Eravamo già green, prima che diventasse una scusa per depauperare
di Gerarda Monaco
La nostra Costituzione, conformemente al sentimento del periodo storico in cui fu redatta, non includeva un esplicito riferimento all’ambiente. Non era la sola Carta a rimanere tacita su tale materia, dal momento che nemmeno nelle Costituzioni antecedenti o ad essa contemporanee si rinveniva un richiamo espresso all’ambiente. In Italia, questo apparve in occasione della riforma del Titolo V, parte II, con la legge Cost. n. 3/2001. Si trattava, nondimeno, della previsione del riparto di competenze e non dell’affermazione della necessità della tutela ambientale nello svolgimento delle attività dell’uomo.
Nonostante questa apparente lacuna, la Costituzione del 1948 diede prova della sua capacità di prendersi cura dell’ambiente, facendo leva sui principi che già la componevano. Le interpretazioni della Corte costituzionale sensibili alla preservazione dell’ambiente si imperniarono, in primis, sul principio di solidarietà di cui all’art. 3, co. 2 Cost. Altresì, si garantì la tutela ambientale mediante altre norme costituzionali, come l’art. 9 Cost., ancor prima che fosse revisionato, il quale si prefiggeva già la tutela del paesaggio e del patrimonio storico e artistico della nazione; esso permise di esaltare il valore costituzionale dell’ambiente, definendolo come l’ambiente naturale modificato dall’uomo. Ancora, l’art. 32 Cost., nel quale il diritto alla salute è sancito come “diritto fondamentale” e “interesse della collettività”, fu determinante per assicurare la tutela dell’ambiente. Si può, dunque, mettere in luce che all’ambiente fu riservato un trattamento da valore costituzionalmente garantito e protetto, al pari di quelli espressamente richiamati.
Addirittura, nel 1987, in un periodo decisamente antecedente all’ingresso del termine “ambiente” nella Costituzione, trentacinque anni prima che questo fosse introdotto nella cosiddetta Costituzione economica, la tutela ambientale fu inclusa dai giudici della Consulta tra i limiti posti all’esercizio dell’iniziativa economica e del diritto di proprietà, proprio come la sicurezza e la funzione sociale, cui la Carta esplicitamente si riferiva (Sentenza della Corte costituzionale n. 641/1987). Ancora, può citarsi la sentenza ILVA della Consulta, la n. 58/2018, secondo cui ai sensi dell’art. 41 Cost., l’iniziativa economica si deve esplicare sempre in modo da non recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana, eliminando prontamente i fattori di pericolo per la salute, l’incolumità e la vita dei lavoratori. Potrebbe obiettarsi che si tratta di una prospettiva esclusivamente antropocentrica, ma, come si proverà ad argomentare più avanti, così non è.
Si è giunti, poi, alla legge costituzionale n. 1 dell’11 febbraio 2022. Il legislatore è intervenuto sui principi fondamentali, aggiungendo all’art. 9 un secondo comma, nel quale assicura di garantire “l’ambiente, la biodiversità e gli ecosistemi, anche nell’interesse delle future generazioni”; altresì, ha effettuato una modifica dell’art. 41 Cost., commi 2 e 3, andando a inserire “l’ambiente e la salute” per integrare gli originari limiti alla iniziativa economica privata; inoltre, “i fini ambientali” si trovano ora insieme a quelli sociali, fini cui indirizzare e coordinare l’attività economica pubblica e privata.
Tra le varie critiche che in dottrina sono apparse a tal riguardo, si vuole, in questa sede, porre l’accento su quella che sostiene che la nuova formulazione degli artt. 9 e 41 Cost sia la suggellazione normativa del ribadito consolidato orientamento giurisprudenziale che si è poc’anzi richiamato, già di per sé bastevole quanto alla protezione dell’ambiente.
