Corea: la guerra “sospesa”
di LA FIONDA (Paolo Arigotti)
Quella di cui parleremo oggi potrebbe essere definita “un’azione militare figlia della Guerra Fredda, dove le due grandi potenze, Stati Uniti d’America ed Unione sovietica iniziarono, dopo la fine della II Guerra Mondiale, quando erano stati alleati, a scontrarsi sullo scacchiere mondiale”. A scrivere queste parole, qualche anno fa, fu il generale Fabio Mini, ex comandante NATO della missione KFOR in Kosovo, riferendosi a quella che è passata alla storia come la guerra di Corea, combattuta tra il 1950 e il 1953, e ufficialmente mai conclusa; non a caso, qualcuna la chiama ancora oggi la “guerra sospesa”.
Esattamente a metà secolo, il 25 giugno del 1950, poco prima dell’alba, scoppiava uno dei conflitti più sanguinosi del Novecento, il secolo breve che, come ben sappiamo, non ha risparmiato orrori e devastazioni di ogni genere. La guerra di Corea, nell’arco dei circa tre anni, coinvolse decine di milioni di persone e – direttamente o indirettamente – quasi tutte le maggiori potenze mondiali, dagli Stati Uniti (e alleati), schierati supporto della Corea del sud, all’Unione Sovietica e alla Cina popolare (nata ufficialmente solo un anno prima), che offrirono aiuto e sostegno al nord.
Il bilancio del conflitto fu tragico, circa tre milioni di persone, tra civili e militari, persero la vita.
Nonostante ciò, quando si pensa ai tanti (troppi) conflitti che hanno funestato la storia recente, non viene in mente quello coreano, in qualche modo “spodestato” nella memoria collettiva da quello in Vietnam, combattuto il decennio seguente. Ancora più strana questa sorta di amnesia collettiva, almeno in occidente, se si riflette sul fatto che dopo la nascita della “cortina di ferro”, quello coreano fu il primo e plateale scontro tra occidente capitalista e mondo comunista, senza escludere – come vedremo – il pericolo di una deflagrazione nucleare.
Prima di entrare nel merito, dobbiamo spendere qualche parola per comprendere come e perché si arrivò alla divisione della penisola coreana – ancora oggi in essere – tra il nord nell’orbita sovietica (e cinese) e il sud in quella statunitense.
La Corea aveva perso la sua indipendenza all’inizio del Novecento, quando a seguito della sconfitta della Russia zarista da parte del Giappone, era stata trasformata in un protettorato dell’impero del sol levante, e tale sarebbe rimasta sino alla fine della Seconda guerra mondiale. L’occupazione giapponese, durata quasi mezzo secolo, fu estremamente brutale, con lo sfruttamento selvaggio del territorio e della popolazione, accompagnate dalla repressione di ogni istanza di autonomia e/o resistenza; perfino l’uso della lingua coreana fu vietato, per imporre quella dei padroni.
Il regime di occupazione e poi la guerra mondiale lasciarono la Corea in macerie. Un’economia devastata e una popolazione provata da fame e privazioni di ogni genere. Gli accordi di Yalta, che sancirono ufficialmente la divisione del mondo in sfere d’influenza, avevano previsto un mandato fiduciario per la penisola, con una gestione condivisa tra USA e URSS, che avrebbe dovuto condurre il paese alla piena indipendenza. Le cose, però, andarono diversamente perché l’acuirsi delle tensioni e la nascente guerra fredda provocò quella frattura che sopravvive ancora ai giorni nostri.
Al nord già nel periodo di occupazione nipponica si erano fatti sempre più strada i movimenti di resistenza di ispirazione marxista, che avevano come punto di riferimento i comunisti, guidati da Kim Il-sung, nonno dell’attuale leader Kim Jong-un. Non che al sud non esistessero queste componenti, solo che gli americani, sempre più avversi al marxismo, li osteggiarono, nel timore di vedere tutta la Corea riunita sotto un regime di stampo sovietico; per questa ragione, decisero di far valere la loro egemonia nella parte meridionale della Corea, potendo contare in questo del sostegno della (allora) Cina nazionalista di Chiang Kai-shek.
