A un anno dall’attacco di Hamas, Israele spinge il Medio Oriente verso l’abisso
di ROBERTO IANNUZZI (blog personale)
L’assassinio di Nasrallah e l’offensiva israeliana in Libano potrebbero innescare una spaventosa destabilizzazione regionale. I missili iraniani su Israele ne costituiscono solo la prima avvisaglia.
Il 27 settembre 2024 ha segnato uno spartiacque nella storia mediorientale. L’uccisione di Hassan Nasrallah (guida storica e carismatica di Hezbollah) a seguito di un violentissimo bombardamento israeliano ha scosso gli equilibri regionali con conseguenze difficili da prevedere.
In questo sanguinoso episodio sono rimasti uccisi anche centinaia di civili – un bilancio preciso è reso difficile dall’impossibilità di recuperare corpi letteralmente polverizzati dalla potenza delle esplosioni.
A quasi un anno da quel fatidico 7 ottobre che vide l’attacco di Hamas ad avamposti militari e insediamenti israeliani, l’eliminazione di Nasrallah ha segnato un’ulteriore escalation in un conflitto che ha ormai assunto una dimensione regionale.
Nel quadro dell’irrisolto e dimenticato conflitto israelo-palestinese, e della durissima occupazione militare israeliana, l’inaspettata azione di Hamas del 7 ottobre (la cui dinamica rimane tuttora avvolta da misteri e interrogativi) fu all’origine della devastante reazione militare di Tel Aviv che ha portato alla totale distruzione di Gaza provocando oltre 41.000 morti.
Perfino una catastrofe di queste dimensioni era stata però trasformata in routine dalla copertura parziale e insufficiente dei media occidentali, e declassata a quarta o quinta notizia sui telegiornali (quando viene citata).
Ora vi è il rischio che anche la portata dell’operazione israeliana che segna il definitivo coinvolgimento del Libano nel conflitto venga sottovalutata in Occidente. L’uccisione di Nasrallah, in particolare, e la decapitazione della leadership di Hezbollah, è ciò che ha portato i missili di Teheran nei cieli israeliani.
Quello che Israele e Stati Uniti solitamente hanno definito sprezzantemente come un “terrorista” era un leader guardato con rispetto e ammirazione in gran parte del Medio Oriente, talvolta perfino dai suoi avversari.
Un simbolo della resistenza contro USA e Israele
Nasrallah era considerato, non solo dagli sciiti alla cui confessione apparteneva, ma anche da cristiani e sunniti, come un uomo di saggezza, un personaggio pragmatico e di notevole moderazione, uno stratega e profondo conoscitore dei suoi avversari (USA e Israele in testa).
Egli aveva aderito al movimento di Hezbollah, nato con il sostegno dell’Iran in opposizione all’invasione israeliana del Libano nel 1982, divenendone il segretario generale dieci anni dopo, a seguito dell’assassinio del suo predecessore e mentore Abbas al-Musawi per mano di Israele.
Nasrallah era assurto a simbolo del gruppo, meritevole di aver portato alla cacciata di Israele dal Libano (completata nel 2000), colui che aveva guidato il “Partito di Dio” durante il furioso bombardamento israeliano del Libano nel 2006, facendolo emergere vittorioso.
Fu in quell’occasione che egli raggiunse forse il picco della popolarità nel mondo arabo, osannato da sciiti, sunniti e cristiani come emblema della resistenza contro l’arroganza israelo-americana, contrapposto ai leader corrotti e asserviti dei regimi arabi.
Seguì il periodo buio e difficile del conflitto siriano scoppiato nel 2011, guerra fratricida tra arabi che vide Hezbollah al fianco dell’Iran nel difendere il governo del presidente Bashar al-Assad contro una ribellione di marca sunnita, sostenuta da Qatar, Arabia Saudita e Turchia, da Stati Uniti, Francia e Gran Bretagna, e dallo stesso Israele.
Quel sanguinoso conflitto causò, all’interno dello stesso “asse della resistenza” filo-iraniano, una spaccatura che vide Hamas, unico membro sunnita dello schieramento, appoggiare la ribellione siriana contro Assad, Hezbollah e l’Iran.
Il congelamento del conflitto in Siria, e l’ascesa di Yahya Sinwar (tradizionalmente vicino a Teheran) alla guida di Hamas a Gaza, hanno poi favorito la riconciliazione all’interno dell’asse della resistenza – riconciliazione alla quale Nasrallah diede un contributo essenziale.
