La rivolta dei contadini in Europa
DA LA FIONDA (Di Matteo Bortolon)
Perché in tutta Europa gli agricoltori scendono in piazza? Quali sono le dinamiche politiche e i nodi strutturali alla base delle proteste?
In diversi paesi europei è esplosa la rivolta dei contadini. I dimostranti bloccano strade e città con i loro veicoli, sfilano e manifestano a migliaia. Chi pensava che si dovesse archiviare il mondo contadino a favore della modernità industriale o delle dinamiche così smart del digitale, dovrà ricredersi. Ma come interpretare questo “ritorno”?
Qualcuno pensa di avere le idee chiare. Alla trasmissione l’Aria che tira il giornalista Stefano Feltri ha sintetizzato in poche frasi una narrativa facile, quasi infantile: i blocchi del traffico di Ultima Generazione erano per salvaguardare l’ambiente, mentre gli agricoltori rivendicano il diritto di produrre con modalità inquinanti e a spese nostre. Insomma, ecologisti buoni, contadini cattivi.
Buoni (ecologisti) vs. cattivi (contadini)? La narrazione tossica
Progressismo, ecologia, europeismo vs. reazionari (o senza mezzi termini: fascisti!), coltivatori, egoismi nazionali. Uno schema confortevole e menzognero, che occulta i problemi reali e strutturali. Una narrazione tossica.
Già uno sguardo meno superficiale fa intravede un panorama più articolato e complesso. A partire dal fatto che nel campo progressista (in senso lato) non tutti sono così beoti. Una cinquantina di associazioni ecologiste fra le più famose e con credenziali insindacabili rifiuta di essere derubricata come nemici degli agricoltori:
Noi, organizzazioni ecologiste, contadine e militanti per un altro modello agricolo attive da decenni, condividiamo la vostra [degli agricoltori] rabbia e rifiutiamo il discorso dominante che vorrebbe fare di noi i vostri nemici.
Siamo arrabbiati perché sappiamo che la distruzione delle condizioni di vita dei contadini come quella degli ecosistemi vanno a vantaggio delle stesse persone, e queste non siamo né noi né voi.
Nel proseguo dell’appello gli ecologisti ricordano che essi hanno partecipato alle mobilitazioni assieme alle associazioni contadine come le lotte contro i trattati di libero scambio e contro il modello industrialista e tecnocratico di agricoltura imposto a tutto il mondo da istituzioni e Stati al servizio dell’agrobusiness delle multinazionali. Infine l’appello si chiude con l’invito a scendere i piazza per sostenere le mobilitazioni.
È pur vero che realtà identitarie e di destra radicale hanno dichiarato il loro sostegno alle proteste, cercando di accreditarsi come sponda politica di esse, come sta cercando di fare Marine Le Pen – al governo italiano la cosa riesce un po’ peggio dato che in finanziaria hanno appena reinserito l’irpef sui terreni agricoli tolto da Renzi. Ma ciò non rappresenta che un tentativo di mettere il cappello sulle manifestazioni, che non è detto abbia successo.
In Germania, per esempio, dal 13 gennaio 2024 vi sono state manifestazioni in diverse città tedesche molto partecipate contro il partito AFD, bollato come estremista e neonazista, con cifre che si aggirano sull’ordine di grandezza di 30-70mila di manifestanti (a Monaco sono arrivati circa in 100mila). Il movimento ambientalista Fridays for Future è stato in prima fila, eppure i suoi membri hanno manifestato anche a favore dei contadini (per esempio a Lipsia). In Francia la Confédération Paysanne sostiene entusiasticamente le mobilitazioni, e nessuno sano di mente le definirebbe nazionaliste o fascistoidi. Ciò è un chiaro indice che le piazze degli agricoltori hanno anime diverse, e semplicemente per membri dell’opposizione è più facile sostenere proteste che hanno nel mirino le misure dell’Esecutivo. Ovviamente l’elitismo di certo progressismo liberale, che ha già regalato battaglie importanti alla destra identitaria, fa di tutto per spingerle verso gli estremisti.
Motivi comuni, contesti diversi
Le proteste degli agricoltori si sono diffuse in diversi paesi europei: Romania, Belgio, Olanda, Germania, Francia, Italia, Lituania e Grecia. Una infografica di Politico ci mostra dove sono le maggiori manifestazioni:
Come si vede c’è un po’ di tutto: il centro della Ue franco-tedesco, il sud dei PIGS, il nord austero e l’est ex sovietico.