In effetti, negli anni immediatamente successivi alla fine della guerra mondiale, i marxisti nord-coreani avviarono una fase di nazionalizzazioni e collettivizzazioni sul modello sovietico, mentre gli statunitensi sostennero sempre più apertamente le fazioni conservatrici del sud, che facevano riferimento a Syngman Rhee, nazionalista e convinto anticomunista, che promosse una vera e propria crociata contro chiunque venisse anche solo sospettato di simpatie socialiste, promuovendo una durissima repressione.
Nel 1948, quando la rottura tra le due superpotenze era oramai manifesta, furono indette le elezioni generali nelle due Coree, ancora non ufficialmente istituite. Nel sud le consultazioni, con accuse di brogli e irregolarità di ogni genere, sancirono la vittoria di Rhee, che proclamato presidente dichiarò la nascita della Repubblica di Corea, prontamente riconosciuta dagli USA e, a distanza di pochi mesi, dalle Nazioni Unite; nel paese sarebbe stata instaurata una spietata dittatura guidata dallo stesso Rhee, che sarebbe sopravvissuta anche sotto i suoi successori fino agli anni Ottanta.
Nel giro di pochi mesi anche a nord del 38^ parallelo si andò alle elezioni, vinte praticamente senza rivali dai comunisti, che a loro volta proclamarono la Repubblica Democratica Popolare di Corea, sotto la guida di Kim Il-sung, che assunse il ruolo di primo ministro; Mosca riconobbe il nuovo governo, ordinando il ritiro delle proprie truppe nel settembre del 1948.
La divisione delle due Coree veniva sancita ufficialmente.
A questo punto occorre chiedersi come e perché, appena due anni dopo, scoppiò la guerra.
Non è facile rispondere, perché ascoltando le due parti, la versione dei fatti è molto diversa, per non dire opposta. Nella narrazione ufficiale delle due Coree, ancora oggi ciascuna parte addebita all’altra la responsabilità della deflagrazione.
La verità è che, comunque andarono le cose, a far scoppiare l’incendio fu il clima della guerra fredda, che fece del conflitto quello che oggi potremmo chiamare una proxy war, come certifica il fatto che larga parte delle operazioni belliche furono eterodirette dalle potenze di riferimento.
Il conflitto deflagrò mentre erano ancora in corso le trattative, condotte da commissioni miste russo-americane, che avrebbero dovuto trovare una soluzione definitiva allo status della penisola coreana, ma che di fatto furono archiviate – e praticamente mai più riprese – con lo scoppio della guerra. Il crescente anticomunismo nell’Amministrazione Truman – che vedeva in John F. Dulles (allora inviato per la Corea, e poi segretario di Stato con Eisenhower) e nel Segretario di Stato Dean Acheson[1], i suoi “falchi”, non avrebbe mai tollerato di vedere l’intera penisola cadere nelle mani dei marxisti, ed è del tutto plausibile che senza l’appoggio di Washington il regime di Rhee difficilmente sarebbe sopravvissuto, fortemente osteggiato all’interno per via della deriva sempre più smaccatamente autoritaria.
Tornando alle due versioni ufficiali, per i coreani del sud a far scoppiare la guerra sarebbe stato – quel fatale 25 giugno del 1950 – l’attacco da nord, fomentato dai sovietici; fu questa la versione che venne presentata in sede ONU e patrocinata dagli statunitensi, per bocca dell’ambasciatore a Seoul, John Muccio.
Molto diversa, per non dire opposta, la versione dei nord coreani. La notte del 24 giugno sarebbero state le forze armate del sud, precedute da una serie di bombardamenti – tra il 23 e il 24 giugno le forze di Seoul avevano bombardato le linee del Nord e occupato la città di Haeju – ad avanzare in territorio nordcoreano, spinte dagli statunitensi, ragion per cui – letta in questi termini, e anche volendo dare per buona un’azione autonoma e non concordata con Washington del sud – quella dei nord coreani del 25 giugno sarebbe stata una reazione a un attacco.
Il conflitto si articolò in varie fasi, la prima delle quali fu appannaggio dei coreani del nord.
