Lo sfruttamento del lavoro va di gran moda anche nei marchi del lusso
da L’INDIPENDENTE ONLINE (Marina Savarese)
Le settimane della moda si susseguono come sempre, tra sfilate più o meno spettacolari, conferme di marchi noti e nuove uscite di storiche case di moda affidate a nuovi direttori creativi che ne dovrebbero risollevare le sorti (e l’immagine). Il tutto però, quest’anno, avviene all’ombra di fatturati in calo e degli accadimenti degli ultimi mesi che hanno lasciato una patina opaca sullo scintillante mondo del lusso. Dopo le indagini dell’antitrust degli scorsi mesi su alcune società dei gruppi Armani e Dior «per possibili condotte illecite nella promozione e nella vendita di articoli e di accessori di abbigliamento», e le notizie degli ultimi giorni sulle aziende di pelletteria del distretto toscano controllate da Gucci pronte a mandare in cassa integrazione circa 320 dipendenti, arriva anche la comunicazione di alcune ditte in Romania abbandonate senza troppi preavvisi dai marchi di lusso perché la produzione era diventata “troppo costosa”.
Un gioco al ribasso
Affermazioni che strappano un sorriso amaro, amarissimo, tanto sembrano delle prese in giro. Marchi che vendono i loro prodotti a prezzi esorbitanti, lontanissimi dal loro valore reale (ma anche percepito), che si lamentano per rialzi minimi dei costi di produzione: sembra una barzelletta, ma è la triste verità. Quella di un settore che da anni ha impostato il proprio lavoro su un unico imperativo: ridurre i costi per aumentare i margini di guadagno (di chi sta ai vertici e degli azionisti, visto che si tratta di gruppi quotati in borsa). Per fare ciò si può decidere di andare a produrre molto lontano, delocalizzando dall’altra parte del mondo dove i prezzi sono decisamente competitivi e dove l’occhio non vede le condizioni in cui sono costretti a lavorare i dipendenti, ma anche appoggiarsi a distretti più raggiungibili, come quello che si era sviluppato in Romania nel corso degli ultimi trent’anni.
Aziende specializzate nella lavorazione della pelle, con un discreto know how, bassi costi di manodopera e comunque in Europa, alle quali affidare i processi di realizzazione del prodotto tranne un paio; i soliti “due passaggi” sufficienti ad ottenere il permesso di essere etichettati “Made in Italy”. Un gioco, a due passi dal nostro Paese, che ha fatto sviluppare un intero settore e che ha funzionato per diverse decine di anni, fino a che non è iniziata una lenta contrazione che sta portando moltissime ditte alla chiusura. L’aumento del salario minimo per i dipendenti, portato a circa 740 euro lordi al mese, ha fatto alzare i prezzi di produzione rendendo il paese meno competitivo. In assenza di condizioni vantaggiose (stiamo parlando di aumenti minimi su articoli prodotti a 50€ e che vengono rivenduti a 2600€), si tagliano le commesse, si abbandonano i propri fornitori e tanti cari saluti.
Nessuna considerazione per le relazioni umane e professionali di lunga durata, per gli sforzi compiuti in passato nel realizzare ordini in tempi strettissimi, per cercare di assecondare richieste al ribasso e veri e propri ricatti al suono di «se non me lo fai tu per questo prezzo, me lo farà un altro». Il lusso non guarda in faccia a nessuno. Tanto meno alle condizioni delle persone che lavorano per loro (anche se millantano codici etici e mettono la sostenibilità in bella mostra sui loro siti come grande pilastro delle loro collezioni).
Rientro in Italia: a che condizioni?
Molti marchi hanno deciso di riportare parte della produzione in Italia. Per favorire le maestranze locali e dare lustro all’artigianato? Non esattamente. Nemmeno nel nostro paese le cose vanno come dovrebbero… già da tempo. Chi lavora nella moda sa benissimo quanto oscure e frammentate siano le filiere: esistono fornitori di primo livello, direttamente in contatto con i marchi, e poi esiste un’intricata rete di fornitori di secondo livello ai quali subappaltare il lavoro. Una filiera così spezzettata consente di abbassare i costi di fornitura, andando però incontro a fenomeni di sfruttamento del lavoro. Si lavora in nero, si lavorano tantissime ore, a ritmi serrati, senza dispositivi di sicurezza per permettere di andare più veloci, in locali dove si mangia, lavora e dorme. Questo è quanto emerso dalle ultime indagini di quest’anno, che hanno messo in luce pratiche radicate da tempo e che, purtroppo, fanno parte di una politica d’impresa orientata all’aumento del profitto. I committenti giocano al ribasso, tagliano i prezzi usando ricatti ben poco mascherati, non permettendo alle aziende produttrici di pagare salari degni né tanto meno contributi. Un disastro, anche da queste parti, per cui moltissime realtà sono state costrette a chiudere (nel solo distretto toscano si contano, ad oggi, 304 chiusure, di cui 182 manifatture del settore pelletteria).
Rilanciare il settore sembra sempre più difficile; redimere peccatori recidivi ancora di più. C’è chi parla di sviluppare delle vere e proprie politiche di filiera, che in qualche modo possano reimpostare i rapporti produttivi in un’ottica di stabilità e responsabilità maggiore a carico delle aziende committenti. Forse più auspicabile un miracolo.
Le regole sulla due diligence, approvate nel maggio scorso dal parlamento europeo e destinate ad entrare in vigore in tutti gli stati membri a partire dal 2027, parlano di «obbligo per le aziende con più di mille dipendenti e un fatturato superiore ai 450 milioni di euro a gestire attentamente gli impatti sociali e ambientali lungo l’intera filiera, compresi i fornitori diretti e indiretti, e le proprie attività».
Con lo spettro di sanzioni economiche per le aziende che non rispettano le regole, chissà se le grandi case del lusso inizieranno ad agire in maniera differente o inventeranno nuovi sistemi per aggirare l’ostacolo e mantenere saldi fatturati milionari sulle spalle di lavoratori sfruttati e piccoli imprenditori ridotti al lastrico.
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