Francia: i punti di crisi
di DOPPIOZERO (David Bidussa)
Il richiamo del “respiro di sollievo” è stata una forte tentazione in questi giorni nello schieramento di sinistra (l’indicatore più evidente sono state le scene di festa nelle piazze di Francia nella serata di domenica 7 luglio, quando si definiva la proporzione e i numeri degli eletti).
Il voto francese ci ha fatto riconoscere la Francia che amiamo, è stato detto. Un segnale positivo da mettere insieme al risultato del voto britannico. Capisco la reazione, ma l’analisi non mi convince. Il quadro mi sembra invece molto più complicato e soprattutto non contrassegnato da un gioco a somma zero: una parte vince/l’altra perde.
Potremmo chiederci per esempio: quel voto modifica la sostanza di un indirizzo che assume le sfide del clima come un tema su cui costruire un’agenda politica pubblica? Improbabile, perché ne esce rafforzato il quadro di scetticismo che ha sostenuto le politiche governative francesi in merito al “Green Deal” negli ultimi anni, che non può essere – come è stato sottolineato da Giorgio Brizio nel suo Per molti anni da domani (Bollati Boringhieri) – solo un programma di restrizioni, ma deve assumere quella sfida legata alle questioni di democrazia connesse con le questioni di genere, con i flussi migratori e gli spostamenti da aree a rischio nel sud del mondo. Un’agenda che allude non solo a un programma di governo, ma alle sfide che l’Europa complessivamente ha di fronte e che se ci limitiamo a considerare le linee di tendenza uscite dalle elezioni europee di inizio giugno, sembrano andare in direzione ostinatamente contraria ai dati elettorali francesi. E in ogni caso quell’agenda non è condivisa dal fronte vasto antilepenista che ha dato prova di esistere, alla sfida del 7 luglio.
Dunque, forse serve fermarsi un attimo e cogliere sia quel dato che indica un elemento di positività, ovvero il comportamento elettorale al secondo turno, sia, soprattutto, i molti punti critici che emergono da quel risultato complessivo.
Il quadro che esce dalle elezioni politiche francesi di domenica 7 luglio, all’indomani del secondo turno ha un dato su cui sarebbe stato difficile credere fino a sabato sera 6 luglio: coloro che si sono ritirati tra esponenti di “Nouveau Front Populaire” e di “Ensemble” per non incorrere nella eventualità che la possibilità di scegliere tra tre candidati si risolvesse nel dare un vantaggio al candidato del “Rassemblement National”. Lo scetticismo di un voto per un mondo lontano percepito come avverso, ma non alternativo, dunque, domenica 7 luglio ha fatto un passo indietro e questo dà un valore politico pubblico altissimo a una sfida che rischiava di trasformare tutto in un confronto, perdendo di vista quello che era e che rimane il nemico alternativo, ovvero l’«altra Francia».
Dato rilevante, certamente molto importante, ma che da solo non elimina né riduce le questioni – qui ne affronto sommariamente tre: una di sistema; una di schieramento; una di cultura – che, invece, indicano e individuano una crisi politica profonda, foriera di gravi conseguenze proprio se accantonata o taciuta in nome del «mancato pericolo».
Crisi di sistema
È la Quinta Repubblica ad uscire stravolta, se non compromessa, certamente da ripensare profondamente. Da due punti di vista: intorno al sistema del bipolarismo e intorno agli effetti del voto. Le due questioni sono tra di loro connesse. La Quinta Repubblica nasce come risposta alla crisi della Quarta (1946-1958) un sistema fondato sulla democrazia dei partiti politici, un sistema elettorale che si fondava sulla multi partiticità e soprattutto sui sistemi di coalizioni in base alle possibilità duali del centro di costruire maggioranze. L’idea della Quinta Repubblica era essenzialmente quella non solo di esprimere una governabilità estraibile direttamente dal dato uscito dalle urne, ma anche di dare struttura al partito politico come luogo di formazione di una classe dirigente (la Quinta Repubblica nasce da una crisi che travolge i partiti politici usciti dal secondo dopoguerra).
Questo è il primo dato su cui misurare la crisi francese: l’offerta politica che si è prodotta in queste settimane tendeva a premiare le ali estreme più che la possibilità di coalizione. Consolidava e confermava uno spezzettamento delle grandi famiglie politiche a vantaggio di strutture politiche estreme.
Crisi di schieramento
La nascita del Nouveau Front Populaire non ha definito un programma concordato, una piattaforma di parole d’ordine e di obiettivi minimi. Ricordo che se le esperienze del passato a cui si dice di ispirarsi hanno un fondamento, lo hanno non solo per la storia che rappresentano, ma anche per la parabola che descrivono.