L’assassinio di Qassem Soleimani (carismatico generale della forza Quds della Guardia Rivoluzionaria iraniana e responsabile del coordinamento internazionale dell’asse della resistenza per conto dell’Ayatollah Ali Khamenei), ordinato dall’allora presidente americano Donald Trump e portato a termine il 3 gennaio 2020 in Iraq, fece assurgere Nasrallah a leader di fatto dello schieramento.
Hezbollah, enormemente rafforzatosi a livello militare dopo la guerra del 2006 e l’esperienza del conflitto siriano, assurse a secondo polo dell’asse iraniano dopo Teheran. Il suo leader Nasrallah era consultato e ascoltato dagli stessi dirigenti iraniani.
Genesi dell’offensiva israeliana in Libano
Dopo il 7 ottobre, Hezbollah aveva cominciato a colpire limitati obiettivi militari israeliani al confine con il Libano (inizialmente solo le Fattorie di Shebaa, territorio nel Golan occupato da Israele e rivendicato da Beirut).
L’azione era un gesto di solidarietà con Hamas a seguito del brutale bombardamento che il governo Netanyahu aveva scatenato sulla Striscia di Gaza a partire dal giorno stesso dell’attacco compiuto dal gruppo palestinese.
La reazione di Hezbollah, però, era anche dettata dalla consapevolezza del suo leader che l’annientamento di Hamas da parte israeliana avrebbe spezzato un importante anello dell’asse della resistenza, e avrebbe probabilmente rappresentato il preludio a un’aggressione di Israele contro lo stesso movimento libanese.
All’indomani del 7 ottobre, all’interno del governo Netanyahu vi era chi, come il ministro della difesa Yoav Gallant, si era detto favorevole a un attacco preventivo contro Hezbollah da affiancare, o addirittura da anteporre, alla reazione militare contro Hamas.
Nasrallah aveva dichiarato fin dalle prime battute del conflitto che Hezbollah avrebbe posto fine ai propri attacchi sulla frontiera tra Israele e Libano se Tel Aviv avesse accettato un cessate il fuoco a Gaza, una condizione sempre rifiutata dal governo Netanyahu (con l’eccezione della breve tregua di novembre).
Dopo la guerra del 2006, Hezbollah e Israele avevano seguito specifiche “regole d’ingaggio” non scritte nelle loro scaramucce per evitare un conflitto distruttivo, come ad esempio la norma di limitarsi a prendere di mira obiettivi militari e quella di non colpire in profondità il territorio avversario.
In base a tali regole, Israele si era astenuta fin dal 2006 dal bombardare Beirut, ed in particolare la Dahiya, sobborgo meridionale considerato la roccaforte di Hezbollah (oltre che residenza di centinaia di migliaia di civili di confessione sciita).
Il governo Netanyahu ha violato tale norma non scritta fin dai primi mesi del conflitto, in particolare dallo scorso 2 gennaio, allorché uccise l’alto dirigente di Hamas Saleh al-Arouri bombardando l’edificio in cui si trovava, proprio nella Dahiya di Beirut.
Tel Aviv ha violato ancor più gravemente questa regola allorché ha assassinato un esponente di primo piano di Hezbollah, Fuad Shukr, bombardando nuovamente la Dahiya a fine luglio.
Nei mesi scorsi le forze armate israeliane hanno cominciato a colpire sempre più in profondità il territorio libanese prendendo di mira anche obiettivi civili. Quello che era uno scontro limitato sul confine si è gradualmente trasformato in un conflitto sempre più incontrollato.
Esso ha prodotto circa 70.000 sfollati israeliani a sud del confine (una situazione esacerbata dall’esercito di Tel Aviv che si è insediato nei villaggi evacuati trasformandoli in obiettivi militari per Hezbollah), e più di 83.000 sfollati libanesi a nord di esso.
Un’ulteriore escalation si è registrata a partire dal 17 settembre scorso, allorché il governo Netanyahu ha inserito il rientro degli sfollati nelle loro abitazioni tra gli obiettivi ufficiali di guerra, annunciando un inasprimento dell’azione militare contro Hezbollah.
Ne è seguita una violentissima campagna di bombardamenti concentrata soprattutto sul sud del Libano, ufficialmente volta a distruggere le infrastrutture militari di Hezbollah ed a ricacciare il gruppo a nord del fiume Litani. In realtà, però, essa ha colpito in gran parte abitazioni residenziali provocando un nuovo esodo di civili verso nord.
