LA CRISI ECONOMICA
Oggi, permettetemi di occuparmi di economia. Uscire dal liberalismo come mi auguravo nel post precedente, significa anche liberarsi della dittatura dell’economia. Siamo così immersi nell’ideologia liberale, da credere che davvero da sempre l’economia sia la cosa più importante nella nostra vita. Io credo invece che si tratti di una forma di follia, che sia necessario mettere l’economia al suo posto, cioè ancillare rispetto alla politica, che deve rivendicare per sé il posto di comando. Tuttavia, nessuno può davvero credere di potere ignorare l’economia, ed io certo non voglio commettere questo errore madornale, così me ne occupo qui, proprio affrontando il tema economico nella società contemporanea. Parlare oggi di economia equivale ovviamente a parlare dell’attuale crisi economica. La crisi è ormai una tale evidenza nella nostra vita quotidiana che sarebbe insensato ignorarla, pensare di fare politica senza confrontarsi con la crisi. Ma confrontarsi, significa tentare di capire la crisi, capirne quindi le cause e predisporre un’ipotesi di uscita da essa. Da questo punto di vista, mentre sottoscriverei ogni singola parola di valenti economisti come Bagnai che hanno dimostrato aldilà di ogni ragionevole dubbio l’insostenibilità già in linea di principio dell’euro, credo nel contempo che sia necessario allargare la nostra visuale, e riflettere meglio sulle vere cause della crisi.
Dal punto di vista strettamente cronachistico, non dovremmo avere alcun problema a indicare la bolla immobiliare, poi divenuta finanziaria tout court, sviluppatasi a partire dal 2007 e poi scoppiata nell’autunno del 2008 con il clamoroso fallimento della Lehman&brothers (e con l’altrettanto clamoroso salvataggio di quasi tutte le grosse banche mondiali, anglosassoni in primis, aggiungerei io, da parte degli stati). Ciò che io rimprovero a un certo dibattito economico è avere come rimosso la prima parte della storia, dove e quale sia la genesi della crisi. Se noi rimuoviamo questa genesi finiamo col far credere a chi ci legge che la crisi sia nata nella zona euro, cosa del tutto falsa, o alternativamente che si tratta di due eventi del tutto separati ed indipendenti, anche questa una tesi sballata. Difatti, nessun economista sostiene esplicitamente queste tesi, tuttavia, quando si tace una parte della verità, si può fatalmente finire col dire una bugia anche inconsapevolmente. Io dico che purtroppo non sta unicamente né primariamente nell’euro la causa della crisi, si potrebbe dire che l’euro è la causa fondamentale dell’aggravamento della crisi proprio in un paese come il nostro, ma sono convinto che il massimo che potremmo fare col miglior governo (non certo il governo Letta, neanche a dirlo…) che fosse insediato, sarebbe solo liberarci della crisi mondiale che continuerebbe ad esserci, evidentemente scaricandola sugli altri paesi. La vera natura della crisi è crisi del debito privato. Negli USA, dopo la sciagurata eliminazione da parte di Clinton alla fine degli anni novanta della legislazione introdotta a seguito della storica crisi del ’29 che imponeva stringenti vincoli alle banche, queste si sono scatenate nell’aumentare i loro utili tramite la moltiplicazione di titoli di loro emissione, la creazione dei titoli derivati, presto diventati in parte consistente junkbond, cioè titoli spazzatura, in quanto privi di valore effettivo. Si calcola che ai nostri giorni il totale dei titoli circolanti corrisponda ad almeno nove volte l’intero PIL mondiale. Ciò come capite, corrisponde a dire che tali titoli sono nella stragrande maggioranza cartaccia, che le banche poggiano la loro peraltro enorme ricchezza su una montagna di cartaccia, si tratta in definitiva di una ricchezza del tutto fasulla. Nel 2008, Bush e Obama sono stati d’accordo nell’intervenire allo scopo di puntellare una situazione delle banche di fatto fallimentare. Il mezzo che hanno usato, e che poi credo sia proprio l’unico disponibile, è stato quello di stampare banconote dal nulla, cioè intervenire pesantemente aumentando la liquidità. Pensate, tanto per rimanere negli USA, che da settembre scorso, la FED stampa almeno 40 miliardi di dollari al mese, cioè incrementa la liquidità in maniera fortissima. Il punto è che tale liquidità non si vede nelle tasche della gente comune perché le banche la sequestrano praticamente in maniera integrale per potere pagare le cedole dei loro titoli e per poterli rinnovare. L’immissione di denaro fresco corrisponde insomma a un medico che pretendesse di curare un tossicomane dandogli dosi crescenti di droga, mi pare che l’esito non possa che essere la morte del paziente. Così, tutta questa gigantesca quantità di denaro rimane confinato nei circuiti bancari, e non mostra nessun effetto inflattivo. Se però un giorno, come poi è inevitabile che accada, uno dei membri di questo club esclusivo delle banche fallite che fanno finta di non esserlo, decidesse di colpo di investire in qualsiasi tipo di merce questo denaro, allora potrebbe scoppiare un’inflazione galoppante, perché di colpo il denaro tornerebbe a fluire liberamente: a quel punto, si vedrebbe quanta cartaccia la FED ha stampato nel corso dei decenni, e quanto tutta questa cartaccia non abbia un corrispettivo in merce reale. La reale soluzione della crisi globale starebbe nel fare liberamente fallire le banche che fallite lo sono già da tempo, invece di continuare a pompare liquidità, ma non vedo in giro per il mondo statisti in grado di assumersi la responsabilità di tali decisioni e degli enormi effetti collaterali dei fallimenti bancari (risparmiatori di colpo sul lastrico). In sostanz, i governi, piuttosto