Il contrario dell’emancipazione
di GLI ASINI (Lucia Tozzi)

La piaga della turistificazione
Che il turismo procuri infiniti guai alle città e ai territori è un fatto finalmente riconosciuto e dibattuto ovunque nel mondo. Che l’impatto del turismo sulla città di Napoli sia se possibile ancora più dannoso che in altre città d’arte come Venezia o Firenze è documentato oramai da parecchi studi e ricerche, accademiche e non, oltre che da innumerevoli inchieste giornalistiche. Cito come fonti ineludibili il libro di Alessandra Esposito Le case degli altri e quello di Alessandra Caputi e Anna Fava Privati di Napoli, entrambi recenti e documentati, ma la lista è lunga e mostra inequivocabilmente che quella simulazione di nuova ricchezza e sviluppo che il flusso turistico improvviso ha portato a Napoli è in realtà un dispositivo che acuisce, anziché mitigare, le già gravissime disuguaglianze presenti sul territorio: incentiva il tasso di espulsione dal centro di una popolazione più svantaggiata sul piano economico e sociale rispetto a quella di altre città, le priva di servizi essenziali e della fruizione di spazi pubblici, e desertifica le altre attività lavorative formali e informali in cambio di un’offerta lavorativa precaria, spesso al nero e senza prospettive nel campo dell’accoglienza.
Tutto questo accade, tra le altre cose, perché il boom turistico degli ultimi anni a Napoli non si basa come in altri luoghi sulle rinomate risorse naturali, sul pur ricchissimo patrimonio di monumenti e luoghi di cultura, ma sul folklore colorito dei suoi quartieri più popolari: Sanità, Quartieri Spagnoli e Forcella. Quartieri popolari che rischiano di fare la fine spettrale dell’Alfama a Lisbona, per fare un esempio: un quartiere abitato ormai solo da guide turistiche, ristorantini e comparse che offrono cioccolatini ai turisti.
Naturalmente il ceto politico, le classi dirigenti e il settore delle imprese della ristorazione e dell’accoglienza negano l’evidenza, alimentando l’eterna narrazione del turismo panacea dell’economia e dello scambio culturale. Fanno il proprio interesse, nessuno si stupisce più di tanto.
È molto più grave, invece, che tra i grandi promotori del turismo a Napoli – e in particolare nei tre quartieri più fragili, Sanità, Forcella e Quartieri Spagnoli appunto – giochino un ruolo da protagonisti i più noti attori del Terzo settore locale: Fondazione Con il Sud, Fondazione Foqus, Fondazione di Comunità San Gennaro, l’associazione L’altra Napoli e una rete di cooperative e imprese sociali.
Le contraddizioni dell’universo no profit
È a partire da questo paradosso che prende la mossa il libro di Luca Rossomando L’impresa del bene. Terzo settore e turismo a Napoli (Carocci, 2024). Come è possibile che proprio quegli enti lodati sopra ogni altra cosa da tutti i giornali, identificati come gli autori del riscatto della città, l’esempio da imitare, continuino non solo ad alimentare attivamente la mortifera turistificazione, ma anche a benedire il fenomeno come la via maestra per uscire dai mali storici della città, dalla malavita e dalla miseria diffusa? Fornendo in questo modo il migliore alibi all’amministrazione per non fare nulla per arginare la violenza del fenomeno?
È una domanda cui non è facile trovare una risposta univoca, ma che soprattutto non era mai stata posta, perché viviamo in un’epoca storica in cui esercitare uno sguardo critico sulla realtà è già molto difficile, ma analizzare criticamente il Terzo settore è un tabù quasi assoluto. Esiste una scarna letteratura che ha avanzato dei dubbi sul filantrocapitalismo internazionale (penso soprattutto in Italia al libro di Nicoletta Dentico, Ricchi e buoni), sulle fondazioni bancarie italiane (I signori delle città di Di Nunzio e Gandolfo), sull’ambiguità degli aiuti umanitari (l’omonimo libro di Giulio Marcon ma anche un libello di Eyal Weizman, Il male minore), e infine sulla problematicità di vari aspetti della galassia no profit (Contro il no profit di Moro, la finanziarizzazione, la precarizzazione del lavoro e l’imprenditorializzazione negli scritti di Davide Caselli da Esperti in poi, il romanzo I buoni di Luca Rastello, il ruolo del privato sociale nelle politiche classiste e del decoro a Torino in La Venere degli stracci di Francesco Migliaccio, gli effetti della digitalizzazione sul lavoro sociale visti da Renato Curcio, e quelli dell’assimilazione del lavoro culturale nell’ambito dell’impresa sociale descritti dal gruppo “Mi riconosci?”), ma in generale non è stata ben accolta. Un muro di ostilità accoglie queste opere, che vengono considerate eccessive, ingiuste, parziali, se non espressione pura e semplice di fuoco amico e disfattismo maligno.
Nella società neovittoriana in cui siamo immersi, chi si identifica con le istituzioni del bene non è disposto ad accettare alcuna scalfittura alla propria immagine benevolente. Il controllo assoluto della propria reputazione è un diritto riconosciuto, anche di fronte all’evidenza delle più spinose contraddizioni.