Prima dell’inizio di questa campagna, l’esplosione di migliaia di cercapersone e walkie-talkie in possesso di uomini del movimento libanese, e l’uccisione di diversi suoi comandanti, aveva dimostrato la capacità dell’intelligence israeliana di violare la segretezza del gruppo, forse anche tramite infiltrazioni nella sua rete di sicurezza, e di venire a conoscenza degli spostamenti dei suoi esponenti di più alto livello.
Resa o “martirio”
In tale contesto è maturata la decisione israeliana di uccidere Nasrallah. Da tempo il governo Netanyahu aveva minacciato Hezbollah che, se non avesse accettato un cessate il fuoco separato dai combattimenti a Gaza, Israele avrebbe attaccato il Libano con la stessa violenza impiegata nella Striscia.
A Nasrallah, che aveva accusato Tel Aviv di voler “soggiogare i popoli della regione e schiacciare la legittima richiesta di diritti”, il ministro della difesa israeliano Yoav Gallant aveva risposto che “ciò che possiamo fare a Gaza, possiamo farlo anche a Beirut”, aggiungendo che nella Striscia l’aviazione israeliana non aveva utilizzato “nemmeno il 10%” della sua forza, e che a pagare il prezzo sarebbero stati “prima di tutto i civili libanesi”.
Gallant aveva ripetuto più volte questa minaccia. In una successiva occasione, riferendosi a Hezbollah, aveva affermato: “Vedono cosa sta succedendo a Gaza. Sanno che possiamo fare ‘copia-incolla’ a Beirut”.
Le minacce di Gallant non erano casuali, si basavano invece su una chiara dottrina militare, elaborata dai vertici dell’esercito israeliano all’indomani della guerra del 2006, contraddistintasi per i durissimi bombardamenti sulla Dahiya di Beirut.
Denominata proprio per questa ragione “Dahiya doctrine”, essa fu ben riassunta dal generale israeliano Gadi Eisenkot (che contribuì a teorizzarla) in un’intervista del 2008, allorché egli spiegò che gli attacchi sproporzionati contro le infrastrutture civili costituivano il cuore della strategia, non un effetto collaterale.
“Ciò che accadde alla Dahiya di Beirut nel 2006 accadrà ad ogni villaggio dal quale verrà sparato contro Israele”, chiarì Eisenkot aggiungendo che “applicheremo una forza sproporzionata e causeremo grandi danni e distruzione […]. Dal nostro punto di vista, questi non sono villaggi civili, ma basi militari”.
“Questa non è una raccomandazione. E’ un piano, ed è stato approvato”, concluse.
Sempre nel 2008, Giora Eiland, generale in congedo che fino a due anni prima aveva presieduto il Consiglio per la sicurezza nazionale (e che ha delineato un piano per l’assedio di Gaza nord attualmente allo studio del governo Netanyahu), scrisse che “i gravi danni al Libano, la distruzione di case e infrastrutture, e la sofferenza di centinaia di migliaia di persone, sono le cose che possono avere il maggiore impatto sul comportamento di Hezbollah”.
Eiland scrisse altrove che “l’unica cosa positiva che accadde nell’ultima guerra è stata il danno relativo causato alla popolazione del Libano. La distruzione di migliaia di abitazioni di ‘innocenti’ ha preservato parte del potere deterrente di Israele”.
Questa stessa filosofia è stata applicata a Gaza durante l’ultimo anno di operazioni militari, e sta cominciando ad essere adottata nuovamente in Libano.
Quando in Israele si è tuttavia compreso che Nasrallah non avrebbe ceduto alle pressioni israeliane, si è deciso che l’offensiva militare non era sufficiente ed era invece necessario eliminarlo fisicamente.
E’ quanto sostengono fonti israeliane citate dall’NBC e da Axios, secondo le quali la decisione di uccidere il leader di Hezbollah è stata presa dopo aver concluso che egli non avrebbe accettato un cessate il fuoco che non fosse esteso anche alla Striscia di Gaza.
“Ciò che abbiamo compreso dopo oltre 11 mesi è che Nasrallah insiste a legare se stesso – e lo Stato libanese da lui preso in ostaggio – a ciò che sta accadendo a Gaza”, ha dichiarato all’NBC un responsabile israeliano, aggiungendo che “questo ci ha portato a capire che non può più essere parte del gioco”.
Questa è l’alternativa che Israele offre ai propri avversari: la resa e la lenta estinzione, come in Cisgiordania, o la ribellione e il “martirio” come a Gaza.
