Ordine mondiale suicida
da LIBERO PENSARE (Piero Cammerinesi)
di Henry Johnston
Nonostante la reticenza manifestata in alcuni ambienti europei e le varie ammonizioni sul fatto che un’azione del genere sarebbe palesemente illegale e dannosa per l’integrità del sistema finanziario, l’idea sembra prendere piede, soprattutto a Washington e a Londra.
Quello a cui stiamo assistendo è un esempio perfetto del tipo di pensiero che antepone i guadagni percepiti a breve termine all’impegno di preservare l’integrità di un’istituzione che trae la sua forza proprio dalla fiducia diffusa in tale integrità. Si tratta anche, come vedremo, di una manifestazione di un particolare tipo di impulso paradossale che nasce in tempi di grandi cambiamenti.
In questo caso, l’istituzione in questione è il sistema finanziario globale a guida occidentale, il cui cuore è il dollaro USA. La confisca totale delle riserve della banca centrale russa, immobilizzate da poco dopo l’inizio del conflitto in Ucraina nel febbraio 2022, darebbe un altro duro colpo alla credibilità di questo sistema. Anche se la maggior parte degli asset è in realtà detenuta in Europa, non ci sarebbe alcuna confusione su chi sta decidendo e su chi è in gioco la credibilità.
Naturalmente, le opinioni divergono sul grado di integrità del sistema centrato sul dollaro, e certamente l’intera struttura di Bretton Woods, istituita nei giorni calanti della Seconda Guerra Mondiale, ha servito in larga misura gli interessi degli americani vincitori. Ma non si può negare che per decenni il dollaro sia stato ampiamente considerato in tutto l’ambito geopolitico non solo come un punto di riferimento e una valuta per il commercio determinata dal mercato, ma anche come una riserva di valore sicura. Con la crescente liberalizzazione del commercio, le ipotesi di un sistema del dollaro sicuro e affidabile sono state inserite in ogni tipo di politica economica e commerciale. Tali presupposti sono diventati parte del tessuto stesso del sistema finanziario globale.
I rischi legati al dollaro, laddove si è capito che esistevano, sono stati in gran parte considerati nell’ambito della politica dei tassi d’interesse – in altre parole, si trattava di rischi di mercato piuttosto che di rischi intrinseci al sistema stesso. Una serie di crisi dei mercati emergenti negli anni ’80 e ’90 ha lasciato molti paesi sconcertati dai pericoli dell’eccessivo debito in dollari e dai pericoli che i rialzi dei tassi d’interesse statunitensi possono scatenare.
Ma una delle conclusioni che molti paesi hanno tratto da questi episodi è stata la necessità di detenere maggiori riserve in dollari come baluardo contro gli shock. Tra il 2000 e il 2005, dopo due decenni di crisi spesso innescate dall’aumento dei tassi d’interesse in dollari, i mercati emergenti hanno accumulato riserve in dollari al ritmo record di circa 250 miliardi di dollari all’anno, pari al 3,5% del PIL, un livello cinque volte superiore a quello dei primi anni Novanta.
In altre parole, i paesi rispondevano agli shock provenienti dal regno del dollaro aumentando le disponibilità di dollari. Questo non fa che sottolineare la natura del modo in cui il rischio legato al dollaro veniva percepito all’epoca. Semplicemente non si pensava che una maggiore esposizione al dollaro fosse di per sé un rischio.
L’idea che centinaia di miliardi di dollari di riserve potessero essere semplicemente confiscati se un Paese si fosse trovato in contrasto con i supervisori del sistema non rientrava in nessuna equazione.
L’armamento del dollaro negli ultimi anni ha introdotto una fonte di rischio prima inimmaginabile. Il fatto che ora ci sia un premio per il rischio politico nell’utilizzo del dollaro è già una grave deviazione da come la valuta è stata vista per decenni. Le conseguenze di questa situazione sono già sotto gli occhi di tutti – la diffusa tendenza alla de-dollarizzazione – anche se molti nei palazzi del potere occidentale continuano a ignorare ciò che sta accadendo.