L’incursione condotta col ricorso all’artiglieria pesante, alla fanteria e ai carri armati di fabbricazione sovietica (i T34), quasi annientarono le difese del sud, mentre le unità motorizzate nordcoreane riuscirono in breve tempo a tagliare le linee di rifornimento del nemico. La strategia si rivelò talmente efficace, che già il 28 giugno le forze di occupazione riuscirono ad arrivare e conquistare la stessa Seoul; stando alla versione di Pyeongyang, la rapida avanzata fu resa possibile anche dall’appoggio popolare trovato tra molti ex-guerriglieri e simpatizzanti, che si sarebbero uniti alle forze del nord; per i comunisti, i sudcoreani avrebbero accolto con grande favore l’arrivo delle loro truppe, tanto da scatenare più avanti la durissima reazione del regime di Rhee, che si scatenò contro i civili che li avevano accolti come liberatori.
A settembre del 1950, appena tre mesi dopo l’inizio del conflitto, la vittoria nordcoreana sembrava già scritta: le forze di Seoul praticamente controllavano solo una parte del territorio di Pusan, nell’estremo sud della penisola.
A quel punto gli statunitensi decisero di scendere in campo con tutte le loro forze, scatenando una serie di pesanti bombardamenti aerei sul nord, e costringendo le forze di occupazione ad arretrare, fino ad arrivare alla capitale Pyongyang, che fu occupata. Anche Londra giunse in soccorso del sud, inviando una portaerei leggera e contribuendo alla formazione di un blocco intorno alla Corea del Nord, con l’aviazione britannica che ebbe la meglio su quella nemica.
Il 7 luglio del 1950 il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite – grazie alla mancata partecipazione del rappresentante sovietico, che contestava l’attribuzione del seggio permanente alla Cina nazionalista, in luogo di quella Popolare – adottava due distinte risoluzioni, che sposavano in toto le ragioni dei sudcoreani, dichiarando l’azione di Pyeongyang come un’aggressione contraria alla pace, e dando luce verde all’invio nella penisola di un comando militare sotto la guida del generale americano Douglas MacArthur, composto da 180mila uomini, a fronte dei circa 98 mila che combattevano per la Corea del Nord.
Il rovesciamento delle sorti del conflitto spinse la Cina di Mao Tse-tung all’intervento diretto, con l’invio di centinaia di migliaia di uomini, tra civili e militari; i nordcoreani avevano già potuto contare sul sostegno dei sovietici, che per tutta la guerra non mancarono di rifornire l’esercito rivoluzionario con mezzi militari, materiale radio e sanitario, oltre a munizioni per le armi pesanti. Al di là della propaganda martellante, la più forte motivazione ideologica dei combattenti cinesi e nordcoreani, rispetto alle forze del sud e agli stranieri, avrebbe contribuito non poco a favorirne l’avanzata, accompagnata da un abile azione di guerriglia, che si sarebbe rivista in Vietnam. Nei ricordi di un combattente USA, il tenente colonnello di artiglieria Joseph Sites, venne avanzato addirittura il sospetto che i guerriglieri cinesi fossero stati drogati per incitarli all’azione, che provocò molte vittime tra le loro file.
Fatto sta, che tutto ciò determinò una nuova inversione nell’andamento del conflitto, che permise al nord di recuperare larga parte del terreno perduto.
Pechino, secondo la propaganda ufficiale, avrebbe così ripagato i coreani dell’aiuto ricevuto durante l’occupazione giapponese della Manciuria, ma è assai più probabile che a spingere la dirigenza cinese fu la prospettiva di ritrovarsi ai confini uno stato nemico, sotto l’egida statunitense. L’arrivo dei cinesi in territorio coreano si concretizzò nel mese di ottobre del 1950.
Alcuni documenti[2] recentemente ritrovati negli archivi russi, ci dicono che Mao informò preventivamente Stalin della sua decisione, nonostante i timori, che circolavano all’interno dell’entourage del grande timoniere, e che pare fossero in parte condivisi perfino dal leader sovietico, che il conflitto, in caso di esito infausto, potesse accrescere potere e influenza degli americani nella regione. In questo senso, non è escluso che il dittatore possa aver visto con favore l’intervento cinese, per evitare di essere coinvolto in prima persona e direttamente in uno scontro con gli americani [3].