Un cratere a Beirut
La prima discussione sulla possibilità di assassinare Nasrallah ebbe luogo alla vigilia del viaggio di Netanyahu a New York per pronunciare il proprio discorso all’Assemblea generale dell’ONU.
Grazie agli enormi progressi compiuti dalle moderne tecnologie di sorveglianza negli ultimi anni, l’intelligence israeliana è riuscita a identificare e tracciare numerosi operativi di Hezbollah, spesso partendo dall’anello debole rappresentato dai loro familiari, attraverso tecniche che vanno dall’impiego di droni all’hackeraggio di dispositivi elettronici (cellulari, computer, telecamere di sorveglianza), e costituendo così enormi database i cui contenuti venivano poi minuziosamente analizzati ed elaborati.
Ciò ha permesso di risalire fino ai leader del gruppo, come testimoniato dai numerosi omicidi mirati portati a termine con successo da Israele ai loro danni. E’ quanto sostenuto da un recente articolo del Financial Times, che confermerebbe lo spaventoso potere ormai raggiunto dalle moderne tecnologie di sorveglianza.
Il livello di digitalizzazione del Libano, molto superiore a quello di Gaza, ha fatto sì che queste tecniche abbiano avuto un successo ben maggiore nei confronti di Hezbollah che non di Hamas, malgrado le numerose misure precauzionali prese dai membri del gruppo libanese.
Non si può tuttavia escludere l’infiltrazione di alcune spie tra le file del gruppo stesso. Tutti questi strumenti hanno consentito all’intelligence israeliana di apprendere che un incontro dei massimi dirigenti del movimento, al quale avrebbe preso parte lo stesso Nasrallah, avrebbe avuto luogo il 27 settembre in un bunker fortificato nel sottosuolo della Dahiya.
Secondo diverse fonti, l’ordine di procedere con l’operazione volta ad eliminare Nasrallah sarebbe stato impartito da Netanyahu mentre egli si trovava a New York, poco prima di pronunciare il suo discorso all’ONU.
L’azione è stata condotta da diversi F-15 provvisti di bombe BLU-109 da 900 Kg ad “alta penetrazione”, dotate di un sistema di guida (JDAM). Si tratta di ordigni di fabbricazione americana che nei mesi scorsi Washington ha fornito a profusione a Israele, e che sono state abbondantemente impiegate a Gaza.
Ciascuna bomba, insieme al suo kit di guida, costa 52.000 dollari. Secondo fonti militari di Tel Aviv, gli aerei israeliani avrebbero sganciato fino a 100 ordigni con una frequenza di uno ogni due secondi, per scavare un varco fino al bunker sotterraneo di Nasrallah.
Nell’operazione, quattro torri residenziali sono state rase al suolo, e fino a 300 persone potrebbero essere rimate uccise, sebbene (come accennato all’inizio) un bilancio preciso sia reso difficile dall’immane distruzione provocata dalle bombe, che ha letteralmente disintegrato decine di corpi insieme agli edifici.
Nella drammatica implosione, oltre a Nasrallah, sono rimasti uccisi Ali Karaki ed altri dirigenti di spicco dell’organizzazione, e Abbas Nilforushan, generale della Guardia Rivoluzionaria iraniana (IRGC) che aveva sostituito il suo omologo Mohammed Reza Zahedi (assassinato da Israele nel bombardamento del consolato iraniano a Damasco lo scorso aprile) in qualità di comandante della forza Quds dell’IRGC per Siria e Libano.
In altre parole, l’operazione con cui è stato ucciso Nasrallah ha portato a termine la quasi completa decapitazione della dirigenza politica e militare del gruppo (dopo che Israele aveva già eliminato Fuad Shukr, Ibrahim Aqil, ed altri comandanti delle forze Radwan, il corpo scelto di Hezbollah).
L’assassinio di Nasrallah e Nilforushan ha inevitabilmente inferto un colpo durissimo anche all’Iran.
“Fair is foul and foul is fair” (Netanyahu all’ONU)
Poco dopo aver impartito l’ordine dell’operazione, ma prima che essa venisse portata a termine, Netanyahu ha pronunciato il suo discorso all’Assemblea generale dell’ONU.
Di fronte a un’aula semivuota (abbandonata da numerosi diplomatici nel momento in cui il premier israeliano saliva sul podio), egli ha presentato Israele come un modello di pace e prosperità per il Medio Oriente, sebbene poche ore prima avesse rifiutato un cessate il fuoco di 21 giorni tra Israele e il Libano la cui proposta era stata annunciata il giorno precedente da USA, Francia ed altri dieci paesi occidentali ed arabi.
