Poche settimane fa è stato ucciso il capo di Hamas Yahya Sinwar. I governi e i media occidentali hanno celebrato l’evento, affermando che la sua eliminazione abbia reso il mondo più sicuro e avvicinato la pace in Medio Oriente. Cosa ne pensa?
Da giurista, mi sentirei più sicura in un mondo che permette alla giustizia internazionale di funzionare. Vorrei vedere proseguire il procedimento avviato dal Procuratore della Corte Penale Internazionale, Karim Khan, che aveva chiesto un mandato di arresto internazionale non solo per Sinwar e altri capi di Hamas, ma anche per il Primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu e per il ministro della Difesa Yoav Gallant. Il modo in cui Sinwar è caduto, combattendo fino all’ultimo respiro in battaglia, lo ha trasformato in un mito di resistenza per molti, in particolare per gli oppressi del mondo. Quindi credo che le analisi occidentali lascino il tempo che trovano, dimostrandosi chiacchiere da intellettuali da salotto.
Quali sono attualmente le condizioni a Gaza?
Per capire cosa sta avvenendo a Gaza, è importante innanzitutto definire i fatti. Quello a cui assistiamo non è una guerra, che presuppone lo scontro tra due eserciti, ma la violenza di uno stato occupante contro un popolo occupato. Non ci sono parole per descrivere le condizioni di vita a Gaza oggi; la situazione è catastrofica da mesi. Le testimonianze che raccogliamo sono tremende: centinaia di massacri, esseri umani bruciati vivi sotto le tende, uccisioni di civili stipati negli ospedali. Sappiamo di soldati israeliani che hanno deliberatamente ucciso bambini sparando loro alla testa; abbiamo video e fotografie che lo dimostrano. Tutto questo è incluso nel rapporto Genocide as Colonial Erasure che ho preparato per le Nazioni Unite. È il momento di riaffermare il diritto internazionale, sacrificato dall’idea degli Stati Uniti e di Israele che ogni linea rossa sia superabile di fronte all’idea, peraltro irrealistica, di sconfiggere un movimento politico usando la forza militare. Quella in corso a Gaza non è solo una crisi umanitaria, ma una crisi di umanità.
È d’accordo con chi sostiene che quello in corso a Gaza sia un genocidio?
Non ho dubbi su questo, e l’ho scritto nero su bianco nel mio secondo rapporto in qualità di Relatrice Speciale delle Nazioni Unite, dettagliando le analogie tra quanto avviene in Palestina e ciò che è accaduto in casi già classificati come genocidio in base alla legislazione vigente, come nel caso del Ruanda. Israele sta commettendo un genocidio, e questo è dimostrato non solo dalle azioni e dai massacri, ma forse soprattutto dagli intenti dichiarati e dall’incitamento di molti leader politici israeliani. Il governo israeliano sta scrivendo una delle pagine più nere e luride della storia contemporanea: sta utilizzando il genocidio del popolo palestinese come mezzo per raggiungere un fine politico dichiarato, quello della creazione di una Grande Israele come Stato ebraico senza palestinesi al suo interno, siano essi arabi o cristiani. Tutto questo sta avvenendo in diretta sui cellulari dei cittadini di tutto il mondo, mentre i leader occidentali continuano a giustificarlo parlando di diritto all’autodifesa.
Sono tante le dichiarazioni impressionanti che abbiamo letto in questi mesi da parte di leader israeliani, dalla definizione dei palestinesi come “animali umani”, alla rivendicazione del diritto di lasciarli morire di fame, fino alla loro definizione come “Amalek”, il nemico biblico contro il quale l’Antico Testamento incita all’uccisione. Quindi, sono anche queste dichiarazioni, oltre alle azioni militari, se ho capito bene cosa intende, che dimostrano la volontà genocida del governo israeliano?
Sì, è così. Nel diritto internazionale, l’articolo 2 della “Convenzione per la prevenzione e la repressione del delitto di genocidio” è chiarissimo nel definire questo crimine. Costituisce genocidio la volontà di distruggere, in tutto o in parte, un gruppo etnico, nazionale, religioso o razziale “in quanto tale”. Nel caso israeliano, un’ampia mole di dichiarazioni dei leader mostra chiaramente questa volontà. E poi ci sono le azioni, naturalmente. Secondo la Convenzione, siamo di fronte a un genocidio quando anche uno solo di questi tre atti viene messo in pratica: l’uccisione e l’inflizione di sofferenze fisiche e mentali ai membri del gruppo etnico allo scopo di creare le condizioni per la distruzione del gruppo stesso; l’uccisione e la sottrazione dei minori; la prevenzione delle nascite attraverso, ad esempio, la distruzione di ospedali e cliniche per la fertilità. Israele, a Gaza, sta portando avanti tutte e tre queste azioni in modo sistematico, per questo non c’è dubbio.