Ma forse ancora più insidioso è che coloro che sostengono il sequestro delle riserve russe hanno stravolto un principio fondamentale dell’intera idea liberale. La cosa migliore è pensare che si tratti di una confusione tra risultati e processi. Una società liberale o un sistema basato sullo stato di diritto – chiamatelo come volete – si tiene insieme non perché tutti sono d’accordo sui risultati e sulle politiche, ma perché c’è un consenso sull’insieme dei processi e delle regole con cui quei risultati e quelle politiche vengono attuati. I processi e le regole non esistono per garantire particolari risultati e, di fatto, possono produrre risultati che sono in contrasto con gli interessi di coloro che presiedono a tali regole.
Con il piano di confisca dei beni russi, quello che vediamo è un risultato desiderato che viene sbandierato come un atto compiuto in difesa dell’ordine liberale (punire la Russia che calpesta i valori liberali e sostenere l’Ucraina aspirante alla democrazia liberale), mentre l’integrità dei processi è ora del tutto secondaria. Poiché l’esito desiderato non emerge da alcuna applicazione ragionevole dei processi esistenti, ciò che si cerca è un’interpretazione radicalmente diversa di tali processi.
Quando i funzionari occidentali chiedono di trovare “un modo legale” per confiscare i beni, in realtà intendono dire che il risultato è fondamentale e che qualsiasi foglia di fico legale andrà bene.
In parole povere, l’ordine liberale non viene più difeso facendo appello ai suoi principi più profondi, ma cercando di sostenere risultati che superficialmente sembrano promuovere i suoi interessi, anche se tali risultati emergono da un approccio decisamente illiberale.
Quando questa distinzione estremamente critica subisce una corrosione, come sta accadendo ora, la sfida consiste nel vedere il cambiamento più profondo non in termini di un risultato diverso, ma in termini di una trasformazione dei processi che producono il risultato. Per gli esperti di quantistica, si pensi al controllo statistico dei processi, in cui si cerca di determinare se un processo è rimasto all’interno delle specifiche o ha subito una sorta di cambiamento.
Il filosofo spagnolo del XX secolo Jose Ortega y Gasset ha descritto l’ascesa alla ribalta nella civiltà occidentale di un certo tipo di persona che dà per scontate le istituzioni che ha ereditato e che presiede, godendo dei loro benefici e pensando poco a come sono nate e a cosa bisogna fare per mantenerle. Ortega ha paragonato una persona del genere a un bambino viziato o a un aristocratico ereditario. Ignorando la fragilità della sua eredità e confidando in se stesso, inevitabilmente porta al degrado delle stesse istituzioni che gli sono state affidate.
Questa è l’essenza dell’attuale classe dirigente occidentale, in particolare di quella di Washington. Nati per lo più nei decenni immediatamente successivi alla Seconda guerra mondiale, essi danno per scontata la supremazia dell’ordine liberale basato sulle regole e della sua ala economica – il sistema finanziario basato sul dollaro. Parlano di questo ordine mondiale non con riverenza e con una profonda comprensione delle sue radici, ma con cliché emotivamente carichi ma vacui. Pur traendo grandi benefici dall’ordine liberale, mostrano scarso interesse per i principi reali che si pretende siano alla sua base. Lo invocano costantemente, ma soprattutto per colpire i vari nemici e avversari.
Un recente articolo del New York Times, a firma di Bret Stephens, intitolato “Come Biden può vendicare la morte di Navalny“, elenca il sequestro dei 300 miliardi di dollari di fondi congelati in Russia come una potenziale strada da percorrere per mettere in pratica l’avvertimento che Biden aveva lanciato al presidente russo Vladimir Putin nel 2021 sulle conseguenze “devastanti” della morte del leader dell’opposizione in carcere.