che risolvere il problema, hanno scelto di non affrontarlo, rinviando nel tempo il momento della resa dei conti. Il fallimento bancario rimane quindi un’ipotesi puramente teorica, trionfa invece la sciagurata logica del “too big to fail” che porta alla conseguenza paradossale di porre gli stati al giogo delle grandi banche, da salvatori come di fatto sono, diventano le vittime sacrificali, come è il caso tipico italiano, in cui i mercati chiedono interessi altissimi sui titoli di stato. Vista l’impossibilità per le cose fin qui dette di risolvere il problema dell’enorme liquidità che circola nel mondo, cosa rimane ad un piccolo paese come il nostro se non sottrasi lla globalizzazione? Se il sistema finanziario globalizzato si comporta come un tossicomane, l’unica soluzione ragionevole appare quella di isolarsi, quindi di: – uscire dall’euro – dare default – porre solide barriere doganali che ci consentano di produrre nel nostro paese ciò che nel nostro paese abbiamo sempre prodotto Non sarà una passeggiata, ma sarà comunque il male minore. Naturalmente, le modalità di attuazione di queste misure, ciò che diventerebbe l’economia del nostro paese in questa ipotesi, è tutto un enorme argomento che non posso affrontare certo in questo spazio ristretto. Vorrei solo soffermarmi sul perché io ritenga inevitabile il fallimento del nostro stato. Il problema ovviamente sta nell’enorme importo del nostro debito statale che ne rende praticamente impossibile la integrale restituzione. Tutto ciò che possiamo fare è pagare gli interessi che però a loro volta sono tali da impedire qualunque politica economica: chi ha un debito con uno strozzino, non può scegliere nessuna spesa nella sua vita, rimane preda della necessità di rimborsare almeno gli interessi, e ciò che gli rimane è al massimo la sopravvivenza. Alcuni sostengono che uscendo dall’euro, il debito non sarebbe più un problema, perché sarebbe possibile rinominarlo nella nuova valuta scelta. Io però non credo che ciò sia possibile, se io fossi un creditore non accetterei certo di vedere il mio credito espresso in euro che diventerebbe di colpo unilateralmente espresso nella nuova lira. Forse si potrebbe ancora fare, ma appunto in maniera unilaterale, cioè si tratterebbe di fatto di un fallimento mascherato. Se tuttavia il debito restasse espresso in euro, è chiaro che il problema della dittatura degli interessi (dello spread diciamo oggi, usando come riferimento la Germania), si trasferirebbe sul mercato dei cambi e sul rapporto lira/euro, saremmo ancora nei guai. Mi fermo qui, sperando di essere stato chiaro, cosa non facile per la natura della materia e per la quantità di differenti aspetti che ho tentato di affrontare. Nei commenti, penso di potere chiarire meglio.
Vincenzo, scrivo soltanto ora perché il sito è stato bloccato per un paio di giorni.
Le banche non possono assolutamente fallire. Ne può fallire una; ne possono fallire due o tre. Ma un fallimento sistemico o anche soltanto di 30, 50 o 100 banche non risolverebbe la crisi ma la aggraverebbe, fino a produrre effetti catastrofici nei casi più gravi: http://www.comedonchisciotte.org/site/modules.php?name=News&file=article&sid=11692
Stefano, io non auspico certo il fallimento del sistema bancario, lo ritengo soltanto ineluttabile. Dei governi responsabili smetterebbero di iniettare nuovi narcotici-liquidità, e predisporrebbero nel più breve tempo possibile, un sistema bancario pubblico alternativo. Ciò comporta la distruzione di tutta quella cartaccia con la conseguenza drammatica di lasciare anche tanti risparmiatori a mani vuote, qualcosa si può fare per predisporre forme di protezione e di rimborso parziale, ma trovo stravagantre che invece i costi siano fatti ricadere su tutti e quindi anche su coloro che sono nullatenenti o che comunque si sono guardati bene da affidare le proprie risporse a questo sistema bancario criminale. I risparmiatori, pur innocenti sulla crisi, la loro colpa di fidarsi di chi affidabile non era, l'hanno avuta, che paghi chi ha dato credito a un soggetto sbagliato. .
L'alternativa è quella di rimanere sotto ricatto del sistema bancario (too big to fail), e questo è inaccettabile, anzi è incompatibile con la democrazia e in genere con il concetto di sovranità nazionale.
Dobbiamo disintossicarci prima che oltre ai titoli venga coinvolto lo stesso denaro che da un momento all'altro potrebbe dare luogo a un'inflazione mai vista: che facciamo poi, torniamo al baratto?
Bruciare il risparmio del popolo non ha senso e va evitato. Non capisco perché colpire chi ha 100.000 euro in banca e magari ha accettato di vivere in periferia in una piccola casa e non chi ha contratto un mutuo di 200.000 euro per acquistare a debito un immobile che già ora vale la metà. Consentiamo almeno a chi ha risparmiato di acquistare la casa di chi ha fatto un debito insostenibile!
In realtà non bisogna sacrificare né l'uno né l'altro; o forse, se necessario, un po' l'uno e un po' l'altro.
Riconquistata la sovranità monetaria, i titoli del debito pubblico verranno pagati; il risparmiatore perderà un po' in termini di interessi reali negativi, tanto più quanto sarà relativamente alta l'inflazione. Chi ha acquistato la prima casa con grossi debiti, va salvaguardato nel senso che promuovendo occupazione e stabilità del reddito rispetto all'inflazione, riuscirà a pagare la casa. Ma se dovesse rivenderla, perderebbe il 40% del valore. Questo non può essere evitato. E comunque dovrà consumare poco per i prossimi dieci anni (venti se follemente ha stipulato un mutuo a tasso variabile – i tassi si alzeranno). Anche questo sacrificio non può essere evitato.