Secondo fonti americane, la proposta era stata concordata con lo stesso governo Netanyahu, e i responsabili dell’amministrazione Biden ritenevano che il premier israeliano l’avrebbe perciò accettata.
Secondo il ministro degli esteri libanese, lo stesso Nasrallah aveva accolto la bozza di cessate il fuoco. Ma l’improvviso voltafaccia israeliano avrebbe mandato in fumo anche questo tentativo diplomatico. Di lì a qualche ora la situazione sul terreno sarebbe cambiata radicalmente.
Davanti ai rappresentanti dell’Assemblea generale, Netanyahu ha però affermato che “Israele cerca la pace. Israele anela alla pace. Israele ha fatto la pace e farà di nuovo la pace”.
Mostrando due cartelli, uno che raffigurava in nero l’Iran e i suoi alleati regionali, e l’altro che mostrava in verde Israele e i partner arabi dell’IMEC, un corridoio economico proposto dagli USA nel settembre 2023 al G20 in India, egli ha posto il mondo di fronte a una scelta binaria: la “maledizione” rappresentata dal primo cartello, o la “benedizione” incarnata dal secondo.
Senza fare alcun accenno alla questione palestinese, il premier israeliano ha parlato della possibilità di raggiungere una pace epocale fra Israele e Arabia Saudita, che rafforzerebbe la sicurezza e gli scambi commerciali nella regione. Un accordo che porterebbe a “una storica riconciliazione fra il mondo arabo e Israele, fra l’Islam e l’ebraismo, fra Mecca e Gerusalemme”.
Il modo migliore per sventare i “nefasti disegni” dell’Iran è quello di espandere la benedizione della pace, con “il supporto e la leadership” degli Stati Uniti, ha affermato Netanyahu.
Nel frattempo, però, la delegazione saudita era fra coloro che avevano abbandonato l’aula. Sebbene la leadership saudita non abbia particolarmente a cuore il problema palestinese, essa deve fare i conti con la propria popolazione, presso la quale quella dei palestinesi è una questione molto sentita.
Netanyahu ha anche insultato l’assemblea, definendola una “palude di bile antisemita” nella quale “c’è un’automatica maggioranza disposta a demonizzare lo Stato ebraico per qualsiasi cosa”.
“In questa società terrapiattista anti-israeliana, qualsiasi falsa accusa, qualsiasi stravagante insinuazione, può raccogliere una maggioranza”, ha aggiunto il premier israeliano.
Nel frattempo i bombardamenti proseguivano a Gaza (e in Cisgiordania) come in Libano, dove gli sfollati si apprestavano a superare il milione di persone ad appena due settimane dall’inizio della campagna israeliana.
Sulle pagine di Le Monde e dell’americano National Interest, due figure certamente di diverso orientamento come il politologo francese Jean-Paul Chagnollaud e il neocon Robert Kaplan giungono alla stessa conclusione su Israele (sebbene partendo da giudizi morali opposti).
Il primo afferma che l’unico strumento conosciuto da Netanyahu è l’illimitato uso della forza nel totale disprezzo del diritto internazionale.
Il secondo sostiene che “con la sua disponibilità a provocare ingenti danni collaterali in termini di vite umane, Israele ha eliminato la più grande risorsa strategica di cui dispongono l’Iran, Hezbollah, Hamas e i terroristi [sic] della Cisgiordania: la capacità di nascondersi dietro donne, bambini e anziani”.
“La mentalità sanguinaria di Netanyahu a questo riguardo ha dimostrato come l’Iran e i suoi agenti per procura abbiano sbagliato i calcoli”, afferma Kaplan, aggiungendo che “siamo in un’era di guerra totale”, e che “per navigare in questo mondo è necessario adattare la propria visione morale, proprio come sta facendo Israele”.
In altre parole, pur partendo da posizioni opposte, sia Chagnollaud che Kaplan riconoscono che Israele (e l’Occidente che lo sostiene) stanno plasmando un mondo dominato dalla barbarie, dove contano esclusivamente la nuda violenza e la legge del più forte (fra l’altro, un’operazione non necessariamente vantaggiosa, né per Israele né per l’Occidente).
Non è la fine di Hezbollah
La scomparsa di Nasrallah e di gran parte della leadership del partito sciita libanese costituisce un colpo durissimo per l’organizzazione, ma non ne rappresenta la fine. Come ha affermato lo stesso Yossi Melman, giornalista israeliano esperto di intelligence, il gruppo si riprenderà, con l’assistenza dell’Iran.