All’epoca dell’invasione russa in Ucraina, la Corte Penale Internazionale ha prontamente emesso un mandato di cattura internazionale contro Putin, mentre la richiesta di fare lo stesso contro il premier israeliano Netanyahu giace da mesi in attesa di una decisione. Non crede ci sia un pericoloso doppio standard da parte della giustizia internazionale?
Credo che i giudici della Corte siano sottoposti a una grande pressione. Attraverso il lavoro di coraggiosi giornalisti israeliani, sappiamo che già in passato i servizi segreti israeliani esercitarono fortissime pressioni e minacce contro l’ex procuratrice Fatou Bensouda per dissuaderla dal perseguire i crimini israeliani, e addirittura Donald Trump, quando era presidente degli Stati Uniti, le vietò di entrare negli USA. Inoltre, ho potuto leggere personalmente la lettera che alcuni senatori statunitensi ebbero l’ardire di inviare al procuratore Karim Khan, un messaggio di stampo mafioso con avvertimenti del tipo: «Sappiamo dove ti trovi e dove abita la tua famiglia». La lobby pro-Israele è fortissima e ramificata.
Anche lei è stata dichiarata “persona non grata” dal governo israeliano. Ha subito altri tipi di pressione per il suo lavoro di Relatrice Speciale?
Non posso dire che le pressioni non ci siano state e non ci siano tuttora. Ma chi decide di servire la giustizia, dedicando la propria vita a questo, è al servizio di un imperativo categorico più alto e deve mettere da parte le ragioni personali e la paura. Devo dire una cosa, mi fa male dirla, ma devo: ognuno di noi possiede almeno una cosa preziosa nella vita, nel mio caso sono i miei figli, ma il mio imperativo è non credere che essi valgano più dei figli dei palestinesi o di chiunque altro sia in difficoltà, perché anche loro hanno diritto alla vita e alla pace come tutti i bambini del mondo. Per questo vado avanti.
Cambiamo decisamente discorso, passando alle provinciali vicende della stampa italiana: non mi è capitato spesso di vederla intervistata dai giornali mainstream né nei dibattiti televisivi. È una sua scelta o non la invitano?
Io rilascio interviste e, anche se con spirito di sacrificio e senza entusiasmo, partecipo ai dibattiti televisivi perché penso che anche tre minuti a disposizione possano essere importanti. Sono spesso presente sui media di molti Paesi, ma in Italia non mi invitano. Sono stata invitata un paio di volte a dei talk show e ne conservo un’impressione pessima. Sa, io non vivo più in Italia da 22 anni e riscontro che nel panorama mediatico italiano c’è pochissimo approfondimento. Non in tutti i Paesi è così. Un amico mi aveva avvisato prima di partecipare a un programma TV in Italia: «Attenta, i talk show italiani sono dei pollai». Io non capivo cosa intendesse, poi l’ho imparato sulla mia pelle.
Nonostante il quadro dell’informazione delineato, anche in Italia assistiamo a una grande presa di coscienza sulla questione palestinese…
Sì, è così. C’è una grande presa di coscienza, specie tra i giovani, e finalmente c’è la capacità di leggere la storia palestinese con le lenti corrette, che non sono quelle del conflitto o della guerra di religione, ma quelle di una vicenda coloniale. L’intera storia del dominio israeliano in Palestina è una vicenda di abuso coloniale, lucidamente descritta dagli stessi leader che Israele considera propri padri fondatori. Solo analizzando la situazione attraverso questa giusta prospettiva si può comprendere l’azione dei due attori in campo per quello che è realmente: la violenza di un oppressore coloniale, da una parte, e la resistenza di un popolo che lotta per l’indipendenza, che dovrebbe essergli garantita dal diritto internazionale, dall’altra.