Stando ad alcune ricostruzioni storiche, la decisione di supportare la Corea del nord potrebbe aver distratto Mao dall’obiettivo di conquistare Taiwan, dove nel frattempo si erano rifugiati i nazionalisti sconfitti di Chiang Kai-shek, a difesa dei quali, e in funzione preventiva, Harry Truman inviò la Settima flotta, a presidio dello Stretto di Formosa.
Come scrive nello studio dedicato alle operazioni belliche in Corea Luciano Luciani[4]: “Una delle esperienze più significative ed ancor oggi di attualità ricavate dalla guerra di Corea è l’esigenza di disporre dell’assoluta supremazia marittima per condurre operazioni oltremare. Infatti, se gli Stati Uniti non avessero avuto il predominio sui mari che circondano la Corea non avrebbero potuto opporsi con successo all’aggressione comunista.”
Questa esperienza ha insegnato molto agli USA, non a caso definiti ancora oggi come una potenza talassocratica, contribuendo a incrementare ai loro occhi l’interesse per il cosiddetto Indo pacifico (che allora non si chiamava così[5]), oltre naturalmente a enfatizzare lo scontro tra i due blocchi, che avrebbe poi avuto la sua nemesi nella guerra in Vietnam.
Come in tutti i conflitti, non meno importante si rivelò la guerra di propaganda, nella quale i combattenti comunisti (cinesi e nordcoreani) si dimostrarono molto più abili, dipingendo le truppe del sud come dei semplici fantocci al servizio degli imperialisti d’oltreoceano; i prigionieri di guerra catturati dai combattenti per il nord – spesso internati per diversi anni in campi di prigionia[6] – furono fatti partecipare a trasmissioni radiofoniche, nel corso delle quali venivano, più o meno spontaneamente, indotti a denunciare una serie di presunti crimini commessi dalle truppe dell’ONU. La verità è che, al di là della propaganda, i marxisti conducevano (o erano convinti di farlo) una lotta esistenziale e fortemente ideologizzata, e la motivazione in guerra conta molto di quel che non si pensi!
Gli americani, assieme al mandato delle Nazioni Unite, poterono contare sul supporto di ben diciassette nazioni, tra le quali, come abbiamo accennato, il Regno Unito, la Francia, il Sudafrica e il Giappone; l’Italia si limitò a inviare personale medico militare[7], allestendo un presidio della Croce rossa nei pressi di Seoul, che rimase operativo anche dopo la conclusione del conflitto e venne infine donato alla Corea del sud. Si trattò della prima missione militare all’estero delle nostre forze, dopo la conclusione del secondo conflitto mondiale.
Il 7 ottobre del 1950 venne adottata una nuova risoluzione delle Nazioni Unite, decisa nel corso dell’Assemblea generale, che autorizzò l’avanzata delle truppe ONU oltre il 38° parallelo, con l’obiettivo finale di riunificare le due Coree. Ma come dicevamo, il decisivo contributo cinese aveva nuovamente rovesciato le sorti del conflitto, rifilando diverse e cocenti sconfitte al comando ONU. In questo senso, si comprende bene come gli statunitensi non abbiano apprezzato l’uscita nel 2021 del kolossal cinese intitolato “La battaglia di Lago Changjin”, che ripercorre l’omonima battaglia, combattuta tra il 23 novembre e il 13 dicembre 1950, tra le forze di Pechino e quelle a stelle e strisce, e che determinò – sia pure a prezzo di ingenti perdite umane – la definitiva disfatta delle forze americane (e dei loro alleati) nella parte nordorientale della Corea del Nord. Pechino ha evidentemente imparato ad apprezzare l’effetto propagandistico dell’industria cinematografica, circa la quale Hollywood ha molto da insegnare.
A fronte delle nuove sconfitte e scartata l’opzione del ricorso all’arma atomica contro la Cina (e, forse, la Siberia sovietica), per scongiurare il pericolo di una nuova guerra mondiale, l’Amministrazione Truman dovette fronteggiare la crescente insofferenza della propria opinione pubblica, sempre più contraria all’invio di migliaia di uomini in una terra (e per una causa) percepita come estranea e remota.
