco dopo, il “governo” in esilio di Guaido si scioglierà formalmente e le sue rappresentanze negli USA verranno abbandonate.
Non tutti i segnali provenienti dal Venezuela, però, sono incoraggianti per Washington e la sua nuova politica di avvicinamento a Maduro.
Mentre l’Economist parla di un nuovo boom petrolifero nello stato caraibico – a novembre 2023 – il governo venezuelano riesuma un’antica ascia da guerra: la questione dell’Essequibo, o Guyana Esequiba.
Trattasi di un territorio de facto – e de jure, secondo la comunità internazionale – appartenente alla Repubblica Cooperativa di Guyana, corrispondente a più della metà del suo territorio, compreso tra il confine venezuelano e il fiume Essequibo. Il Venezuela reclama da sempre il territorio sulla base dei vecchi confini coloniali spagnoli.
Territorio che era stato ceduto alla Guyana (allora una colonia britannica) da un arbitrato statunitense nel diciannovesimo secolo, ai tempi della “vecchia” Dottrina Monroe attuata dalla Royal Navy. Un successivo appello alla Corte di Giustizia Internazionale ha dato nuovamente ragione alla Guyana, ma il suo esito è stato ugualmente disconosciuto dai governi venezuelani (prima e dopo Chavez).
Nel 2023 Caracas riporta drammaticamente in auge la questione, tenendo una conferenza sull’Essequibo, costruendo un faro in acque contestate, e soprattutto convocando un plebiscito – da tenersi il 3 dicembre – sullo “status dell’Essequibo“. Il 10 novembre, il ministro della difesa venezuelano rilascia un video propagandistico in cui pittura la scritta “El Esequibo es nuestro” su un veicolo corazzato dell’esercito.
Il mondo – e soprattutto Washington – si interroga: si tratta di sola propaganda, mirata a sostenere il governo nelle elezioni di gennaio 2024, o davvero il governo di Caracas sta preparando l’opinione pubblica alla riconquista – manu militari – del territorio contestato? Magari, sfruttando il recente disgelo con gli USA, e la sovraestensione militare della superpotenza nei teatri ucraino, mediorientale e pacifico.
Se così fosse, per gli USA si presenterebbe un problema non indifferente: l’Essequibo non è un pezzo di giungla che Washington può lasciare a cuor leggero al suo ritrovato partner, con qualche sanzione e protesta di facciata. L’Essequibo è una regione dall’alto potenziale petrolifero. La Guyana – che lo controlla – è in tutto e per tutto una moderna repubblica della banane controllata da Exxon, compagnia petrolifera americana. Nuove concessioni, proprio a largo dell’Essequibo, sono appena state rilasciate dal governo di Georgetown.
L’annessione dell’Essequibo al Venezuela è un colpo diretto agli interessi economici e commerciali degli Stati Uniti, che non può essere permesso sulla base di un riavvicinamento di convenienza con Caracas.
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Il Southern Command degli Stati Uniti – nel dubbio – manda un messaggio estremamente chiaro, addestrandosi nel nord dell’Amazzonia insieme all’esercito brasiliano (una forza fortemente anti-venezuelana, nonostante le tendenze politiche di Lula) in un teatro praticamente identico alla zona di confine tra Guyana e Venezuela.
Come noto però, le guerre iniziano sulla base di calcoli costruiti su informazioni imperfette. Il sistema internazionale è un’arena anarchica, dove si gioca a carte coperte. Se gli americani derubricheranno come bluff propagandistico le azioni venezuelane, o i venezuelani considereranno un bluff la deterrenza americana, una guerra potrebbe realmente scoppiare nella giungla amazzonica.
INTERVENTO AD HAITI
Il secondo dossier su cui gli Stati Uniti dovranno concentrarsi – subito, dall’inizio del 2024 – è quello di Haiti, piccola repubblica caraibica sprofondata nel caos dopo l’assassinio (da parte di mercenari di dubbia provenienza) del presidente Jovenel Moise nel 2021.