Come ha ammesso perfino il portavoce dell’esercito israeliano, Nadav Shoshani, malgrado i bombardamenti israeliani gran parte dell’arsenale di Hezbollah rimane intatto.
A livello organizzativo, la struttura del partito è integra, rafforzata da una solida rete di leader della nuova e vecchia generazione. Essa è sostenuta da istituzioni politiche, sociali e culturali radicate nella comunità sciita, sorretta da leader religiosi, membri del parlamento e del governo, esponenti di organizzazioni della società civile.
Il lancio di razzi e missili in profondità sul territorio israeliano, e le perdite subite da Israele nei primissimi giorni dell’operazione di terra lanciata all’indomani dell’uccisione di Nasrallah, confermano la piena efficienza della struttura militare del partito, fondata su una catena di comando flessibile i cui capi possono essere prontamente rimpiazzati.
Come ha sostenuto il giornalista di Al Jazeera Ali Hashem, una nuova generazione andrà a ricostituire la leadership politica e militare del gruppo, una generazione che a differenza di quella attuale, ormai nota e studiata da tempo, rappresenterà un’incognita per Israele.
Da più parti si è fatto il nome di Hashem Safieddine, esponente storico dell’attuale dirigenza, cugino di Nasrallah e responsabile degli affari politici del partito, come erede designato del leader scomparso. Proprio stanotte, Israele ha tentato di eliminare anche lui, con un bombardamento paragonabile per violenza a quello con cui ha ucciso Nasrallah.
Ma questi sono dettagli secondari, che si chiariranno in futuro, alla luce della più importante conferma che un’organizzazione apparentemente decapitata continua a rappresentare un durissimo avversario per le forze armate israeliane.
Il Libano come Gaza
Nel frattempo, tuttavia, il Libano rischia di diventare una seconda Gaza.
Mentre continua a martellare impietosamente il paese dal cielo, Israele ha avviato una “limitata” operazione di terra, ufficialmente per bonificare le zone limitrofe al confine dalla presenza di Hezbollah e permettere il rientro degli sfollati israeliani nelle loro case, senza la costante minaccia dei miliziani sciiti al di là della frontiera.
In realtà, il governo e l’apparato militare israeliano sperano di approfittare dell’apparente momento di debolezza dell’avversario per infliggergli forse il colpo di grazia.
Per i vertici dell’esercito di Tel Aviv, impedire qualsiasi trasferimento di armi dall’Iran a Hezbollah è una priorità irrinunciabile. A tal fine, essi intendono imporre una sorta di embargo militare al paese confinante, impedendo l’attracco delle navi cargo, controllando lo spazio aereo, sigillando la frontiera terrestre con la Siria.
Nei giorni scorsi, l’aviazione israeliana ha affermato di aver bombardato a questo scopo i valichi di confine tra Siria e Libano. Si è avuta anche notizia di bombardamenti aerei sulla città siriana di Albukamal, al confine con l’Iraq, considerata una delle principali rotte lungo le quali le milizie sciite trasportano armi dall’Iran verso il Libano, attraverso Iraq e Siria.
L’intensificarsi di queste operazioni potrebbe estendere la guerra a questi due paesi chiave per la contiguità territoriale dell’asse della resistenza – un altro elemento che spinge in direzione di una regionalizzazione del conflitto.
Nel frattempo, i soldati israeliani rischiano di impantanarsi nel sud del Libano come già è successo altre volte in passato.
La pericolosa tentazione di Washington
La Casa Bianca in teoria avrebbe avuto ogni ragione per essere molto irritata a seguito dell’ultimo sgarbo israeliano, il rifiuto di un cessate il fuoco apparentemente concordato.
In tutti questi mesi, l’amministrazione Biden ha sempre cercato di scongiurare un allargamento del conflitto, temendo di essere risucchiata in una guerra non voluta e dalle conseguenze imprevedibili.
Inviati della Casa Bianca ed esponenti del Pentagono hanno più volte scoraggiato Israele dall’iniziare una vera e propria offensiva in Libano prima di aver raggiunto un cessate il fuoco a Gaza, ritrovandosi così a dover combattere su due fronti con un esercito già logorato da mesi di guerra.
L’eliminazione di Nasrallah, e l’impressionante operazione che ha portato alla decapitazione della leadership di Hezbollah, hanno tuttavia portato alcuni esponenti dell’amministrazione a riflettere sulla possibilità di infliggere un colpo mortale a un secondo anello dell’asse filo-iraniano, dopo la violentissima operazione militare che ha portato al forte ridimensionamento di Hamas.