Tra l’altro, il diritto internazionale stabilisce anche che i popoli che lottano per l’indipendenza e l’autodeterminazione sono legittimati a combattere l’occupazione straniera “con tutti i mezzi disponibili, compresa la lotta armata”. Io l’ho scritto in un editoriale ed è scoppiato un mezzo putiferio, ma è la verità, la Risoluzione ONU 37/43 del 1982 dice esattamente questo…
Sono cose che non si possono dire nella maniera più assoluta, ma è così. Dovremmo averlo chiaro, specialmente in Italia, ma purtroppo quella del 25 aprile è divenuta una ricorrenza stantia, mentre dovrebbe essere un momento per ricordare come un popolo, attraverso la Resistenza, si è liberato dall’oppressione straniera.
Specie tra gli studenti sono nate centinaia di iniziative, cortei e proteste per la Palestina. Crede che la mobilitazione dal basso possa svolgere un ruolo per fermare il genocidio?
La mobilitazione popolare è la chiave di tutto, anche per far funzionare il diritto internazionale. Spesso sento dire che il problema è la necessità di una riforma dell’ONU, certo che c’è un problema in questo, ma la chiave non sono le riforme dall’alto, bensì le mobilitazioni dal basso, che hanno la possibilità di obbligare i governi a cambiare rotta. Si può agire non solo con le proteste, ma anche con azioni giudiziarie. Abbiamo ancora un sistema della giustizia che funziona: usiamolo per citare in giudizio le aziende che forniscono assistenza e supporto al sistema militare israeliano. L’importante è che la mobilitazione sia strategica, altrimenti la gente non vede un obiettivo e si stanca. Serve organizzazione e coordinamento, a livello locale e nazionale. Siamo molto vicini a un cambiamento politico epocale, a cominciare dall’emergere di un sistema multipolare. Ci siamo così dentro da non riuscire a vederlo, ma dobbiamo continuare a lottare e a spingere affinché questo sistema crolli.
Crede che l’emergere di un sistema multipolare al posto dell’egemonia americana possa migliorare la situazione anche per quanto riguarda l’applicazione del diritto internazionale?
Credo fortemente che un nuovo ordine mondiale, improntato al multipolarismo, sia un’opportunità per proteggere meglio tutti. Sulla carta, le leggi dovrebbero essere universali e uguali per tutti, ma vediamo che non è così. Un mondo multipolare rappresenta un’opportunità per rendere finalmente universale il diritto e le istituzioni che hanno il compito di applicarlo.
Considera giuste le iniziative di boicottaggio dei prodotti israeliani e quelle contro la cooperazione a livello universitario promosse dagli studenti?
Sono certamente legittime, giuste e potenzialmente molto efficaci. La campagna BDS (Boicottaggio, Disinvestimento e Sanzioni, ndr) lanciata contro Israele è legittima perché si muove nella legalità più assoluta e non chiede altro che l’applicazione del diritto internazionale. Il sistema di apartheid e genocidio portato avanti da Israele si nutre di radici economiche e finanziarie profondissime e capillari. Colpire queste radici è una delle chiavi per porre fine all’ingiustizia che subiscono i palestinesi.
La ringrazio per la disponibilità e, ancor di più, per il coraggio dimostrato nel rispondere in maniera netta alle domande. Prima di lasciarla andare, però, c’è un’ultima domanda che sento di doverle fare. Può apparire la più banale, ma di fatto è quella a cui nessuno ha una risposta: che futuro vede per il popolo palestinese? Riuscirà ad ottenere il proprio diritto ad avere una patria?
Questa è una delle poche certezze che ho. I palestinesi, come qualsiasi popolo indigeno, sono attaccati in modo viscerale alla propria terra. Vengono attaccati, uccisi, sradicati, ma non se ne vanno. I palestinesi hanno già fatto la storia, non il 7 ottobre, ma ogni giorno, dal 1948 a oggi, tenendo viva la propria causa di liberazione nazionale, che è una battaglia per la giustizia e i diritti di tutte e tutti. Tutto il mondo, di nuovo, si interessa a quanto accade in Medio Oriente, vede e riconosce la tragedia palestinese. Questo è successo per merito dei palestinesi stessi e, in Occidente, abbiamo la possibilità di prenderne pienamente coscienza anche grazie ai movimenti giovanili e studenteschi, che hanno avuto la capacità e la lucidità di decifrare la questione palestinese in un’ottica anticoloniale e di legarla ad altri aspetti della giustizia, come quella ambientale e sociale. È una questione centrale: solo se sapremo occuparci insieme di tutti questi aspetti, vedendo le connessioni tra gli elementi, potremo conquistare un futuro di diritti e giustizia per tutti.
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