Straordinariamente, il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite è riuscito a concordare su una missione poliziesco-militare per ristabilire una parvenza di ordine nel paese, oggi in preda all’anarchia e di fatto controllato da bande armate. Benché la guida della missione sia stata assegnata al Kenya – considerata una potenza che la popolazione di discendenza africana dell’isola potrebbe accogliere con meno ostilità – non c’è dubbio su chi detenga realmente la responsabilità della buona riuscita dell’operazione, e dovrà fornire quanto necessario per ottenerla: naturalmente gli Stati Uniti.
Per Washington, è importante che l’intervento non si trasformi in un lungo sforzo di peacekeeping che – come negli anni ’90 e una seconda volta nei ‘2000 – potrebbe rivelarsi politicamente estenuante. Di certo l’humus socio-politico haitiano non offre grandi speranze per una veloce stabilizzazione del paese, e cosa succederà dopo che (se) le forze internazionali riusciranno a ristabilire il controllo governativo su Port au Prince rimane un grosso punto di domanda.
ARGENTINA, REFERENDUM SUL DOLLARO
Il 19 novembre gli argentini si recano alle urne per il secondo turno delle elezioni presidenziali, che vedono fronteggiarsi il “peronista” Sergio Massa – fautore dell’adesione dell’Argentina al Forum BRICS – e il libertario Javier Milei, contrario all’adesione ai BRICS (che dovrà essere confermata a gennaio) e sostenitore della dollarizzazione dell’economia argentina.
L’Argentina è un esempio perfetto di quello di cui discutevamo a inizio anno: il dissesto economico causato da inflazione, crisi energetica e rialzo dei tassi crea crisi che diventano campi di battaglia tra i vari poli del sistema finanziario e valutario globale. Lo abbiamo visto in Sri Lanka, dove il governo a secco di valuta straniera ha soppesato linee di credito cinesi, indiane e del FMI (americane). In Tunisia, dove Kais Saied si trova in bilico tra il cercare il sostegno economico dell’UE, quello del FMI o quello dei BRICS nelle loro varie forme. E in diversi altri casi.
Il governo di Massa ha trasformato la crisi del debito argentino in un laboratorio di dedollarizzazione, saldando per la prima volta dei debiti al fondo monetario internazionale in valuta cinese (questo è diventato possibile grazie agli sforzi di Pechino, che hanno costretto il FMI a inserire il Remnimbi nel suo “paniere” di valute qualche anno fa). Milei vuole cambiare radicalmente corso, abbandonando del tutto il Peso argentino e adottando il Dollaro come moneta ufficiale.
E’ evidente quanto sia importante questo tema – che di certo non si esaurirà con le elezioni di novembre – per gli Stati Uniti: il Dollaro – e il sistema finanziario che ruota intorno ad esso – sono elementi essenziali per tracciare i nuovi confini dell’impero ed esercitare il controllo al loro interno. Si pensi nuovamente al caso europeo: nel silenzio generale di eurocrati come Mario Draghi, la moneta comune è stata completamente cannibalizzata dal Dollaro – nel giro di un anno – nel computo dei pagamenti transfrontalieri. A spese del ruolo internazionale dell’Euro, il Dollaro è riuscito a non vedere erosa la sua posizione dai nuovi contendenti, come il Remnimbi, che oggi reclamano fette record (seppur ancora piccole) dei pagamenti e delle riserve valutarie globali.
Nel continente americano, dove 10 stati già adottano il Dollaro come moneta legale, il fronte finanziario della competizione globale è particolarmente importante per Washington. In Argentina la prova più dura.
L’ONDA ROSSA
A preoccupare Washington – in parte per le ragioni spiegate sopra – è anche la generale tendenza politica che attraversa il continente: il proliferare di governi “di sinistra” in America Latina negli ultimi anni. Una sinistra che, nella maggior parte dei casi, è caratterizzata sia dall’anti-americanismo, che dallo statalismo. Dannosa quindi sia per gli interessi commerciali americani, che eventualmente per quelli geostrategici.
Negli ultimi 5 anni la sinistra è salita al potere in Messico, Cile, Brasile, Honduras, Colombia.