Gli stessi soldati inviati al fronte non erano di sicuro entusiasti. Nonostante la propaganda si desse molto da fare per innalzare l’umore delle truppe – resta famosa la performance dell’attrice Marilyn Monroe – basterebbe leggere le righe scritte da un militare per comprendere lo stato d’animo: “Proprio in mezzo al nulla, E a migliaia di chilometri da te. Sudiamo, congeliamo e tremiamo. È più di quanto un uomo possa sopportare. Non siamo un gruppo di detenuti stiamo solo facendo la nostra parte. Siamo soldati nell’esercito, guadagnandoci la nostra misera paga, per far da guardia a tutti i milionari per quattro schifosi scellini al giorno.” E a tante altre testimonianze, reperibili in rete, dimostrano che si trattava di un punto di vista tutt’altro che isolato.
Furono le incertezze (e le atrocità) presenti in ambedue i versanti circa l’esito finale di un conflitto che si era dimostrato molto altalenante, assieme alla valutazione degli ingenti costi in termini umani e finanziari, a spingere più di tutto nella direzione della tregua.
Preceduta da una serie di contatti e primi negoziati avviati già nel mese di luglio del 1951, in un primo momento gli incontri tra la delegazione comunista sino-coreana e quella ufficiale in rappresentanza del comando ONU non raggiunsero l’intesa sul ritiro integrale delle truppe straniere: gli occidentali rifiutarono tale proposta.
Le posizioni erano così distanti, che ci sarebbero voluti altri due anni per arrivare alla tregua, siglata tra americani e nordcoreani il 27 luglio del 1953 a Panmunjon, località poco a più a sud di Kaesong, preceduta dall’intesa di maggio per la creazione di una Commissione neutrale per il rimpatrio. Alla conclusione dell’estate del ’53 ci si accordò sul rimpatrio di circa 176mila del campo comunista e 13.444 occidentali, mentre alla commissione vennero affidati coloro che non volevano tornare in patria: circa 22.000 comunisti e 359 occidentali[8].
Nei negoziati non ebbe alcuna parte Rhee, che era fuggito dal paese all’indomani dell’avanzata nordcoreana del giugno del 1950, per farvi ritorno solo dopo la fine della guerra, dove conservò il potere fino al 1960. Nonostante nel 1954, firmato l’armistizio, venisse convocata a Ginevra una conferenza di pace, quest’ultima non portò a nessun risultato, ragion per cui ancora oggi – sia pure formalmente – la guerra di Corea non si è mai conclusa, esistendo solo un armistizio (il più lungo della storia); fu anche per questa ragione, che nel quarto di secolo che fece seguito all’armistizio, le forze della Corea del Sud rimasero formalmente alle dipendenze del Comando ONU (a guida statunitense).
Ora come allora, la penisola coreana è spaccata in due, lungo la linea del 38° parallelo, a presidio della quale è collocata la cosiddetta zona demilitarizzata (DMZ), larga grossomodo quattro 4 chilometri, e lunga 250, che si staglia dal mar Giallo a quello dell’Est. Come spiega il generale Mini: “La zona non è affatto demilitarizzata, anzi: oltre un milione di soldati, 20 mila mezzi corazzati e artiglierie, più di un milione di mine e centinaia di capisaldi fortificati sono concentrati in una stretta fascia attorno alla linea di demarcazione. Inoltre, entrambi gli schieramenti non hanno profondità strategica ed i centri nevralgici delle due parti (coincidenti con le capitali) che distano appena 40 chilometri (Seul) e 125 chilometri (Pyongyang)”[9]. E resta anche il problema delle famiglie divise dalla guerra, che ancora oggi impedisce a decine di migliaia di nuclei di potersi riunire.
Si discute il peso che potrebbe aver avuto nella direzione del cessate il fuoco da un lato la minaccia, neanche troppo velata, di Dwight “Ike” Eisenhower, subentrato a Truman alla presidenza degli Stati Uniti con le elezioni del 1952, di ricorrere alle armi nucleari, e – sul versante opposto – la morte di Stalin, intervenuta nel marzo del 1953.
