In ogni conflitto non c’è solo lo scontro tra forze militari. Ci sono sempre (questo anche prima) due strategie che si confrontano. E se, come ci ricordava von Clausewitz, la guerra è il proseguimento della politica con altri mezzi, allora queste strategie non sono mai esclusivamente militari.
Il parlare di strategie, però, implica l’idea che ci sia un disegno, un piano, che tenga insieme degli obiettivi da conseguire con le mosse necessarie per conseguirli. Il che, a sua volta, comporta che vi sia un prevalere del calcolo razionale, rispetto al dato emotivo, che pure è ineludibile.
La prima cosa da chiedersi, dunque, è se vi siano effettivamente strategie che si stanno confrontando, nell’ambito del conflitto israelo-palestinese, così come esso si è andato delineando dal 7 ottobre in avanti. E, solo successivamente, se è il caso, indagarle.
Ora, in un conflitto così lungo (quasi secolare) e così aspro, è ovvio che vi siano componenti che affondano le proprie radici nei sentimenti e nelle emozioni; il dolore, la nostalgia, la rabbia, la paura, l’odio. Quindi, non possiamo aspettarci di non trovarne traccia, da ambo le parti. Si tratta piuttosto di capire in quale misura tutto ciò agisca nel determinare le scelte degli uni e degli altri.
Una cosa è sicura ed evidente: poiché sono state le forze della Resistenza palestinese ad aprire questa fase del conflitto, e poiché l’azione del 7 ottobre ha richiesto una lunga ed accurata preparazione, si può con sicurezza affermare che tale azione è parte di un più ampio disegno strategico. Che a sua volta, di là dagli altrettanto chiari obiettivi politici che si poneva (e che in parte ha già colto), deve giocoforza comprendere la previsione di massima del successivo sviluppo militare.
Non può esservi dubbio che la preparazione di tale piano (che, ricordiamolo, non è opera esclusiva di Hamas/al-Qassam, ma di ben cinque diverse organizzazioni politico-militari) abbia considerato la reazione israeliana; e di certo non poteva ignorare che, sotto il profilo numerico e di mezzi, la supremazia dell’IDF era indiscutibile. La strategia palestinese, pertanto, non poteva che mettere nel conto perdite elevate, ed al tempo stesso puntare su qualcos’altro per sconfiggere il nemico. A ben vedere, questi sono esattamente principi base di ogni guerra di guerriglia.
La premessa strategica dell’operazione Tempesta di al-Aqsa è che il punto debole di Israele è il personale umano. La capacità politica e sociale di reggere perdite relativamente elevate, è sicuramente molto minore per Tel Aviv che non per la Resistenza. I militari israeliani sono ragazzi (e ragazze) di leva, che non sono preparati ad affrontare una prolungata guerra d’attrito. La loro capacità di resistenza psicologica (così come quella delle loro famiglie) è contenuta al di sotto di determinati limiti – di tempo e di perdite. Su ciò ovviamente incidono numerosi fattori, più o meno comuni a tutte le società occidentali; ma nel caso di Israele vi è un elemento aggiuntivo, ovvero l’ossessione demografica. La popolazione non araba è infatti estremamente ridotta, rispetto alla massa dei palestinesi e degli arabi dei paesi vicini, ed ha un tasso di fertilità di gran lunga inferiore.
La strategia palestinese, quindi, è semplicemente riassumibile. C’è una prima fase, l’attacco, durante il quale si infrange il mito dell’invincibilità del nemico, si mina il rapporto di fiducia tra la popolazione ed il suo esercito, si riposiziona al centro del mondo la questione palestinese, si manda all’aria il piano statunitense di normalizzare lo status quo, e non da ultimo si infliggono perdite al nemico e si fanno prigionieri che serviranno per le fasi successive.
La seconda fase, prevede – in senso letterale – la resistenza; la reazione rabbiosa e feroce dell’IDF è messa in conto, e si tratta di scomparire sinché non si sarà scaricata. La terza fase (quella attuale) prevede il confronto sul terreno tra le forze combattenti e l’esercito nemico, durante il quale la guerriglia cercherà di infliggere quante più perdite possibili al nemico, e di fiaccare la (sua) resistenza; in questo quadro, lo scambio dei prigionieri civili serve ad attutire l’impatto della risposta israeliana. L’ultima fase, quando il nemico sarà stanco, isolato, sfiduciato e diviso al suo interno, sarà un lungo cessate il fuoco che preluderà allo scambio dei militari prigionieri con migliaia di palestinesi incarcerati.