Nel 2019 in Bolivia, la rielezione di Evo Morales ha portato ad un colpo di stato sostenuto da americani e britannici, con obiettivo plausibile l’apertura al controllo angloamericano delle enormi riserve di litio del paese, essenziali per produrre le batterie elettriche. Il golpe però ha avuto vita breve, e i suoi sostenitori politici sono stati incarcerati dopo il ritorno al potere del partito di Morales.
La posizione ostile a Washington della sinistra latinoamericana si è manifestata anche in Peru, quando a dicembre 2022 una crisi costituzionale tra il presidente Pedro Castillo (socialista) e il parlamento è stata risolta a sfavore del presidente dalle forze armate, con la dichiarazione di uno stato di emergenza e l’arresto di Castillo. Il giorno prima del pronunciamento militare, l’ambasciatore USA (“ex” agente della CIA) incontrava il ministro della difesa peruviano.
Mentre gli USA applaudivano il ritorno dell’ordine costituzionale in Peru, una (apparente) maggioranza degli stati latinoamericani condannava la manovra come un golpe e si rifiutava di riconoscere il nuovo governo di Dina Boularte, situazione che permane ancora oggi, quasi un anno dopo.
Washington deve trovare un nuovo linguaggio per interloquire con queste forze politiche secondo i suoi interessi, le manovre della CIA potrebbero non rivelarsi sufficienti.
Qualche passo in tal senso sembra essere stato fatto: il governo colombiano (insieme a quello peruviano) ha autorizzato le forze armate USA a condurre operazioni nel suo territorio. Ufficialmente questa presenza americana mirerà a combattere il narcotraffico e i gruppi militanti che – come le FARC, di cui faceva parte lo stesso presidente Petro, e il Sendero Luminoso – stanno rialzando la testa nella regione. Ufficiosamente perseguiranno tutti gli obiettivi di Washington, tra cui l’esclusione di potenze esterne dalla regione, la penetrazione commerciale americana e una sana dose di controllo politico del cortile di casa.
LA GUERRA ALLE PORTE
Per concludere, l’elemento più pericoloso in assoluto per gli interessi statunitensi nella regione: il Messico.
Lo status di superpotenza degli Stati Uniti è dipeso, nell’ultimo secolo, da una fortuna di cui quasi nessun’altra potenza ha mai potuto godere: la sicurezza, quasi totale, dei confini. Due oceani sconfinati ad est e ovest, a nord un Canada dalla popolazione esigua rispetto a quella statunitense, assorbito di fatto dall’impero americano con ciò che rimaneva di quello britannico dopo la seconda guerra mondiale.
Il confine più problematico è sempre stato quello meridionale. Nel diciannovesimo secolo gli Stati Uniti hanno utilizzato con successo la forza militare per disegnare dei confini favorevoli con il Messico, nonché per rendere l’assetto politico del paese – come quello di tutti gli altri paesi dell’America Centrale – adatto agli interessi americani. Nel ventesimo secolo, uno dei fattori che spinsero gli USA a entrare nella prima guerra mondiale fu proprio la violazione della Dottrina Monroe sul confine sud, la scoperta di una trama tedesca per spingere il Messico a entrare in guerra con gli USA (ironicamente, proprio per impedire un intervento in Europa che i tedeschi davano già per scontato).
Oggi il confine meridionale è più pericoloso che mai, è il punto di passaggio di un’ondata migratoria senza precedenti che i governi messicani non possono o non vogliono fermare. La migrazione incontrollata verso gli Stati Uniti non solo lacera il tessuto sociopolitico americano – minando la capacità del paese di proiettare potenza all’esterno – ma concretamente sta portando al vero e proprio collasso di alcune aree degli Stati Uniti. New York ha dichiarato uno stato di emergenza, con 100mila migranti e senzatetto sistemati in dormitori improvvisati se non direttamente ai bordi delle strade, e un costo annuale previsto di miliardi di dollari. Non è tutto: il confine meridionale è anche la porta di entrata verso gli Stati Uniti del Fentanyl, un oppioide sintetico che negli ultimi 5 anni sta mietendo una quantità spropositata di vittime, specialmente dal periodo delle restrizioni dell’era covid. Oggi, l’overdose da Fentanyl è la causa principale di morte degli americani tra i 18 e i 45 anni, una strage continua di cui secondo Washington sono complici sia i trafficanti messicani che la Cina, rea di non controllare a dovere – alcuni ritengono, di proposito, in una sorta di guerra dell’oppio a parti invertite – l’esportazione degli agenti chimici precursori all’estero.