Sullo sfondo una guerra che è costata la vita a milioni di persone[10], la devastazione di numerose città e villaggi, lo sganciamento di un numero di bombe superiore a quelle contro il Giappone durante l’intera Seconda Guerra Mondiale[11], il ricorso ad armi batteriologiche e bombe al napalm, che ritroveremo tristemente in Vietnam.
Ma soprattutto resta aperto un contenzioso, del quale ancora oggi si vedono gli effetti. Una penisola divisa in due e costanti “scaramucce”, intercalate da alcune fasi di dialogo e apertura, che sull’onda delle nuove divisioni che si profilano nel nostro povero pianeta, rischiano di fare ancora una volta di fare della penisola coreana – stavolta forse non solo di quella – il teatro di un conflitto sanguinoso e distruttivo.
Tra la fine del decennio scorso e il 2021 sembrava che si potessero aprire nuovi spiragli, con una timida disponibilità al negoziato del governo nordcoreano: in pratica, in cambio della conclusione ufficiale della guerra, previa denuclearizzazione della penisola coreana, si sarebbe giunti al riconoscimento reciproco tra i due governi, mai formalizzato. Tuttavia, il crescente clima da escalation, pure sull’onda di quanto sta avvenendo in altri teatri bellici, pare aver nuovamente chiuso la porta a ogni prospettiva di pace, per lo meno nell’immediato futuro.
Una conferma la si potrebbe leggere nelle dichiarazioni, rese alcune mesi fa, dal ministro della Difesa nordcoreano, Kang Sun Nam, il quale ha accusato gli Stati Uniti di avere “…. dispiegato nella Corea meridionale enormi mezzi nucleari strategici, tra cui un sottomarino a propulsione nucleare, un bombardiere strategico e una portaerei nucleare tattica e ha condotto diverse grandi esercitazioni militari congiunte simulando una guerra totale con noi. Queste esercitazioni sono state senza precedenti in termini di scala, intensità e durata“, aggiungendo che “… il fatto che scoppi o meno una guerra nucleare nella penisola coreana, la questione è chi, quando e come la scatenerà“.
Secondo una sintesi della guerra di Corea che abbiamo apprezzato molto: “mentre gli eserciti combattevano accanitamente (sul fronte si contarono oltre 700.000 morti ed un milione tra feriti e prigionieri) e le popolazioni coreane erano sottoposte ad indicibili sofferenze, nelle cancellerie dei Paesi coinvolti si cercava di trarre profitto politico dai combattimenti e di affermare il proprio prestigio nell’ambito della competizione globale tra Est ed Ovest.”
Il conflitto in Corea è sono un esempio di quelle tante “guerre sono fatte da persone che uccidono senza conoscersi, per gli interessi di persone che si conoscono ma non si uccidono.” Ad averlo detto non siamo stati noi, ma Pablo Neruda, con l’aggravante che si trattò di un conflitto che non produsse (ora come allora) nessun risultato concreto, chiudendosi più per esaurimento delle forze, che per la reale volontà di porre fine a un bagno di sangue, lasciando le cose esattamente come erano prima del suo scoppio inizio (e come ancora oggi permangono).
A volerla dire tutta, forse gli unici a trarne un qualche vantaggio – uno di quei tanti paradossi che la storia ci propone – furono le nazioni sconfitte nella guerra mondiale appena conclusa – Italia, Germania e Giappone – che grazie alla posizione strategica nello scacchiere e alle divisioni che la guerra aveva palesato, ne guadagnarono venendo riammesse nella comunità internazionale, e lucrando grazie alle ricche commesse militari (specialmente Giappone e Germania). Giusto per citare due fatti significativi, nel 1951 fu firmato il trattato di pace con Tokyo e nel 1955 l’Italia poteva fare il suo ingresso nelle Nazioni Unite
Ma questa è un’altra storia.
