Il conflitto del Dnestr, trent’anni dopo
di OSSERVATORIO CAUCASO E BALCANI (Giorgio Comai)
Un volume di recente pubblicazione esplora i retroscena sulla violenza che ha accompagnato la secessione de facto della Transnistria dalla Moldavia. Tre decenni dopo, trovare nuove risposte a vecchie questioni rimane fondamentale per evitare un inasprimento delle tensioni attualmente in corso
Nel 1992, quando le tensioni lungo il Dnestr aprirono la strada ad un confronto armato aperto, i morti si contavano a centinaia e gli sfollati a migliaia; i presidenti di Russia e Moldavia firmarono infine un cessate il fuoco che pose fine alle violenze, sancendo la creazione della Transnistria come entità indipendente de facto all’interno dei confini internazionalmente riconosciuti della Moldavia.
Ora come allora, le violenze in Moldavia sono state oscurate da guerre di magnitudine molto maggiore: in Caucaso, nei Balcani e, più di recente, in Ucraina. Ciononostante, la brutalità degli eventi che si verificarono lungo il Dnestr hanno lasciato un segno nella memoria collettiva delle società coinvolte. Trent’anni dopo, il conflitto di lunga data tra Tiraspol e Chișinău è ancora irrisolto, le dinamiche scaturite dall’invasione russa dell’Ucraina contribuiscono ad aumentare la tensione, e alcuni dei problemi principali alla base del conflitto restano senza risposta.
Oggi come allora, infatti, c’è ancora disaccordo su quali siano effettivamente i problemi che stanno alla base di questo conflitto e che lo rendono irrisolvibile. Come descritto da Eugen Străuțiu nell’introduzione ad un volume recentemente pubblicato sul tema, “The Armed Conflict of the Dniester, Three Decades Later ”, esistono in realtà tre aspetti che vengono regolarmente considerati per tentare di spiegare cosa abbia determinato l’emergere di questo conflitto.
Alcuni studiosi evidenziano il risveglio delle coscienze nazionaliste in concomitanza con la fine dell’Unione Sovietica: la presa del potere da parte delle nuove élite nazionaliste di Chișinău fu presto seguita dall’introduzione di nuove leggi sulla lingua che portarono rapidamente a una frattura con i residenti russofoni della Transnistria, molti dei quali provenivano da altre aree dell’URSS. Secondo questa linea di pensiero, la principale causa del conflitto fu quindi la presenza di questioni identitarie che andavano ben al di là degli aspetti più pratici relativi alle nuove leggi in materia di tutele linguistiche.
Una spiegazione complementare si concentra invece sul ruolo delle élite: il conflitto non scoppiò a causa della ribellione dei gruppi minoritari marginalizzati, ma piuttosto dalle potenti élite della Transnistria che temevano di perdere la loro posizione di primazia. Un terzo approccio mette invece in luce le interpretazioni geopolitiche del conflitto ed evidenzia il ruolo giocato dalla Russia, a partire dal suo coinvolgimento militare nel 1992 fino al supporto ricevuto da Tiraspol nei decenni seguenti.
Quanto accaduto tra il 1989 e il 1992, quando il conflitto stava prendendo forma, potrebbe sembrare scarsamente rilevante per sviluppare approcci pragmatici in risposta alla trasformazione di questo conflitto nel 2024, in uno scenario radicalmente modificato dall’invasione russa dell’Ucraina e dal cammino verso l’integrazione europea intrapreso dalla Moldavia. Tuttavia, nonostante siano trascorsi più di tre decenni dalle fasi più violente del conflitto, il fatto che persistano interpretazioni differenti delle cause scatenanti del conflitto ha ancora delle conseguenze sulle politiche adottate in questi mesi per superare lo stallo.
Per esempio, se il conflitto viene inquadrato principalmente in termini di imperialismo russo ed élite locali interessate solo ai propri vantaggi personali, ciò avrà sicuramente un impatto significativo sulla tipologia di politiche da considerare.
Tratti di continuità, al di là dei tanti cambiamenti
Per sua parte, “The Armed Conflict of the Dniester ” dà meritevolmente spazio a diverse prospettive, e offre spunti interessanti sia ai lettori interessati a conoscere i dettagli degli eventi dei primi anni Novanta, sia a coloro i quali cercano un’analisi più ampia del ruolo degli attori esterni – e nello specifico della Russia – nei decenni successivi. Inoltre, leggere delle specifiche dinamiche del passato può contribuire a guardare con maggior occhio critico ad alcune ipotesi sul presente.
Ad esempio, nel suo contributo al volume Keith Harrington analizza le pubblicazioni e le dichiarazioni rilasciate tra il 1989 e il 1992 dai Soviet locali nelle zone che sarebbero state poi controllate dalle autorità de facto di Tiraspol, e rileva importanti critiche al progetto separatista da un punto di vista nazionale, legale e fattuale. Gesti di sfida, come sventolare la bandiera tricolore moldava, vennero tuttavia presto banditi, e altre forme pubbliche di opposizione divennero insostenibili negli anni successivi. Ad oggi, sarebbe impossibile valutare l’apertura ad una fondamentale rinegoziazione dello stato della Transnistria basata su fonti pubbliche locali; ciò non implica un sostegno incontestato per la causa separatista.