A quel punto, la vittoria politica – ed anche militare – della resistenza sarebbe evidente.
Questa, ovviamente, è solo presumibilmente la strategia palestinese, ed in ogni caso è ciò che ha immaginato, non necessariamente ciò che accadrà.
Possiamo adesso chiederci, invece, qual’è la strategia israeliana.
Per quanto possa apparire paradossale, la mia risposta a questa domanda è che – semplicemente – una strategia israeliana non esiste. E ciò per due semplici ragioni: la prima, è che l’iniziativa è stata totalmente palestinese, ed ha colto di sorpresa l’intero establishment politico-militare; la seconda è che, all’interno delle forze armate e dei servizi di sicurezza israeliani, nessuno pensava mai che la Resistenza potesse mettere in atto una operazione di tale livello, e quindi non c’erano piani su come fronteggiare questa eventualità. Ciò è peraltro confermato empiricamente dalla reazione militare nelle prime 48 ore, caratterizzata chiaramente dal più totale caos e dal panico.
Quella che viene adesso presentata come la strategia dello stato ebraico, ovvero la conquista di Gaza ed il suo controllo diretto negli anni a venire, accompagnata dall’espulsione del maggior numero possibile di palestinesi, non è infatti in alcun modo una strategia, né politica né tantomeno militare. È nella migliore delle ipotesi un disegno geopolitico di lungo respiro, riesumato a copertura appunto della mancanza di una idea strategica con cui affrontare la situazione. Sotto il profilo militare, poi, è del tutto insignificante.
La realtà è che la risposta israeliana al 7 ottobre non è la messa in atto di un piano apposito ed adeguato, ma una mera reazione di pancia; la rabbia per lo smacco subito, la consapevolezza del danno inferto dal nemico, il dolore per le perdite, il desiderio di rivincita, hanno armato la mano di Netanyahu e dell’IDF, ma senza alcuna idea di dove andare e come – se non una generica volontà di annientare Hamas. Obiettivo peraltro irraggiungibile [1].
L’assenza di una vera strategia militare si evince non solo dalla vaghezza degli obiettivi (e dalla pura e semplice certezza di poterli conseguire), ma da ciò che ha fatto seguito al 7 ottobre.
La prima risposta è stata ovviamente avviare la campagna di bombardamenti sulla Striscia. Una mossa meramente vendicativa, della cui inutilità militare è impossibile che lo stato maggiore israeliano non si rendesse conto. La sua unica utilità, infatti, è stata quella di trasmettere l’idea della prontezza di Israele nel rispondere alla minaccia, e guadagnare tempo per decidere come agire, ed approntare le forze per farlo. Non a caso, l’operazione Spade di Ferro scatta ben 20 giorni dopo l’attacco palestinese.
Il secondo passo è stato mobilitare in massa i riservisti, persino facendo rientrare, con appositi voli speciali, quanti – avendo doppia nazionalità – risiedevano abitualmente all’estero. Anche questa una mossa militarmente poco utile, quantomeno nei termini quantitativi in cui è stata attuata, ma che testimonia il panico che si è impadronito dei vertici politici e militari.
A distanza di quaranta giorni dall’inizio di tutto, è chiaro che non c’è né un obiettivo chiaro, né tanto meno un’idea chiara su come raggiungerlo – sia pure tutto mascherato da una sicumera verbale estremamente aggressiva, quando non addirittura messianica.
Va inoltre notato che, per l’IDF, si è quasi subito posto un problema aggiuntivo. Oltre al fronte meridionale di Gaza, infatti, è diventato subito chiaro che si ponevano altre, ulteriori minacce, sia pure di differente pericolosità. Le formazioni sciite irachene e yemenite, infatti, hanno cominciato a colpire a distanza Israele, in particolare Eilat e la riva sul mar Rosso. Ovviamente la Cisgiordania è entrata in subbuglio. E soprattutto sul confine libanese Hezbollah ha immediatamente assunto una postura estremamente offensiva, colpendo continuamente le posizioni israeliane.