Questa tesi appare condivisibile, giacché la Consulta ha saputo egregiamente operare un contemperamento tra beni e valori contrapposti, pur nel silenzio della Costituzione. L’ambiente, nelle pronunce della Consulta, non è mai stato degradato, umiliato, sacrificato sull’altare del libero mercato, ma ha sempre trovato il suo spazio dignitoso, tanto da essere ritenuto un interesse primario già nel 1993 (sentenza della Corte costituzionale n. 365/1993).
In virtù di ciò, si potrebbe azzardare parlando di “populismo ambientale”. I sociologi del diritto, come discorrono di populismo penale (J. Pratt, 2006), intendendo con questo il fenomeno secondo cui il legislatore introduce nuove fattispecie penali, ridondanti rispetto a quelle già tipizzate, per il solo fatto di assecondare un certo sentire comune, di fare leva su una visione collettiva che si vuole sfruttare per finalità politiche. Analogamente, si potrebbe, dunque, leggere questa riforma come sintomo del “populismo ambientale”, di una volontà di accontentare i promotori dell’ideologia ambientalista, per fini elettorali, per ribadire un certo andamento che si è scelto di inseguire, senza una reale necessità di legiferare a livello costituzionale, senza delle effettive conseguenze positive, ulteriori, per l’ambiente.
La Corte aveva definito l’ambiente e la salute come “valori primari”, si anticipava, ma questo, si badi bene, non ha mai costituito il segno di una gerarchia tra diritti fondamentali, occorrendo, al contrario, “un continuo e vicendevole bilanciamento tra princìpi e diritti fondamentali, senza pretese di assolutezza per nessuno di essi” (Sentenza della Corte costituzionale n.58/2018). L’ambiente, perciò, è da ritenersi un valore primario, sì, ma non gerarchicamente sovraordinato.
Tuttavia, come osservato da alcuni giuristi, questa riforma della Costituzione, includendo esplicitamente i beni della salute e dell’ambiente tra i limiti che comprimono l’iniziativa economica, potrebbe condurre a un superamento del bilanciamento tra l’ambiente e l’iniziativa economica privata. L’inclusione dell’ambiente nell’alveo dei limiti potrebbe provocare, in caso di scontro tra questi due valori costituzionalmente tutelati, la soccombenza della libertà d’iniziativa economica privata in favore della tutela ambientale. La modifica degli artt. 9 e 41 potrebbe, quindi, costituire il fondamento per il raggiungimento della primazia dei valori ecologici, promuovendo il passaggio da una dimensione antropocentrica a una ecocentrica (G. Chiola, 2022).
La stessa visione traspare dal Green deal europeo, in base al quale le istituzioni dell’Unione europea si sono impegnate ad eseguire un nuovo contemperamento tra la concorrenza e le prerogative collegate alla lotta ai cambiamenti climatici, un contemperamento che indurrebbe a rimodellare il rapporto tra ambiente e mercato tanto da sconfinare nella “primazia ecologica” rispetto agli interessi economici e sociali (E. Chiti, 2022).