Dareg Zabarah-Chulak definisce i volontari che arrivavano dalla Russia per combattere per la causa della Transnistria come “volontari non-residenti” anziché “foreign fighters” (o “combattenti stranieri”): il passato Sovietico era effettivamente così vicino che il loro essere stranieri non appariva ovvio. Per certi versi, ciò potrebbe valere anche per la Quattordicesima Armata, sovietica prima e russa poi, che si rivelò fondamentale per permettere il separatismo della Transnistria: si trovava infatti sotto il controllo formale delle autorità di Mosca, ma i suoi membri erano principalmente arruolati localmente, e nei momenti chiave sia la leadership che le truppe sembravano nettamente più vicine a Tiraspol che a qualunque ordine proveniente dall’amministrazione Yeltsin.
Tre decenni dopo, la Quattordicesima Armata in quanto tale non esiste più, ma la Russia continua ad avere un contingente militare composto in larga misura da residenti della zona: svolge diverse attività, dal partecipare a forze congiunte di peacekeeping, a sorvegliare un deposito di munizioni sovradimensionato (una rimanenza sovietica) a, presumibilmente, dimostrare anche militarmente la dedizione russa alla regione. Si tratta comunque di un piccolo contingente locale, a lungo isolato dalla madrepatria e per il quale nel contesto attuale è difficile immaginare vie di approvvigionamento realistiche, né via terra né per via aerea: l’esercito russo non è nella posizione di imporre soluzioni con la forza, come invece riuscì a fare nel 1992.
Il volume include inoltre un capitolo dedicato alle memorie pubblicate sugli anni del conflitto; in un momento storico in cui sia i protagonisti dei conflitti che chi li osserva condividono pubblicamente e ininterrottamente le loro prospettive in tempo reale, si tratta di un forte richiamo alla natura marcatamente pre-digitale del conflitto armato lungo il Dnestr.
La Russia continua ad essere un interlocutore imprescindibile?
Comprensibilmente, la Russia riceve importanti attenzioni sia nei capitoli che si concentrano sulle fasi iniziali sia in quelli che affrontano gli sviluppi degli ultimi trent’anni, anche in riferimento a strategie di negoziazione e di risoluzione del conflitto. Gli interessi di Mosca nel conflitto sono stati effettivamente molto evidenti fin dai suoi albori.
A seguito dell’invasione russa dell’Ucraina, tuttavia, i tempi sembrerebbero essere maturi per chiedersi se Mosca continuerà ad essere l’inevitabile interlocutore che è stato a lungo sia per Tiraspol che per Chișinău. A prescindere dagli aiuti russi, i collegamenti economici diretti sono sempre più deboli: secondo le statistiche rilasciate dalla Transnistria , le esportazioni totali della regione verso la Russia nel 2023 ammontavano a meno di 50 milioni di dollari. Ancora più importanti sono le dinamiche che riguardano Chișinău: la Moldavia è oggi molto meno legata alla Russia da rimesse, commercio o forniture energetiche, ed è dunque molto più resiliente di fronte a potenziali misure ritorsive.
Con il senno di poi, Anatoliy Dirun sembrerebbe aver ragione a suggerire, nel suo contributo al volume, che “il principale errore di valutazione commesso dalla leadership militare moldava [nel 1992] fosse l’infondata fiducia nel fatto che le unità russe della Quattordicesima Armata non sarebbero intervenute nel conflitto”. Ad oggi, fintanto che l’Ucraina resiste, la Russia non costituisce una minaccia militare per la Moldavia, ma Mosca ha chiaramente dimostrato la sua volontà di tentare di interferire negli affari politici interni della Moldavia attraverso vari mezzi – un approccio che, per molti versi, è molto più insidioso e difficile da gestire senza intaccare eccessivamente i processi democratici.
A distanza di tre decenni, il ruolo della Russia non dovrebbe essere sminuito. Ciononostante, se si considera quanti cambiamenti ci siano stati dagli anni di violenza descritti in “The Armed Conflict of the Dniester ”, potrebbe essere giunto il momento di inquadrare il conflitto in una prospettiva diversa. Per molti versi, riflettere su soluzioni al conflitto ha implicato per tanti anni un’attenzione sproporzionata alle possibili reazioni del Cremlino davanti alle varie proposte. Concentrarsi sui processi che potrebbero portare a un esito migliore per le popolazioni che vivono su entrambe le sponde del Dnestr, anziché su cosa ne potrebbe pensare il Cremlino, sembra essere ora più che mai una priorità.
Questo articolo è stato scritto all’interno del progetto “Analisi di contesto e di scenario di crisi in Moldavia e Transnistria”, implementato in cooperazione con l’Agenzia per il Peacebuilding e realizzato con il supporto del Ministero Italiano per gli Affari Esteri e la Cooperazione Internazionale ex art. 23 bis, D.P.R. 18/1967. Tutte le opinioni espresse nell’ambito di questo progetto rappresentano l’opinione dei loro autori e non quelle del Ministero.
FONTE:https://www.balcanicaucaso.org/aree/Transnistria/Il-conflitto-del-Dnestr-trent-anni-dopo-229770
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