Stanti questi fattori, nel partito repubblicano – che controlla il Congresso e potrebbe tornare l’anno prossimo alla Casa Bianca – è diventata maggioritaria, condivisa da tutte le anime del partito, l’idea di un intervento militare americano in Messico, mirato ad eradicare trafficanti di droga e di persone.
Ma naturalmente, non solo a questo. Le riserve di litio e di petrolio nazionalizzate dal governo di Obrador sono un patrimonio di cui a Washington non sfugge il valore. Un patrimonio non più facilmente accessibile come all’epoca delle liberalizzazioni degli anni ’90, nel momento di maggiore bisogno.
Il Messico come la Cina, l’Indonesia e altre potenze emergenti, ha scelto di limitare le esportazioni di materia prima per sviluppare industrie in loco, basate sulle risorse di cui abbonda il paese. Grazie a questa decisione, ha attratto enormi investimenti da parte delle compagnie automobilistiche, come Tesla, BMW, Wolkswagen e Stellantis.
Questo sviluppo però è in contrasto con la politica americana – tracciata da Trump e proseguita da Biden – di reindustrializzare il paese. Gli Stati Uniti – pur ricchi di materie prime – hanno bisogno di importare minerali dall’estero per produrre in casa. Il Messico, come la Bolivia, è certamente uno di quei paesi dove gli USA possono agire con forza per fare sì che l’esportazione continui, sia controllata da compagnie angloamericane, diretta verso gli Stati Uniti (e non verso la Cina, come accade sempre più di frequente) permetta il successo delle nuove politiche protezioniste di Washington. E la ricostruzione di un’industria nazionale che, ricordiamolo, è fondamentale per sostenere ogni tipo di sforzo bellico, come ha dimostrato dolorosamente agli europei la guerra in Ucraina.
Queste ragioni tenteranno gli USA – soprattutto se guidati da un’amministrazione repubblicana – a entrare direttamente in Messico.
I vantaggi potenziali sono molti, ma altrettanti sono i rischi: un intervento in Messico rischia di trasformarsi in un Vietnam (o un Afghanistan) contro i cartelli della droga messicani, uno degli eserciti meglio armati del continente, in un contesto politico in cui le ingerenze americane sono generalmente viste con ostilità. Nel peggiore dei casi, la popolazione latinoamericana residente negli Stati Uniti – in particolare nelle contee di confine con il Messico – potrebbe addirittura essere infiammata dalla guerra, e diventare un rischio di sicurezza interna paragonabile a quello delle popolazioni musulmane residenti in Europa.
CONCLUSIONE
Il 2024 sarà un anno cruciale per gli Stati Uniti nel definire il proprio rapporto con il continente americano, nell’ambito della razionalizzazione imperiale.
La cornice di riferimento è la dottrina Monroe: Washington dovrà decidere con che “grado di tolleranza” applicarla. Un’interpretazione troppo ambiziosa sfiancherebbe gli americani, creando un ulteriore fronte ostile in un momento in cui il Pacifico necessita di tutte le attenzioni di Washington. Un’interpretazione troppo lasca priverebbe l’Impero americano di quei vantaggi economici (controllo finanziario, accesso alle materie prime, penetrazione commerciale) di cui si è nutrita la sua inarrestabile ascesa, e rischierebbe addirittura di aprire la porta a potenze eurasiatiche ostili, realizzando l’incubo che tormenta gli Stati Uniti sin dalla loro fondazione, e li ha spinti a rischiare una guerra nucleare: l’Eurasia che riesce ad attraversare la barriera oceanica e minacciare la “luminosa città sulla collina” – per la prima volta – da vicino.
#TGP #USA
[Fonte: https://inimicizie.com/2023/11/15/ritorno-dottrina-monroe/]
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