La partecipazione è imponente, talvolta con decine di migliaia di persone; il Corriere ha definito le manifestazioni che sono arrivate ad occupare il centro di Berlino “la più grande protesta che il paese abbia visto dal dopoguerra”.
Alcune motivazioni sono comuni, mentre nei diversi contesti ci sono specificità. In diversi casi i coltivatori citano eventi meteorologici che hanno rovinato i racconti.
In Olanda la protesta si è fatta avanti nel 2019, ed è esplosa ciclicamente negli anni successivi – in un’occasione è dovuto intervenire l’esercito. Nel 2023 un partito politico ispirato dalle rivendicazioni degli agricoltori, il BBB – Movimento contadino-cittadino, è divenuto la prima forza politica del paese. Si trattava delle elezioni provinciali; quelle nazionali, che esprimono di fatto il governo, ha visto un loro forte ridimensionamento, ma si è trattato di un vero terremoto politico nel paese. Molti commentatori pensano di tratti della rivincita di una destra populista sul campo progressista.
In Germania un buco di bilancio determinato da una sentenza della Corte costituzionale – che ha dichiarato nullo l’utilizzo di una autorizzazione all’indebitamento per riempeire un fondo l’anno successivo per obiettivi diversi – ha spinto il governo a tagliare sussidi per il carburante ad usi agricolo e a istituire una nuova tassa per tali veicoli. Così gli agricoltori sono scesi in piazza il 18 dicembre, e quando l’esecutivo, impaurito, ha sospeso le misure il 4 gennaio, il movimento si considerava sufficientemente forte la rigettare tali concessioni come troppo esigue.
In Francia l’Occitania ha visto un primo vagito delle proteste ad ottobre, con una intensificazione a metà gennaio. A fine mese è stata bloccata la capitale, strappando al giovane primo ministro di Macron delle concessioni, che i dimostranti hanno ovviamente considerato non sufficienti.
Nei paesi confinanti col l’Ucraina le proteste si sono rivolte contro un import di prodotti da essa: per favorire Kiev la Commissione (che, si ricordi ha la competenza esclusiva sulla politica commerciale estera) ha esentato gli ucraini dei dazi, ma si è trovata contro i governi degli stati limitrofi, spinti dalla rabbia degli agricoltori locali. In Polonia il ministro dell’Agricoltura ad aprile 2023 ha dovuto dimettersi, e Varsavia ha dovuto annunciare, assieme all’Ungheria lo stop al grano di Zelensky. Anche la Bulgaria ad aprile ha considerato tale possibilità, e a settembre gli agricoltori hanno bloccato le strade. In Romania le proteste sono iniziate il 10 gennaio e un confronto infruttuoso con le autorità qualche giorno dopo non è servito a nulla.
La gravità della questione – che ovviamente ha avuto zero rilievo nei media – non va sottovalutata: la Polonia è assieme al Regno Unito il più fervente paese antirusso del continente, che sta sfruttando il favore degli Usa per il sostegno all’Ucraina per un maggiore ruolo geopolitico e militare. La dedizione alla causa di Kiev, con un fanatismo bellicista impressionante, a quanto pare non è tale da sacrificare la propria classe contadina per fare favori a Zelensky. È la Commissione che decide le politiche commerciali, e l’adozione di misure unilaterali non approvate da essa è un atto eversivo rispetto ai Trattati di quella Ue che secondo gli occidentalisti più oltranzisti (in realtà quasi tutti) dovrebbe muoversi come un sol uomo contro la Russia. Il presidente ucraino, da parte sua, ha detto a settembre scorso in sede ONU che i paesi che rifiutano l’importazione del suo grano di lavorare per il Cremlino. Il premier polacco ha rimarcato a stretto giro che le relazioni erano diventate difficili, soggiungendo che non avrebbe più inviato armi a Kiev. Va notato che Morawiecki, allora in carica, rappresentava la maggioranza più fanaticamente antirussa dello spettro politico polacco, e si può immaginare la reazione dal sentirsi bollare come utile idiota di Putin.
Condizioni lavorative e rivendicazioni
In merito alle rivendicazioni delle proteste, le motivazioni comuni riguardano le difficoltà economiche degli agricoltori, i costi crescenti, la concorrenza eccessiva da altri paesi, la burocrazia asfissiante e le norme della Ue a finalità ambientale.
