Politicamente corretto e cancel culture: gli ospiti inquietanti dell’inclusione scolastica
DA GAZZETTA FILOSOFICA (Di Salvatore Grandone)
Come tante altre realtà culturali, anche la scuola italiana sta vivendo i contraccolpi dell’esposizione mediatica, soprattutto sulle piattaforme social. Le dinamiche proprie del politicamente corretto e della cancel culture iniziano a entrare nelle classi con conseguenze rilevanti sul benessere della comunità educante.
L’inclusione è il valore fondamentale dell’odierna scuola italiana. Formulato con un imperativo categorico suonerebbe così: “abbraccia la differenza!”.
Dietro l’inclusione vi è infatti l’idea che la differenza vada compresa, riconosciuta, accolta, che la differenza sia una risorsa. La questione dell’inclusione è stata posta nel nostro mondo scolastico a partire dalla necessità di trovare strategie di apprendimento personalizzate per i “Bisogni educativi speciali” (D.M. MIUR 27.12.2012). In origine, all’interno di questa macrocategoria rientravano gli alunni con disabilità, con disturbi specifici dell’apprendimento o con particolari forme di neurodivergenza. Un po’ alla volta si è sempre più ampliata la casistica, comprendendo gli studenti plusdotati, quello neoarrivati in Italia, ecc.
Non è questa la sede per analizzare sul piano normativo l’evoluzione delle direttive ministeriali. Quello che è interessante osservare è la progressiva estensione del concetto di bisogno educativo speciale in modo coerente rispetto al valore sotteso (l’inclusione). Se ogni differenza va tutelata, allora ogni alunno incarna con la sua stessa presenza una propria specialità. “Siamo tutti speciali!”, questo è infatti un altro motto dell’inclusione scolastica.
Sul piano teorico il discorso è coinvolgente; su quello pratico ha prodotto però esiti ambigui. È evidente che l’enfasi sull’inclusione avrebbe dovuto condurre a un’offerta educativa variegata e di qualità. Tuttavia, è innegabile che molte contraddizioni persistono. Sono pochi i docenti realmente formati – soprattutto “in concreto” – a rispondere in modo adeguato alle esigenze della specialità. In ogni caso, le classi sono mediamente sovraffollate e anche i docenti più competenti avrebbero grandi difficoltà a mettere in essere una didattica personalizzata.
Gli effetti più visibili della politica dell’inclusione scolastica non vanno allora tanto cercati sul versante formativo. Qui si è ancora in pieno contingentismo. In alcuni contesti, grazie alla presenza fortuita di determinati elementi (circoli virtuosi tra dirigenti, docenti, studenti, famiglie, ecc.), l’inclusione riesce; in molti altri, in condizioni più tipiche e medie, i risultati lasciano a desiderare.
Tangibili sono invece i risvolti burocratici e retorici. Affinché l’inclusione sia recepita ovunque, dalla piccola scuola di montagna al liceo storico della grande città, occorre individuare, elencare, riportare le differenze; è necessario indicare con appositi documenti le strategie adottate dalle istituzioni scolastiche o dai singoli gruppi di docenti (ad esempio dai consigli di classe) per venire incontro alle molteplici specialità. Parallelamente, da parte dei pedagogisti, dei politici, dei docenti formatori e di quelli social – negli ultimi anni in rapida ascesa – la politica dell’inclusione si dispiega in discorsi che appaiano più retorici che programmatici.
Dalla “riflessione” sull’inclusione si sta passando gradualmente alla “retorica” dell’inclusione. Alla persistente incapacità di far corrispondere alle idee i fatti, le prime hanno preso il sopravvento sui secondi: l’ideale tende a sovrastare il reale.
Una delle derive più inquietanti della svolta retorica del discorso sull’inclusione è l’insorgenza nel mondo scolastico di due fenomeni che da anni imperversano sui media: il politicamente corretto e la cancel culture.
Per mostrare quanto sta accadendo è utile prendere spunto da un recente evento di cronaca.
Pochi mesi fa una docente di lettere di una scuola media di Treviso avrebbe deciso autonomamente di dispensare due studenti di fede non cattolica, un musulmano e un buddista, dallo studio di Dante e in particolare della Divina Commedia. Appena la notizia è giunta sui social subito è entrata in azione la macchina della vergogna. I primi a sollevarsi sono stati i docenti influencer che hanno fatto rimbalzare l’informazione sulle loro pagine con post e reel polemici inneggiando al “Dante non si tocca!”. Con il peso delle community che ripostano e retwittano, la bolla speculativa dell’indignazione è cresciuta rapidamente fino ad attirare l’attenzione dell’Ufficio scolastico regionale e del Ministro Giuseppe Valditara. Si è parlato anche di una possibile sanzione nei confronti dell’insegnante.
L’aspetto interessante di questa vicenda è la sua logica interna. Invece di prendere posizione “pro” o “contro”, ricorrendo alla tipica arma social dello stigma, proviamo a cogliere quello che vi è “dietro”.