Questo, secondo chi scrive, sarebbe pericoloso. Un ambiente vergine, immacolato, intonso è antitetico all’azione umana. Questa, sebbene, secondo certi obiettivi, si pensi di poterlo perseguire, non può avere un impatto zero sull’ambiente. Dovremmo scomparire per consentire all’ambiente il suo imperio. Tutto ciò che è di produzione umana, infatti, lascia un’impronta sul mondo che ci circonda. Minore, o più calcata, indelebile o reversibile, ma la imprime. Mettere al centro l’ambiente, degradando la centralità dell’uomo significherebbe il regresso, la deindustrializzazione (peraltro, già in corso), il depauperamento. Il perseguimento della visione ecocentrica, francamente, appare irraggiungibile, ma già solo una tensione verso di essa determinerebbe il superamento delle dinamiche che ci hanno condotti a un relativo benessere. A tal proposito, può citarsi il rapporto dell’agenzia Moody’s dell’ottobre 2021, il quale delinea prospettive preoccupanti legate alle nuove politiche ambientali. La volontà espressa dal Green Deal europeo di ridurre le emissioni nette di gas serra del 55% entro il 2030, ad esempio, colpirà duramente le compagnie aeree e di navigazione, con più onerosi costi operativi e maggiori investimenti per tutte quelle imprese ad alta intensità energetica: ne discenderà un incremento esponenziale dei costi che si riverserà sui consumatori, i quali affronteranno una spesa maggiore per ottenere i medesimi servizi. Le modifiche al mercato delle emissioni, poi, cagioneranno un aumento del prezzo del carbonio: il valore dovrebbe superare i 90 euro a tonnellata entro il 2030, contro i 60 euro del 2021. Più recentemente, nel mese di marzo 2024, la Banca centrale europea, istituzione UE, ha avvisato che il rendimento delle imprese potrebbe addirittura calare di un terzo in cinque anni a cause delle misure green. Ad avere l’impatto maggiore sarebbero i limiti regolatori alla produzione di CO2, i quali minerebbero la produttività, pesando considerevolmente sulle imprese europee.
Eppure, nella visione antropocentrica risiederebbe già la soluzione ottimale. L’uomo, per vivere, per stare bene, ha bisogno di un ambiente salubre, in cui possa respirare aria pulita e in cui l’acqua sia potabile. Mettendo in pratica veramente questa semplice consapevolezza, proseguendo col bilanciamento che rifugge la tirannia di un interesse su un altro, si potrebbero, quindi, migliorare le condizioni del Pianeta, senza inseguire utopie/distopie lesive dei diritti economici e sociali, come la recentissima direttiva Epbd (Energy performance of buildings directive), la quale ha superato la precedente, risalente al 2010.
Il 12 marzo 2024, infatti, il Parlamento europeo ha approvato le nuove norme finalizzate alla riduzione del consumo energetico e delle emissioni di gas a effetto serra nel settore edilizio. In relazione al quadro che emerge da questa normativa, possono sollevarsi dei profili di critica, in particolare, per quanto concerne gli oneri che andranno a incombere sui privati. Essi, infatti, saranno chiamati a sopportare costi parecchio ingenti per rendere gli edifici di loro proprietà conformi alle nuove disposizioni. Sorge il dubbio che non tutti saranno in grado di ottemperare. Molti dovranno ricorrere a prestiti finanziari per poterlo fare, ma non è certo che questi verranno accordati e con tassi di interesse non eccessivi. Ci si deve, pertanto, interrogare sulla sorte degli edifici per cui gli interventi di adeguamento non risulteranno sostenibili dal punto di vista economico. Essi potrebbero finire per diventare oggetto di svalutazione ed essere minacciati da fenomeni speculativi. La proprietà privata potrebbe, dunque, essere messa seriamente a repentaglio. Occorre rammentare che, ai sensi dell’art. 42 Cost., la legge “determina i modi di acquisto, di godimento e i limiti allo scopo di assicurarne la funzione sociale e di renderla accessibile a tutti”. Si osservi bene: deve essere assicurata la funzione sociale, ma, al contempo, la proprietà deve essere prerogativa della totalità dei consociati. Se è vero che nella tutela ambientale su cui si fonda la direttiva europea in questione si potrebbe cogliere la funzione sociale, specialmente alla luce della recente revisione costituzionale, occorre, altresì, considerare che, scaricando sui proprietari di immobili (tra cui, è bene evidenziare, anche le cosiddette prime case) oneri molto corposi, si rischia che l’accessibilità, costituzionalmente riconosciuta a tutti, alla proprietà, diventi, all’opposto, un fatto di pochi.
È forse proprio questo che si cela dietro le politiche green. Il depauperamento come accettabile effetto collaterale, o forse proprio una finalità; un accentramento di ricchezza mascherato da attenzione alla causa ambientale. Urge rifletterci su.
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