La Casa Bianca si è sforzata in ogni modo di smentire ogni coinvolgimento nell’assassinio di Nasrallah, affermando di essere stata informata solo a operazione in corso. Tuttavia Biden non ha condannato l’azione israeliana definendola invece “un atto di giustizia” per le molte vittime di cui si sarebbe macchiato Nasrallah.
I vertici del Pentagono hanno ribadito che avrebbero continuato a difendere Israele ed a proteggere le forze e la basi americane nella regione.
Nel frattempo, le esortazioni statunitensi a perseguire la via negoziale in Libano e a Gaza appaiono sempre più vuota retorica.
Il segretario alla difesa Lloyd Austin, dialogando con il suo omologo israeliano Yoav Gallant, non ha più parlato di de-escalation o di soluzione diplomatica, dichiarando soltanto che gli USA sostengono il “diritto israeliano a difendersi”.
Pochi giorni più tardi, Austin ha praticamente dato luce verde all’invasione israeliana del Libano, seppure in forma “limitata”, concordando con Gallant sulla “necessità di smantellare l’infrastruttura offensiva [di Hezbollah] lungo il confine”.
Il consigliere presidenziale e inviato speciale per il Libano, Amos Hochstein, e il coordinatore della Casa Bianca per il Medio Oriente, Brett McGurk, hanno tacitamente appoggiato la strategia di Netanyahu di spostare a nord il “focus militare” israeliano per spingere Hezbollah ad un cessate il fuoco separato.
Sebbene vi siano tuttora nel Pentagono, al dipartimento di Stato, e nella comunità dell’intelligence, esponenti che temono uno scivolamento americano nell’ennesimo conflitto mediorientale, all’interno dell’amministrazione Biden cresce la tentazione di “lasciar fare” Israele dopo l’apparente successo dell’assassinio di Nasrallah.
L’ingannevole prospettiva secondo cui una “soluzione militare” potrebbe portare a un consolidamento della traballante egemonia USA in Medio Oriente ed allo smantellamento dell’asse della resistenza, lasciando l’Iran isolato a livello regionale, sta risvegliando pericolosi appetiti nel governo statunitense.
Nel frattempo Jared Kushner, genero di Trump, in un lungo tweet ha dato un’idea del pericoloso scenario che una seconda presidenza del magnate americano potrebbe aprire in Medio Oriente.
Secondo Kushner, Hezbollah era un’arma puntata alla tempia di Israele. Tel Aviv ora si troverebbe con la minaccia di Hamas praticamente neutralizzata, e con la possibilità di eliminare anche quella rappresentata dal gruppo libanese.
Per Kushner, è il momento di “finire il lavoro” smantellando una volta per tutte l’arsenale di Hezbollah.
In fondo, gli esponenti dell’amministrazione Biden sono solo un po’ meno espliciti in proposito, ma non molto lontani da questa visione.
Mentre figure vicine alla lobby israeliana ed al movimento neocon parlano apertamente di opportunità di “rimodellare” il Medio Oriente.
Israele a un anno dal 7 ottobre
Quella che a Washington è una tentazione, per il governo israeliano è ormai una chiara strategia politica.
Gli esponenti dell’esecutivo e degli apparati militari, gli stessi che si sono resi responsabili del fallimento del 7 ottobre e che non si sono mai dimessi (con pochissime eccezioni) né hanno affrontato alcuna inchiesta, sembrano ormai lanciati verso la prospettiva di una guerra a oltranza su più fronti.
Essi auspicano che una simile campagna permetta loro di ridisegnare la regione, cancellando in qualche modo le loro colpe passate agli occhi di una popolazione che li ritiene tuttora responsabili di quanto accaduto un anno fa.
A un anno dall’attacco di Hamas, l’agenda dell’estrema destra israeliana, che punta alla liquidazione della questione palestinese, si è progressivamente affermata all’interno del governo e dei vertici militari.
Per altro verso, l’eliminazione di Nasrallah ha incontrato il favore quasi unanime dell’intera classe politica israeliana.
L’offensiva militare in Libano ha fatto risalire nei sondaggi figure come Netanyahu, il comandante dell’esercito Herzi Halevi, e il ministro della difesa Gallant.
L’ingresso nel governo di Gideon Sa’ar e del suo partitino Nuova Speranza (4 seggi) ha ulteriormente rafforzato il premier israeliano, rendendolo meno ricattabile dal ministro della sicurezza interna Itamar Ben Gvir e blindano il suo esecutivo rispetto al rischio di elezioni anticipate.