Tutto ciò ha implicato il dover dispiegare le forze dell’IDF e dell’aviazione in modo tale da coprire almeno tre fronti: Gaza, Cisgiordania e Libano. Come si evince dalla stampa israeliana, il paese (certo memore degli eventi del 2006) è semplicemente terrorizzato da Hezbollah, e l’idea che possa entrare più attivamente nella guerra è la maggiore preoccupazione per le forze armate.
Se proviamo a scendere di livello, e andiamo ad analizzare le mosse tattiche, quanto abbiamo sostenuto sinora apparirà ancora più evidente.
Tatticamente parlando, infatti, la mossa palestinese del 7 ottobre è una manovra classica: si attacca il nemico quando e dove non se lo aspetta, lo si colpisce duramente, e poi ci si ritira sulle proprie posizioni, in attesa che questi reagisca e venga a sua volta ad attaccare ma sul nostro territorio. L’attacco a sorpresa, quindi, è a sua volta funzionale a spingere il nemico affinché venga a combattere laddove la Resistenza è più forte: il proprio territorio, dove agirà in difesa (quindi in ulteriore vantaggio), sfruttando la propria rete – nello specifico in gran parte sotterranea – di fortificazioni.
A questo punto, è importante fare anche riferimento ad alcuni elementi che, nella tempesta comunicazionale che accompagna il conflitto, finiscono per andare dispersi.
Cominciamo col dire che la fase di attacco del 7/10 ha impegnato probabilmente 6/700 combattenti in totale. Se consideriamo che c’era la necessità di ricondurre immediatamente a Gaza i prigionieri catturati, appare credibile quanto affermato dalle Brigate al-Qassam, ovvero che nel corso delle prime 24/48 ore era stata effettuata una rotazione delle unità combattenti. Tutti i video che abbiamo visto di quelle ore mostrano piccoli gruppi, composti mai più da una decina di uomini, che agivano sui vari obiettivi. È quindi possibilissimo che inizialmente abbiano agito circa 3/400 combattenti, i quali hanno poi ripiegato su Gaza con i prigionieri mentre venivano rimpiazzati da altre unità in prima linea.
L’IDF, nell’enfasi dei primi giorni, aveva affermato di aver ucciso almeno un migliaio di combattenti, durante gli scontri seguiti all’attacco palestinese. Ma, a parte il fatto che difficilmente ci fossero tanti guerriglieri in azione, è francamente stupefacente che non ci sia nessuna evidenza di quanto asserito. Non abbiamo visto alcuna immagine di queste centinaia di cadaveri, che è improbabile la propaganda israeliana non avrebbe sfruttato. A parte il fatto, ovviamente, che anche a prendere per buona questa cifra, in assenza pressoché totale di combattenti catturati, vorrebbe dire che sono stati tutti giustiziati sul posto (cosa peraltro da non escludere). La cosa più probabile, quindi, è che forse un centinaio di combattenti siano stati uccisi o feriti, mentre tutti gli altri sono rientrati alle proprie basi.
Vale qui la pena notare, a tal proposito, che mentre la propaganda palestinese diffonde continuamente video in cui si vedono i suoi combattenti attaccare e colpire carri Merkava, corazzati di vario tipo e militari di Tsahal, nelle immagini diffuse dall’IDF il nemico palestinese è praticamente sempre invisibile, se non assente, per cui le asserzioni sulle perdite inflitte non hanno alcun riscontro oggettivo.
Se guardiamo adesso come si sta sviluppando tatticamente la manovra israeliana, ne possiamo osservare sia la prevedibilità che la (prevedibilmente) scarsa efficacia.
Tale tattica, infatti, sembrerebbe basarsi su uno schema da manuale, ovvero la progressiva suddivisione (e ripulitura) del territorio nemico in quadranti. Il primo passo, è stato dividere la Striscia in due quadranti, uno al sud ed uno al nord, tagliandola orizzontalmente poco sopra il Wadi Gaza. Poi è stato circondato sui quattro lati il quadrante nord. E adesso è iniziata la penetrazione in direzione est, a partire dalla linea di costa, per tagliare a sua volta questo quadrante in due parti, a nord e sud.