Stephens accenna alle preoccupazioni che una tale mossa possa innescare una fuga dal dollaro, ma conclude che tale argomentazione “potrebbe altrimenti essere persuasiva se la necessità di salvare l’Ucraina e punire la Russia non fosse più urgente”. In altre parole, lo stesso sistema del dollaro su cui gli Stati Uniti fanno affidamento per ciò che resta della loro prosperità può essere sacrificato sull’altare del gesto simbolico di, come dice Stephens, perseguire
“l’imperativo strategico di dimostrare a un dittatore che le minacce americane non sono vuote”.
Janet Yellen, paladina dell’ordine globale liberale se mai ce n’è stato uno, in recenti commenti ha respinto le minacce che il sequestro delle riserve russe rappresenterebbe per il sistema stesso. È “estremamente improbabile” che il sequestro dei fondi possa danneggiare la posizione del dollaro perché “realisticamente non ci sono alternative”, ritiene la Yellen. Per la Yellen, il suo sostegno segna un’inversione di rotta rispetto alla sua precedente opinione secondo cui una simile mossa non era “legalmente ammissibile negli Stati Uniti”. Ma i venti sono cambiati e il caso legale sembra essere più promettente.
Questa è l’insensibilità prevalente tra la classe dirigente. Come un re che sta per essere deposto che dà per scontata la permanenza della monarchia, i leader di oggi semplicemente non riescono a contemplare realmente ciò che costituisce il vero fondamento del sistema che presiedono.
Ma c’è qualcos’altro in gioco.
È bene ricordare innanzitutto cosa ha animato la discussione sul sequestro dei beni russi nelle ultime settimane: il panico per l’esaurimento dei fondi destinati alla guerra per procura dell’Ucraina contro la Russia, che sta chiaramente fallendo. In altre parole, nonostante i toni sicuri di personaggi come la Yellen, il piano non nasce da una posizione di forza. La volontà di compiere un passo così pericoloso per obiettivi a brevissimo termine (mettendo da parte la questione se 300 miliardi di dollari possano salvare il progetto ucraino dell’Occidente) può essere vista come una sorta di incendio dei mobili come ultima risorsa per rimanere al caldo – puzza di disperazione.
Possiamo quindi affermare che il tipo di pensiero che guida la spinta a sequestrare i beni russi deriva dalla sicurezza di sé di cui parla Ortega, ma anche da un’ansia crescente. La prima è dovuta all’apparente fiducia dei leader occidentali nell’indistruttibilità delle istituzioni che in realtà stanno minando; la seconda è dovuta al fatto che stanno affrontando una cascata di crisi e sono sempre più frenetici nel cercare soluzioni provvisorie a qualsiasi costo a lungo termine.
L’inversione dei risultati e dei processi di cui abbiamo parlato in precedenza è un’altra manifestazione di questa mentalità essenzialmente schizofrenica. C’è la convinzione che il sistema possa resistere a tali colpi alla sua integrità: i beni possono essere rubati e le regole sovvertite, ma il dollaro sarà sempre in cima. Eppure l’atto di subordinare i processi ai risultati è esso stesso un riflesso del timore che il sistema sia troppo fragile per resistere a esiti indesiderati. Se la Russia che mantiene il possesso dei suoi 300 miliardi di dollari di riserve è un risultato troppo pericoloso per la sopravvivenza dell’ordine liberale, allora le cose si mettono male.
Questi due tratti apparentemente inconciliabili – sicurezza di sé e profonda ansia – si trovano spesso a coesistere tra coloro che occupano posizioni di potere e che cercano di aggrapparsi allo status quo in tempi di cambiamenti epocali.
È ciò che spinse l’arrogante e sprovveduto leader rumeno Nicolae Ceausescu a convocare una grande manifestazione a Bucarest nel 1989, che si sarebbe rivelata la sua definitiva rovina. Gli storici potrebbero guardare all’arrogante e sprovveduta Janet Yellen e a Rishi Sunak come a personaggi intrappolati in processi storici che non potevano né comprendere né controllare.
Tradotto dall’inglese da Piero Cammerinesi per LiberoPensare
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