Quando nella primavera del 1934 inizia a prendere corpo l’idea di superare la conflittualità tra comunisti e socialisti fino ad arrivare alla firma del patto d’unità d’azione (27 luglio 1934) e poi a decretare una piattaforma unitaria dei sindacati (CGT a maggioranza socialista e CGTU a ispirazione comunista) all’inizio del 1936, è questa possibilità che porta alla vittoria elettorale del cartello del Fronte popolare (il nome della lista era “Rassemblement populaire”) alle elezioni (26 aprile-3 maggio 1936). Quel cartello si sostiene su un programma al centro del quale stanno essenzialmente tre punti che tornano a fare rima nella Francia odierna. Nello specifico: il rifiuto del pericolo di guerra; le politiche sociali di welfare in contrasto rispetto alle linee di intervento segnate dai governi di centro destra che hanno governato la Francia tra 1932 e 1935; le politiche di assorbimento e di regolarizzazione di un flusso migratorio che è sia sociale che politico e che vede la Francia investita di una funzione di baluardo della democrazia all’indomani dell’espansione dei fascismi oltreché in Germania, in Austria, Portogallo (senza contare quelli tradizionali dall’Italia, in aumento dal 1926).
Ma avere un programma è un presupposto. Non è di per sé una garanzia. Quel programma incontra forti ostacoli, tant’è che il governo cade nel maggio 1937 e il fronte popolare si dissolve nell’autunno 1938 (all’indomani del Patto di Monaco, ovvero quando i territori dei Sudeti abitati da tedeschi, vengono ceduti da Francia e Gran Bretagna alla Germania nazista con la regia del tavolo del fascismo italiano).
Questo per dire che avere un programma, per quanto sia una condizione necessaria non costituisce di per sé una condizione sufficiente. Che dire allora del fatto che a oggi il Nouveau Front Populaire è un nome, ma non è un programma? Ovvero evoca un passato ma non delinea un futuro. Più precisamente: non fa i conti con l’epilogo di quel passato?
La sollecitazione che Thomas Piketty, rivolgendosi al campo largo della sinistra e dei democratici, ha esposto su “Le Monde” sabato 13 luglio, è stata a formulare un programma economico rinnovato che parli al paese: abrogazione della legge sul pensionamento e l’aumento dello SMIC (salaire minimum interprofessionnel de croissance, ovvero salario minimo orario lordo), insieme alle proposte sul sistema educativo e scolastico, la sanità, i servizi pubblici e le case. Sono temi che evocano il piano economico del programma del Fronte popolare di 90 anni fa. Concretamente, si tratta di un aumento della spesa pubblica fino al 2025 di 100 miliardi di euro e di 150 fino al 2027 (quando ci saranno le elezioni per l’Eliseo). Tutto questo in un paese attualmente al 110% di deficit sul Pil (ricordo che nel 1936 il deficit era pari al 20%).
L’invito di Piketty è esplicito: smettere di fare i giochi di rimessa sulle nomine, concentrandosi sulle sfide. Il che conferma il vuoto a sinistra: occorre un progetto, concreto. Questo progetto non c’è.
Crisi di cultura
La sfida della Francia di oggi (comunque non solo sua, ma di tutte le realtà politiche europee) è quella di una della convergenza tra la conferma del carattere laico dello Stato secondo la legge della laicità varata nel 1905 che implica una rigida separazione tra sfera pubblica e sfera privata, tra sfera del principio educativo e cultura e appartenenze fortemente connotate da pratiche di osservanza religiosa che attraversano la società francese.
Un tema e un problema che nel quadro francese sono aperti dagli anni ’80 non solo per le migrazioni interne, ma anche rispetto alle inquietudini interne e ai malesseri che passano in settori non marginali presenti all’interno del mondo cattolico francese. A quel fascino non è estranea la presenza di un richiamo anticonciliare che ha i suoi fondamenti nella versione nazionalistica della Francia di Vichy e nel supporto da una parte consistente del mondo cattolico francese, non solo della “provincia” ma anche nei centri urbani. Una realtà che si spacca all’indomani della Seconda guerra mondiale tra una componente che poi darà un contributo non indifferente alla riflessione del Concilio vaticano II e una parte che invece rimane attratta dal tradizionalismo e che diventa profondamente anticonciliare.
Al fondo di quella spaccatura sta una dimensione mai definitivamente risolta non solo nel mondo cattolico francese – che ricordo non è una minoranza tra le tante – tra Francia vocata all’accoglienza in nome dei grandi principi dell’‘89 e Francia che sente la necessità di ritrovare una propria identità. In questa spaccatura sta uno dei criteri che spiegano non solo la nascita del Front National di Jean Marie Le Pen nel 1972, ma anche la riscrittura di una parte dell’identità del movimento nel tempo di Marine Le Pen.
Per concludere, sabato 13 luglio, nel suo discorso all’esercito per il 14 luglio, Emmanuel Macron ha riaffermato il senso dell’esercito come fondamento della libertà. Dunque: coesione nazionale, richiamo alla disciplina, esercito come forza morale della nazione. Si è più volte riferito alla crisi ucraina, e sullo sfondo stava anche l’eco del prossimo anniversario della liberazione di Parigi dall’occupante tedesco (19-25 agosto 1944).
A chi parla questo messaggio? L’eco a sinistra è stato muto. A destra, altrettanto. La crisi continua.
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