Il limite generale di questa tattica è che, non solo richiede tempo, ma soprattutto richiede l’impiego di forze sempre più consistenti. Perché ovviamente non stiamo parlando di territori vuoti, ma di aree urbane, in cui ciascun quadrante – una volta ripulito dalle forze combattenti nemiche, sempre che ciò sia possibile – deve essere presidiato. E mentre le operazioni di riquadratura possono essere effettuate utilizzando prevalentemente forze corazzate, quelle di cleaning e di presidio richiedono l’utilizzo della fanteria.
Già così, l’IDF mostra di essere fortemente esposto al fuoco nemico, se in tre settimane ha dovuto contare oltre duecento corazzati distrutti o danneggiati. Quali perdite andrebbe a subire una volta costretto ad utilizzare unità appiedate, è facilmente immaginabile.
Ora, ancora una volta, torniamo ad alcuni di quegli elementi dispersi di cui si diceva.
Primo dato: a 40 giorni dalla cattura di circa 200 prigionieri, tra militari e civili, è sin troppo evidente che l’IDF non ha la più pallida idea di dove si trovino. Duecento persone sono un numero considerevole, perché se sono concentrate in pochi posti richiedono una massiccia sorveglianza, ed una notevole logistica, mentre se sono dispersi in piccoli gruppi significa che almeno qualcuno dovrebbe essere identificato. Su questo, invece, Israele brancola nel buio. Il che fondamentalmente significa che non ha la più pallida idea di come/dove si articola la rete dei rifugi sotterranei. Esattamente quella rete che consentirebbe ai combattenti di spostarsi da un punto all’altro, senza essere intercettabile.
Altro elemento: la forza combattente della Resistenza era stimata, prima dell’inizio della guerra, in circa 20/30.000 uomini, con la capacità di arrivare a mobilitarne sino a 50.000. L’IDF sta impiegando nell’operazione su Gaza circa 20.000 uomini. Ciò significa che gli attaccanti sono in netta inferiorità numerica, oltre ad essere in condizioni di inferiorità tattica. Ma soprattutto, potrebbe significare che prima di riuscire a neutralizzare un numero così elevato di combattenti, questi potrebbero infliggere una quantità di perdite insopportabili, per l’esercito e per l’intera società israeliana. Se nonostante tutto, infatti, l’IDF dovesse riuscire ad infliggere perdite 10 volte superiori a quelle subite, anche così dovrebbe registrare migliaia di caduti. E presumibilmente svariate centinaia di mezzi corazzati. In pratica, il prezzo da pagare potrebbe essere talmente alto da mettere Tsahal fuori combattimento per un periodo significativo; il che, come ben sanno a Tel Aviv, potrebbe essere una tentazione per qualcuno dei tanti nemici che Israele si è fatto nella regione…
Ovviamente, tutto ciò non significa che Israele non possa vincere la sua battaglia, sul breve periodo. Certamente possiede i mezzi per farlo; si tratta di capire se ne ha anche la capacità di tenuta, ovvero se sia in grado di reggere non solo perdite militari significative, ma anche notevoli perdite economiche (già ora di gran lunga superiori al previsto), nonché le pressioni e l’isolamento internazionale.
C’è in questo un elemento che va tenuto presente, e che rende tutto molto aleatorio. Lo shock provocato dall’attacco del 7 ottobre (molto più forte e profondo di quanto ora non appaia) non ha semplicemente scosso la società israeliana dalle sua fondamenta – cosa che sarebbe accaduta comunque – ma è arrivato in un momento assai particolare per Israele. Per un verso, la figura di Netanyahu non solo era vista già prima come estremamente negativa e con ambizioni autoritarie, tanto da essere fortemente contestata da una buona parte della popolazione, ma lui è adesso visto anche come il maggiore responsabile del disastro militare. Al tempo stesso, va ricordato che è in fondo espressione di una maggioranza elettorale, in larga parte anche più estremista di lui, e che può contare sull’appoggio di molti tra i settler – che sono una componente importante, sotto molti aspetti, della società.
Tutto ciò contribuisce ad alimentare una gestione totalmente irrazionale della crisi attuale, e che cerca una vendetta capace di sanare (sia pure illusoriamente) la ferita.
Infine, vanno esaminati gli altri due fronti principali del conflitto, sia perché ci dicono molto sui possibili sviluppi, sia perché ci dicono qualcosa anche su quale orientamento sta prevalendo all’interno dell’establishment israeliano.