In Francia, per esempio, una commissione del Senato si è occupata dei suicidi dei contadini, un fenomeno che ha fatto scalpore con uno studio che ne rilevava uno ogni due giorni. Il rapporto (2021) metteva in rilievo una quantità di fattori, fra cui le basse retribuzioni: uno dei senatori che l’ha redatto stima il compenso medio nei termini di 1030,00 € mensili con un carico di 70 ore lavorative settimanali. Cifre diverse da quelle che giravano – lo stesso Macron in campagna elettorale aveva parlato di 350,00 mensili – ma che costituiscono una condizione evidentemente problematica.
Le misure politiche nel mirino sono in parte collegate al Green Deal della Commissione von der Leyden, presentato a dicembre 2019. L’attenzione dei media si è focalizzate su di esse, spingendo quella semplicistica narrativa che abbiamo visto, in cui l’ “ambientalismo” della Commissione si scontra con la protesta dal basso – dipinta, a seconda dei casi come la genuina espressione di ceti popolari o l’egoismo piccolo-borghese di destra.
L’opposizione a tali misure è reale – si dovrà citare la Legge sul Ripristino della Natura, che impone fra l’altro ai terreni agricoli un obbligo di “riposo” per una percentuale della sua superficie. Ma vanno considerati gli elementi di lungo periodo che hanno portato alla situazione odierna, nella quale la perentoria necessità della salvaguardia ambientale fa passare in secondo piano un dibattito ragionato su “chi paga il conto”.
Gli elementi strutturali
Per restituire la complessità della situazione si devono invece citare tre ordini di fattori, che restituiscono alcuni dei nodi strutturali sottostanti alle proteste.
Il primo è la mercantilizzazione del settore in un quadro di crescente concorrenza, che favorisce le aziende agricole più grandi (si pensi alla distribuzione iniqua delle risorse comunitarie della PAC) con un modello produttivo sempre più dipendente da pacchetti tecnologici elaborati dai giganti dell’agrobusiness. Il mondo tradizionale dei contadini e le piccole imprese sono crescentemente marginalizzate ed indebitate, strette in una morsa. Da una parte i fattori produttivi sono sempre più riconducibili al mercato globale dominato da un oligopolio molto made in Usa, in balia di prezzi fluttuanti per motivi completamente estranei alle dinamiche del territorio. Dall’altra stanno i veri soggetti forti del sistema: la grande distribuzione, che assume un potere spropositato, ed è sempre più centralizzata in poche mani. I contadini si trovano a divenire come un ingranaggio mediano di una filiera dominata da una logica ben precisa, con l’alternativa di adeguarsi o morire; le aziende che riescono ad adeguarsi, anche in termini dimensionali, sopravanzano coloro che non riescono a fare il “salto”. Le nicchie di sopravvivenza sono pochissime, soprattutto in tempi di crisi in cui l’abbattimento di costi consentito dalle gigantesche economie di scala diventa attrattivo.
Va aggiunto che il costo dei fertilizzanti è esploso a motivo dell’aumento del prezzo del gas con la guerra di sanzioni lanciato da Usa e Ue contro la Russia. Per citare un articolo di Politico “i margini di profitto degli agricoltori [sono] stati indeboliti da periodi di espansione e recessione non solo nei prezzi ottenuti dai loro prodotti, ma anche nei costi di produzione”.
Il modello agroindustriale attuale è stato sistematicamente promosso dalla Ue, una istituzione notoriamente permeabile alle lobby, fra le quali il settore alimentare è fortissimo.
La incoerenza di promuovere per decenni l’agrobusiness e di cercare una compensazione sul piano ambientale (senza modificare tale assetto!) facendo pagare il conto agli agricoltori non sfugge a chi, come gli aderenti a Via Campesina (una associazione mondiale di agricoltori che ha coniato l’espressione sovranità alimentare) si vede di fronte lo stesso sistema che cerca di gestire le proprie ricadute ecologiche preservando tutte le sue gerarchie.
Il secondo è la concorrenza sempre più esasperata da vari accordi di libero scambio come il CETA (Ue-Canada, in applicazione provvisoria), Ue-MERCOSUR (con vari paesi dell’America Latina, non ancora in vigore). L’opposizione a tali trattati – che la stampa ha visto bene di glissare – è esplicita, ed ha spinto il ministro francese delle Finanze ad esprimere la sua contrarietà al trattato coi paesi del Sudamerica, promettendo l’opposizione della Francia.
Il terzo è la oscillazione dei prezzi dei prodotti agricoli e dei loro fattori produttivi, in specie i fertilizzanti.