La retorica dell’inclusione ha iniziato a diffondere tra i docenti un acuto senso di incertezza. L’attenzione si è spostata sulla forma, soprattutto sull’uso delle parole. Ed è proprio l’accento marcato sul linguaggio che apre la strada alle dinamiche del politicamente corretto. Eugenio Capozzi definisce il politicamente corretto come «un’incarnazione estrema del progressismo, fondata su un relativismo etico radicale, e su un’idea altrettanto radicale dell’autodeterminazione del soggetto» (Politicamente corretto. Storia di un’ideologia).
Certo nel calderone del politicamente corretto, come osserva un altro esperto sul tema Davide Piacenza, vi sono anche forze positive che spingono per la «maggiore considerazione dei più deboli, dei senza voce e di coloro che fino a tempi recenti hanno subito tirannie e oppressioni» (La correzione del mondo. Cancel culture, politicamente corretto e i nuovi fantasmi della società frammentata).
Tuttavia, la prassi del politicamente corretto ha portato, continua Piacenza, alla «creazione di una società disseminata di trappole comunicative incrociate».
Qui si congiungono le strade dell’inclusione e del politicamente corretto: la retorica della specialità sta conducendo l’inclusione nelle sabbie mobili delle trappole comunicative. Se la differenza, qualunque essa sia, è irriducibile e intoccabile, allora come tracciare il confine che delimita la personalizzazione dell’apprendimento? Quali limiti gli insegnanti non possono varcare nel rispondere ai bisogni educativi degli studenti?
La questione non è affatto retorica, anche perché molti docenti – soprattutto se vediamo quanto accade all’estero – si giocano il posto di lavoro e a volte anche di più. Penso all’insegnante francese di Storia Samuel Paty che nel 2020 ha pagato con la vita l’aver mostrato in classe alcune vignette satiriche su Maometto – nonostante abbia chiesto agli studenti musulmani di uscire prima di far vedere le caricature. O ancora, nel 2023, l’insegnante della Florida, Carrasquilla, della Classical School di Tallahassee costretta alle dimissioni per aver proiettato le immagini del David di Michelangelo. I genitori degli alunni hanno giudicato le raffigurazioni del David pornografiche e hanno fatto pressione sulla dirigenza affinché la docente fosse allontanata.
Certo, si dirà, di fronte a questi eventi più o meno gravi, si muove la macchina dell’indignazione per sanzionare e condannare. Ma, attenzione, il corollario del politicamente corretto è la cancel culture. Si tratta di un’espressione ambigua che «assume diversi significati all’orecchio di parlanti diversi» (Ivi).
« Nella sua versione meno contestabile […] la possiamo definire come quella tendenza a chiedere che una rappresentazione di idee o atteggiamenti contrari alla morale progressista occidentale corrente non sia soltanto criticata o denunciata in un discorso pubblico orientato al progresso etico della società, ma vada punita con la decadenza da ogni ruolo e piattaforma (anche privati o professionali) del responsabile, spesso sull’onda di forme di pressione collettiva nate su Twitter e altri social network. » (Ivi)
Chi non sa destreggiarsi nelle trappole comunicative corre il rischio di essere esposto alla gogna mediatica e di essere “cancellato”.
Non solo, la cancel culture si trasforma spesso in strumento di condanna della destra conservatrice, che vede come una minaccia all’identità nazionale qualsiasi proposta di accogliere la differenza. Può allora accadere che chi fa un passo falso nel politicamente corretto si ritrovi ad essere difeso da gruppi di persone che non vorrebbe dalla sua parte.
Insomma, la retorica dell’inclusione e la “socializzazione” della scuola sta esponendo la comunità educante all’insidia del politicamente corretto e della cancel culture. Si ha sensazione che la scuola italiana sia entrata in una nuova fase dove la finzione e la dimensione mediatica hanno un peso maggiore rispetto alla realtà. In questa situazione di incertezza i docenti sono sempre più esposti agli strali di chi, per un pugno di followers e di like, è disposto subito a insorgere contro tutto e contro tutti.
Ecco come la normale quotidianità scolastica diventa un campo minato. Oggi è andata bene, perché non ho dispensato un alunno musulmano dallo studio di Dante. Ma domani potrebbe andarmi male perché ingenuamente mostro un’immagine del David di Michelangelo. E se sono ancora fortunato, chi mi assicura che un domani non potrei avere problemi per altro, magari per aver letto dei versi di un poeta in cui è contenuta qualche parola non politicamente corretta?
Certo, la scuola in Italia è in prevalenza statale e i docenti hanno garanzie che in altri Paesi, come ad esempio negli Stati Uniti, non hanno. Eppure, la convergenza dei fattori appena esposti a cui va aggiunta la tendenza ad aziendalizzare le realtà scolastiche, con il relativo ingresso di attori privati, potrebbe in futuro costituire un cocktail esplosivo in grado di minacciare la qualità della nostra offerta formativa e la libertà stessa di insegnamento.
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