Per quanto riguarda la Cisgiordania, va innanzitutto ricordato che – a differenza di Gaza – si tratta di un territorio in cui la presenza delle aree palestinesi è a macchia di leopardo, immerse e frammentate in un territorio largamente occupato da insediamenti coloniali israeliani. Queste aree palestinesi, inoltre, sono amministrate dall’ANP, l’Autorità Nazionale Palestinese, che è sostanzialmente un governo fantoccio, praticamente in mano all’amministrazione americana, ed è utile soprattutto alla comunità internazionale per avere un riferimento palestinese che non sia Hamas. Oltretutto, tutto questo semi-stato coloniale è presidiato dall’IDF, che ne ha il pieno controllo militare.
Tutto ciò, per chiarire preliminarmente una questione rilevante: mentre Hamas ha avuto il controllo pressoché assoluto su Gaza, il che gli ha consentito di sviluppare una considerevole forza armata, dotata di strutture logistiche e di armamenti significativi, nella West Bank ciò non è stato assolutamente possibile.
Le realtà di questi territori, quindi, è quella di un reticolo di città e villaggi in territorio ostile, amministrato da una forza collaborazionista e presidiato militarmente dall’IDF, in cui si è ovviamente sviluppata comunque una organizzazione della Resistenza, ma in termini militari appena sufficienti. In pratica, quindi, la Cisgiordania non era in grado di aprire effettivamente un altro fronte militare impegnativo, non potendo andare oltre una intensificazione dei periodici riot. Ciò nonostante, Israele ha deciso di intervenire pesantemente sulla regione con le sue forze militari.
Le forze dell’IDF impegnate qui stanno attivamente – e quotidianamente – esercitando una pressione sulla popolazione del tutto ingiustificata, rispetto a quanto accaduto precedentemente. Oltre a continui e violenti raid, che sfociano spesso in scontri armati con le forze della Resistenza, l’esercito israeliano sta procedendo ad una sistematica distruzione di infrastrutture (i bulldozer corazzati dell’IDF demoliscono monumenti, e addirittura distruggono le strade), fanno saltare in aria le case dei sospetti aderenti alla Resistenza, ed effettuano centinaia e centinaia di arresti, senza alcuna specifica accusa (detenzione amministrativa). Da ultimo, hanno iniziato a reincarcerare tutti coloro che erano stati precedentemente detenuti e poi scarcerati.
La ratio (ammesso che ve ne sia una) di tutto ciò è, sotto il profilo tattico, non molto chiara. Da certi aspetti della gestione militare, sembrerebbe che l’IDF stia usando la West Bank come un gigantesco campo di addestramento, in cui le unità di riservisti appena richiamati vengono reimmersi in una condizione di guerra urbana – ma in condizioni di sicurezza, stante la completa sproporzione delle forze – al fine di prepararli per successivi impieghi in condizioni ben più aspre.
Considerato che Israele ha ben altri fronti su cui deve esercitare il proprio impegno offensivo/difensivo, attizzare il fuoco in Cisgiordania comunque non sembra esattamente la mossa più opportune.
È comunque probabile che anche questa vada inquadrata in una pulsione emotiva, che implica sia la ricerca della summenzionata vendetta, sia il desiderio di trovare una soluzione finale al problema palestinese. Non da ultimo, è anche possibile che, in un momento di grande difficoltà politica e militare, la ricerca di una vittoria facile serva anche ad attutire i contraccolpi della debacle del 7 ottobre.
Altro fronte, infine, è quello libanese. Questo è sicuramente il più pericoloso, per Israele, e l’IDF lo sa bene. La memoria della guerra del 2006 (quando comunque Hezbollah era molto meno forte di quanto non sia desso), in cui l’invasione israeliana si infranse contro le difese della milizia sciita, al punto che dovette intervenire in fretta e furia una mediazione internazionale per salvare la faccia a Tel Aviv, è molto ben radicata nella memoria di Israele. Tanto che oggi, basta scorrere i media israeliani per cogliere il vero e proprio terrore che ispira Hezbollah.
