La cultura deve essere cosmopolita; l’economia politica deve essere nazionale
Stefano D'Andrea
Perché il sistema finanziario deve essere nazionale, ossia chiuso?
Perché uno stato sovrano, libero di disciplinare la quantità di moneta immessa nel sistema, da se stesso o dalle banche commerciali, nonché le modalità di immissione, tanto più se molte banche commerciali (o almeno le grandi) sono pubbliche, non ha alcun bisogno di consentire che l’attività economica pubblica o privata sia finanziata da denaro creato all’estero.
Questa evidenza, lapalissiana, è negata, o meglio rimossa, da quasi tutti i mezzi keynesiani, compresi i neokeynesiani, che da tempo spadroneggiano sulla rete, ricevendo grande successo.
Molti di essi sono statunitensi e quindi abituati a ragionare su un sistema che non ha le caratteristiche e i problemi degli altri. Se negli Stati Uniti c'è una crisi finanziaria, i capitali accorrono negli Stati Uniti o comunque non scappano; mentre se la crisi finanziaria si verifica in Italia, i capitali scappano. Questa e altri simili constatazioni dovrebbero indurre le persone di buon senso ad applicare la massima: "coloro che, discorrendo di temi economici, recano l'esempio degli Stati Uniti o sono sciocchi, se sono in buona fede, o sono impostori, se sono in mala fede".
Tuttavia, molti mezzi-keynesiani o mezzi-neokeynesiani sono italiani o europei. Essi vorrebbero essere eterodossi, senza contestare il principio globalistico. Insomma vorrebbero accogliere tutti i fondamenti dell'economia cosmopolita e poi fare gli eterodossi sui corollari o su quelli che credono (o fingono di considerare) principi e che invece non sono principi, perché al di sotto di essi si trovano le vere fondamenta.
Capita allora, nel rileggere la "Lettera degli economisti", dalla quale appresi molto, perché io non sono né un economista né uno studioso di economia, di rinvenire un commento di un umile professore di materie giuridiche, che aveva previsto meglio di tutti gli economisti ciò che sarebbe avvenuto e avverrà: "Condivido molte delle proposte politiche degli economisti. Saranno gli Stati ad attuarle, prima o poi. Oggi giuridicamente non possono perché hanno ceduto sovranità alla UE. Quest'ultima, astrattamente può tutto, come dimostra la decisione di acquistare i titoli degli stati, anche in deroga all'ordine giuridico europeo: è il Sovrano che decide nello "stato di eccezione". Ma l'Ue non prenderà quelle decisioni e si disintegrerà o si trasformerà in un ordinamento, simile a quello attuale, con minori vincoli per gli Stati e minore ampiezza spaziale".
Il problema è che gli economisti critici non capiscono o fingono di non capire o non vogliono capire – per non apparire chiusi e gretti (ma in realtà intelligenti) e per gioire nel dichiararsi globalisti – che un controllo politico sull'economia, necessario per agire sulla redistribuzione della ricchezza, per evitare squilibri o bolle, ovvero per perseguire una linea severamente ambientalista, può aversi soltanto in uno Stato sufficientemente chiuso, anzi direi molto chiuso, nei limiti del possibile, sotto il profilo economico. Per esempio, accettata la concorrenza bancaria con banche di Stati esteri (era la nostra condizione prima dell'euro), lo Stato, anche se formalmente "sovrano", perde (di fatto) gran parte del potere di discplinare il risparmio ed il credito. Non serve essere economisti per capire questa ovvietà. Però non riesco a capire perché gli economisti critici non pongano questa ovvietà a presupposto delle loro analisi e soprattutto delle loro proposte.
Eppure Keynes era stato così chiaro: "Sono perciò più d’accordo con quelli che vorrebbero ridurre l’intreccio economico tra le nazioni che non con quelli che lo estenderebbero. Idee, conoscenza, arte, ospitalità, viaggi: queste sono le cose che per loro natura dovrebbero essere internazionali. Ma cerchiamo di far sì che i beni vengano prodotti al proprio interno quanto più ragionevolmente e convenientemente possibile; e soprattutto che la finanza sia essenzialmente nazionale” (Keynes, Autosufficienza nazionale, 1933).
Insomma la cultura deve essere cosmopolita; l'economia politica deve essere nazionale.
Anzi, a ben vedere, occorre essere più precisi: quasi tutti gli economisti che oggi stanno avendo successo, non sono mezzi keynesiani; sono falsi keynesiani, perché la parte delle proposte di Keynes che essi trascurano è il presupposto o fondamento della parte che essi accettano. Per essi tutto si riduce a suggerire un po' di politiche espansive, nei limiti del globalismo e delle possibilità concesse da quel fronte avanzato (il più avanzato) del globalismo che è l'Unione europea. Ecco perché per risolvere i problemi di una nazione propongono ingenuamente politiche economiche ad altre nazioni – esempio tipico: "se la Germania elevasse i salari, l'Italia risolverebbe parte dei propri problemi". E' un assurdo logico che deriva dall'accettazione dell'economia politica cosmopolita.
«Art. 1. – l’Italia è una Repubblica federale democratica, fondata sul lavoro. La sovranità appartiene ai popoli, che la esercitano nelle forme e nei limiti della Costituzione».
sbaglio o qualcosa non quadra?
fonti:
http://www.senato.it/japp/bgt/showdoc/frame.jsp?tipodoc=Ddlpres&leg=16&id=00650394&part=doc_dc-articolato_ddlc-art_a6cdsf&parse=no
La Costituzione non riconosce venti popoli, tanti quante sono le regioni. Il popolo è uno.
Né venti popoli esistono sotto il profilo non giuridico ma sociologico. Il popolo italiano forse comprende il popolo sardo. Utilizzando criteri più ampi, a parte qualche minoranze al nord sulle montagne, forzando il concetto, forse se ne trovano altri due. Poi basta.
articolo brillante e veritiero. Eccezionale, bravissimo D'Andrea