FONTI
Bruno Bongiovanni, Storia della guerra fredda, Laterza, 2005
Federico Romero, Storia della guerra fredda, Einaudi, 2009
AA.VV., Storia della guerra di Corea, Anteo edizioni, 2024
it.insideover.com/schede/guerra/la-guerra-di-corea-un-conflitto-mai-finito.html
“Italia e guerra di Corea, di Nico Perrone, Storia in rete, n. 1 del 2005
web.archive.org/web/20110715215412/http://www.nyconsulate.prchina.org/eng/xw/t31430.htm
web.archive.org/web/20070927195348/http://www.info-france-usa.org/atoz/koreawar.asp
web.archive.org/web/20061101080222/http://www.korean-war.com/soafrica.html
storiainrete.com/cina-battle-at-lake-changjin-sbanca-al-botteghino-e-fa-arrabbiare-gli-usa/
www.panorama.it/news/viaggio-nella-guerra-di-corea-la-testimonianza-di-un-sopravvissuto
www.tuttocina.it/Mondo_cinese/097/097_ferr.htm#1
it.insideover.com/schede/storia/che-cose-e-a-cosa-serve-la-zona-demilitarizzata-coreana.html
www.ispionline.it/it/pubblicazione/corea-del-nord-venti-di-guerra-158948
www.cese-m.eu/cesem/2023/08/la-guerra-nucleare-potrebbe-partire-dalla-penisola-coreana/
www.ilsole24ore.com/art/pace-le-coree-ecco-5-ragioni-svolta-kim-jong-un-AE7LxkfE?refresh_ce=1
[1] A dirla tutta, era stato lo stesso Dean Acheson, nel corso di un discorso fatto il 12 gennaio 1950 dinanzi al Circolo della Stampa di Washington, ad affermare che la Corea non rientrava tra gli interessi americani. Ma presto avrebbe cambiato idea.
[2] Stalin, Mao, Kim And China’s Decision To Enter The Korean War; September 16 October 15, 1950: New Evidences From The Russian Archives article and translation by Alexander Y. Mansourov, ‘Cold War International History Project’ Bulletin, Wodrow Wilson International Center for Scholars, n. 5/6, 1996
[3] www.tuttocina.it/Mondo_cinese/097/097_ferr.htm#1
[4] www.societaitalianastoriamilitare.org/COLLANA%20SISM/Luciano%20Luciani%20Le%20Operazioni%20Militari%20della%20Guerra%20di%20Corea.pdf
[5] www.parlamento.it/application/xmanager/projects/parlamento/file/repository/affariinternazionali/osservatorio/approfondimenti/PI0170.pdf
[6] I campi di prigionia durante la guerra di Corea,
di Mattia Palermo
[7] La decisione fu essenzialmente il frutto di una scelta politica di non prendere posizione, a pochi anni dalla fine della guerra e in un contesto politico (interno e internazionale) molto critico per il nostro paese, frontiera col blocco socialista (rif. “Italia e guerra di Corea, di Nico Perrone, Storia in rete, n. 1 del 2005)
[8] Per Luciani, questo è il bilancio complessivo: “Gli Stati Uniti denunciarono 36.516 morti e 92.134 feriti, oltre a
15.000 tra dispersi e prigionieri; la Corea del Sud 58.127 morti,
175.743 feriti e circa 80.000 dispersi e prigionieri; gli altri Paesi della
coalizione occidentale 2.685 morti, 7.334 feriti, dispersi e prigionieri.
I dati statistici delle perdite della coalizione comunista sono meno
precisi. Essi si basano su stime attendibili, secondo le quali la Corea
del Nord subì 215.000 morti, 300.000 feriti e 120.000 tra dispersi e
prigionieri. I cinesi subirono perdite valutate dagli occidentali in
400.000 morti, 486.000 feriti e 21.000 prigionieri. Anche l’U.R.S.S.
ebbe 282 morti, in parte piloti che volavano con insegne cinesi o
nordcoreane ed in parte consiglieri militari al seguito delle truppe in
prima linea.”
[9] www.reportdifesa.it/le-due-coree-una-storia-nata-nel-1949-il-ruolo-dellitalia-nel-conflitto-degli-anni-50/
[10] Per essere precisi, si stimano 2 milioni di civili e 500 mila soldati morti per le due Coree, assieme a un numero variabile tra 1 a 3 milioni di militari cinesi, cui si sommano 54.246 americani e 3.194 di altre nazionalità.
[11] 635mila tonnellate di bombe convenzionali, contro le 503mila usate nel Pacifico.
FONTE:https://www.lafionda.org/2024/12/12/corea-la-guerra-sospesa/
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