La formazione sciita, organizzata ed armata come un vero e proprio esercito, sta attualmente esercitando la sua pressione su Israele attraverso una serie continua di attacchi transfrontalieri, utilizzando missili anticarro, droni ed artiglieria. Ed il fatto che l’IDF schieri qui un terzo delle sue forze armate, testimonia ulteriormente la preoccupazione che suscita questo fronte.
Ovviamente Israele risponde agli attacchi dal Libano, usando soprattutto l’aviazione. Ma il punto è quali saranno gli sviluppi su questo fronte.
Per il momento, Hezbollah ritiene di fare la sua parte già tenendo bloccata una parte considerevole delle forze israeliane – e, cosa non secondaria, tenendo sotto costante minaccia tutta l’alta Galilea, in buona parte già largamente evacuata (con le ricadute economiche del caso).
Ma, qualora la situazione a Gaza dovesse raggiungere un livello che metta seriamente in pericolo la sopravvivenza politico-militare della Resistenza, è evidente che ci sarà un’evoluzione dello scontro anche su questo fronte. E seguirà uno schema simile a quello adottato dai palestinesi con l’operazione Al-Aqsa Flood. In una prima fase, Hezbollah scaricherà una serie crescente di attacchi missilistici su tutto il territorio israeliano; a questa seguirà la reazione di Tel Aviv, che – esattamente come a Gaza – sarà costituita da pesanti attacchi aerei sul Libano. Attacchi che però non saranno in grado di risolvere il problema (i missili continueranno a piovere sulle città e sugli insediamenti militari israeliani), e si renderà quindi necessaria una operazione di terra: l’IDF dovrà per la terza volta invadere il il paese dei cedri. Esattamente quello che aspetta Hezbollah.
In pratica, Israele si troverebbe impegnata su due fronti – a nord ed a sud – in conflitti sanguinosi, e di non rapida soluzione. Mantenendo comunque la spina del fianco della West Bank, e quella delle formazioni sciite irachene e yemenite ad est.
Come ben sanno a Washington, semplicemente Tel Aviv non sarebbe in grado di reggere un conflitto con queste caratteristiche, né politicamente né militarmente, e ciò comporterebbe quindi l’inderogabile necessità per gli USA di intervenire direttamente. Con tutte le conseguenze del caso.
Questo non solo rischierebbe di scatenare un conflitto regionale assai ampio, con le forze armate russe che si trovano oltretutto in campo, coinvolgendo probabilmente almeno tre/quattro paesi vicini, ma avrebbe conseguenze devastanti anche sul piano interno statunitense. Il problema, purtroppo, è che – come dice Seymour Hersch [2] – “Biden e gli Stati Uniti non influiscono su nulla. (…) A Washington c’è un vuoto di potere, nessuno gestisce l’evoluzione degli eventi. Si limitano a cercare di ottenere una rielezione.”
In questo momento, quindi, è come se Israele procedesse a gran velocità ma senza alcuna idea di dove andrà a parare, un po’ come un treno senza più macchinista. Gli Stati Uniti non sono chiaramente in grado di esercitare alcuna pressione o persuasione sull’alleato, da cui però non sono in grado di prendere le distanze in alcun modo. E le cose procedono senza – appunto – una vera e propria strategia, ma secondo un disegno quasi messianico. Disegno che però, proprio per la sua natura del tutto irrazionale, rischia di portare tutti verso un baratro.
Come ha detto l’israeliano Canale 14, “dopo la Striscia di Gaza sarà la volta del Libano, poi dell’Iran”. Un delirio di furore e di onnipotenza si è impadronito di Israele, ma di questo sono perfettamente consapevoli sia a Beirut che a Teheran. Per questo non lasceranno cadere Gaza, senza che Israele non paghi un prezzo enorme.
[1] “Ma i capi della sicurezza israeliani sanno che l’obiettivo di distruggere Hamas è probabilmente fuori dalla loro portata. Hamas ha una base politica e un ampio sostegno esterno da parte dell’Iran. La guerra urbana è dura”, in “Israel must know that destroying Hamas is beyond its reach”, intervista a John Sawers (ex ambasciatore UK all’ONU, ex direttore MI6, il servizio segreto britannico), Financial Times
[2] Cfr. “Hamas’s Alamo”, Seymour Hersch, Substack
FONTE:https://giubberosse.news/2023/11/18/palestina-strategie-a-confronto/
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