Il ruolo della finanza speculativa
Quest’ultimo problema è di natura finanziaria, e gli anni seguenti lo scoppio della crisi del 2007-08 ne ha dato una illustrazione eloquente. I prezzi delle derrate alimentari si sono impennati perché nelle maggiori borse mondiali c’è un interscambio di prodotti finanziari legati ad esse.
Come già spiegava nel 2011 Jayati Gosh, importante economista indiana, il problema nasce da prodotti finanziari (derivati) che consentono l’acquisto del bene in un secondo momento a prezzo invariato. Per chi vuole comprarlo davvero è una assicurazione contro il rischio del rialzo di prezzi. Chi invece la merce in senso materiale non la guarderà nemmeno compra il prodotto finanziario e basta agendo solo sul piano virtuale. Ma perché lo fa? Per rivenderlo a prezzo maggiorato, conseguendo un profitto da una mera variazione di prezzo. Se per esempio, per un motivo qualsiasi il prezzo del grano aumenta, i derivati diventano molto richiesti, e si attiva una domanda (cioè degli acquirenti) che comprano attendendosi una crescita ulteriore del prezzo. Potremmo dire che la domanda è drogata (nel senso di “aumentata artificialmente” da una componente illusoria) da un andamento crescente dei prezzi: a chi compra non interessa trattare con i beni in senso materiale, ma solo di operare sulla composizione del proprio portafogli di attività finanziarie e sul relativo rischio.
Questo però orienta anche i prezzi di chi i beni li vende davvero, e ricade alla fine su tutti gli anelli di quella catena che è la filiera produttiva. Se questo può essere un disastro per l’economia (pensiamo alla oscillazione del prezzo della benzina, dell’energia, dei metalli), quando vengono coinvolte le materie prime alimentari, una impennata dei prezzi si traduce in morti di fame e disordini sociali. Ed in ogni caso la oscillazione dei prezzi crea problemi per la produzione – cioè coltivazione – di cibo, che essendo necessario alla sussistenza umana richiederebbe una tutela diversa da beni meno necessari.
Tutto ciò è passato nell’arco di due-tre anni dagli studi accademici alla divulgazione di massa. Se nel 2007 tali analisi era praticamente riservata a specialisti di carattere quasi iniziatico, nel 2010-12 il dibattito politico se n’era impossessato. Molti studi divulgativi risalgono a tale periodo, e a mano a mano che la crisi si allontanava la memoria collettiva di tali meccanismi è inevitabilmente sbiadita. Ma ciò è confermato puntualmente da ricerche più recenti: ad esempio Manogna-Kulkurni 2024 secondo cui “maggiore è il grado di finanziarizzazione dei prodotti agricoli, più drammatica è la volatilità dei loro prezzi e più significativo è l’impatto negativo sulla sicurezza alimentare”.
Il provvedimento che apre la strada alla speculazione nell’ambito agricolo è una legge Usa del 2000 e si chiama CFMA (Commodity Futures Modernization Act). Poco dopo (nel 2004) la Ue approvata la direttiva MiFiD (Markets in Financial Instruments Directive ).
Viste le catastrofiche conseguenze di tale liberalizzazione si era annunciato che la direttiva sarebbe stata cambiata. E così fu: nel 2018 è stata varata la MiFiD II. Con quali risultati? Nessuno.
Una ricerca del 2021 stima quanto essa abbia rallentato la volatilità dei prezzi, ed il risultato è sconfortante: “La conclusione principale è che le disposizioni legali della MiFID II non hanno portato ad alcuna diminuzione della volatilità nel caso delle borse valori dell’Europa occidentale considerate”. Fiasco totale.
A fronte di questi problemi, le politiche della Commissione legate al Green Deal aggiungono maggiore pressione ad una situazione già molto deteriorata. Coloro che contrastano l’ambientalismo di establishment (specialmente coloro che hanno una spiccata e dogmatica propensione antiambientalista) si concentrano su un problema reale, ma senza vedere il quadro completo della situazione accorceranno solo dell’ultimo miglio un percorso che viene da molto, molto lontano, al massimo guadagneranno tempo prima che qualcos’altro faccia esplodere la situazione. L’opzione di affrontare i problemi strutturali del mondo dell’agricoltura semplicemente non ha nessuna reale alternativa.
FONTE: https://www.lafionda.org/2024/02/06/la-rivolta-dei-contadini-in-europa/
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