Dal 7 ottobre, il governo ha approvato la costruzione di ben 5 nuovi insediamenti in Cisgiordania, mentre sono stati creati altri 25 avamposti illegali. Il ministro delle finanze Bezalel Smotrich ha autorizzato il finanziamento pubblico di 70 avamposti illegali, garantendo loro fornitura idrica, elettrica, e collegamenti stradali.
Ma il trofeo più grande potrebbe essere rappresentato dall’Iran.
Il presidente israeliano ha definito la Repubblica islamica un “impero del male”, aggiungendo che le forze armate israeliane avrebbero “rimosso qualsiasi minaccia esistenziale per lo Stato di Israele”.
Netanyahu si è perfino rivolto direttamente al popolo iraniano dichiarando che presto sarebbe stato liberato dal regime oppressivo che lo governa.
Secondo il noto think tank britannico Chatham House, la neutralizzazione di Hezbollah potrebbe costituire la premessa per un successivo attacco di Israele alle installazioni nucleari iraniane.
Com’è cambiato il calcolo strategico di Teheran
Il consolidarsi di questo quadro ha allarmato progressivamente i dirigenti iraniani. Ma il vero spartiacque è stato l’eliminazione di Nasrallah. L’uccisione del leader di Hezbollah, un elemento chiave dell’asse della resistenza, ha traumatizzato l’establishment politico del paese.
L’autocontrollo dimostrato da Teheran dopo l’assassinio del leader di Hamas, Ismail Haniyeh, nella capitale iraniana a fine luglio non ha dato i frutti sperati.
In particolare fra i conservatori, molti si sono convinti che la mancata rappresaglia dell’Iran è stata giudicata dai suoi avversari come un sintomo di debolezza, non di moderazione.
Alcuni esponenti del fronte conservatore sono giunti alla conclusione che, se Teheran avesse reagito all’uccisione di Haniyeh, Nasrallah non sarebbe stato assassinato.
In tutti questi mesi, l’Iran non aveva risposto alle provocazioni di Tel Aviv (con l’eccezione della rappresaglia missilistica dello scorso aprile, seguita al bombardamento israeliano del suo consolato a Damasco), nella convinzione che il governo Netanyahu volesse attirarlo in un conflitto diretto nel quale avrebbe coinvolto anche gli Stati Uniti.
Di fronte all’autocontrollo di Teheran, Israele ha risposto uccidendo un numero screscente di dirigenti di Hamas, di Hezbollah, e di alti ufficiali della Guardia Rivoluzionaria iraniana, finendo per eliminare l’uomo più importante, Hassan Nasrallah.
Davanti a questo evento traumatico, Teheran si è convinta che il prezzo di non rispondere era ormai divenuto più alto rispetto a quello che avrebbe pagato a seguito di una risposta militare.
Agli occhi dei vertici iraniani, la pazienza strategica non funziona più. Essi si sono persuasi che Israele punti in ogni caso a strangolare l’Iran.
Da questa certezza è derivata la decisione di colpire il territorio israeliano con una salva di missili balistici, per dimostrare all’avversario che avrebbe pagato un prezzo molto alto qualora avesse deciso di attaccare Teheran.
La Guardia Rivoluzionaria ha emesso un comunicato nel quale ha chiarito che il lancio di missili balistici era in risposta all’assassinio di Haniyeh a Teheran, e di Nasrallah e del generale dell’IRGC Abbas Nilforushan a Beirut.
L’attacco, più potente e con minor preavviso rispetto a quello di aprile, ha puntato ancora una volta a colpire esclusivamente obiettivi militari: le basi israeliane di Nevatim, Netzarim e Tel Nof.
Malgrado quanto sostenuto da gran parte della stampa occidentale, i missili iraniani, più moderni e numerosi rispetto alla volta precedente, hanno messo in seria difficoltà lo scudo antimissile israeliano, come si evince dalle immagini che hanno mostrato numerosi impatti al suolo.
Ma anche in questo caso, l’attacco iraniano è stato calibrato in modo tale da causare danni limitati e non costringere Israele ad una rappresaglia tale da scatenare una guerra.
Il rischio, ora, è che l’arroganza israeliana ed occidentale porti Israele ed i suoi alleati americani a sottovalutare ancora una volta il messaggio iraniano, e/o a rispondere in modo sproporzionato spingendo l’intero Medio Oriente verso un conflitto incontrollabile.
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