Emancipazione o competizione?
Tanto più pregevole, quindi, è il lavoro di Rossomando che ha affrontato di petto la questione napoletana, prima nel libro Le nuove recinzioni (2024) e poi in questo. La sua è una posizione difficile e autorevole allo stesso tempo, perché a sua volta ha lavorato e lavora nel sociale, nel settore educativo, e se da un lato la sua analisi rischia di essere interpretata come un tradimento o una resa dei conti personale, dall’altro nessuno può accusarlo di essere uno di quegli intellettuali “buoni solo a giudicare dal divano di casa”, perché parla da interno, come persona che trae il suo sapere dal fare oltre che dallo studio e non si fa intimidire dal sistema di relazioni in cui è immerso.
La tesi centrale del libro è che “l’indisponibilità a fare emergere le contraddizioni dei processi sociali e a chiederne conto ai responsabili – e quindi la strutturale adesione allo status quo economico e politico – è conseguenza diretta della logica imprenditoriale di cui sono permeati tutti gli enti del Terzo settore”. A Napoli in particolare “la loro azione non sortisce effetti decisivi sui processi di emancipazione collettiva e non ha tra i suoi obiettivi il rinnovamento delle strutture politiche; mira invece a creare le condizioni favorevoli per lo sviluppo di nuovi segmenti di mercato dove dispiegare senza ostacoli le proprie, e altrui, attività imprenditoriali. Questa finalità, nel contesto creato a Napoli dal dilagare del turismo di massa, sta producendo conseguenze opposte a quelle proclamate dai grandi enti nei loro discorsi programmatici: non la vivibilità dei quartieri, la partecipazione, il benessere della comunità, ma la precarietà abitativa, lavorativa, esistenziale dei suoi lavoratori più fragili”.
L’associazionismo e il lavoro sociale avevano prodotto dagli anni sessanta in poi dei progetti di grande intensità politica a Napoli e nell’entroterra, seguiti e documentati negli scritti di Fabrizia Ramondino e nelle inchieste di Daniela Lepore tra gli altri. Ma negli anni a ridosso della crisi economica mondiale e della crisi dei rifiuti partenopea l’attivismo di Padre Loffredo nel rione Sanità dà inizio a una nuova stagione che trasforma profondamente l’idea stessa dell’intervento sociale, fondato su una aggressiva campagna di immagine per il quartiere (l’imperativo è “cambiare la narrazione”), sulla rigenerazione urbana a traino turistico e sull’attivazione di nuove imprese e cooperative sociali.
Divenuto parroco della Basilica di Santa Maria della Sanità agli inizi del secolo, Loffredo ristrutturò e aprì al pubblico le catacombe di San Gaudioso, nei sotterranei della chiesa, e poi quelle di San Gennaro, costruendo un sistema di cooperative di giovani locali per gestirle e puntando sui finanziamenti provenienti dai bandi della Fondazione Con il Sud per l’occupazione giovanile e per la valorizzazione dei beni artistici. Da questo nucleo originario è nata una rete di associazioni e cooperative che ha dato forma nel 2014 alla potentissima Fondazione San Gennaro. Analogamente, l’associazione L’altra Napoli ha convogliato fondi di enti filantropici internazionali e vinto bandi per stimolare progetti di imprenditoria legata al turismo e per ristrutturare beni e spazi alla Sanità e a Forcella, e FOQUS ha stabilito la sua grandissima sede in un convento nel cuore dei Quartieri Spagnoli, dove unisce progetti scolastici sociali e non (c’è anche una scuola privata a pagamento che è un asset per i figli della borghesia napoletana) e corsi imprenditoriali a un’intensa attività di convegni e festival sponsorizzati da brand in cerca di crediti ESG (Environmental, Social & Governance, la triade del “capitalismo woke”: la simulazione di un impegno nella sostenibilità sociale e ambientale per scopi di marketing e soprattutto di soffocamento del conflitto).
Una formula che è diventata un paradigma di virtù, un caso esemplare di innovazione sociale e culturale diffuso urbi et orbi: secondo i dettami delle politiche europee, che uniscono l’ideologia neoliberale dell’austerità (basta spesa pubblica che trasforma gli abitanti in parassiti, bisogna incentivare le capacità imprenditoriali di persone e comunità per farle diventare resilienti) all’uso strumentale del pensiero delle avanguardie libertarie (il welfare statale è una macchina oppressiva e discriminatoria, incapace di portare benefici effettivi, che inibisce l’energia e l’intelligenza dell’autorganizzazione dal basso), l’iniziativa di Loffredo ha creato in meno di vent’anni dei posti di lavoro – all’inizio meno di dieci, oggi più di cinquanta –, ha “aperto” la Sanità ai turisti un tempo terrorizzati – oggi più di duecentomila nelle sole catacombe –, ha “valorizzato” il patrimonio e la reputazione del quartiere e della città.
Win-Win, tutti vincitori?
Nonostante le metriche messe in bella evidenza su tutti i siti delle fondazioni e delle cooperative coinvolte, non ci sono prove tangibili. Benefici e danni sono poco misurabili: contare i bambini o le mamme che hanno frequentato i centri educativi non dice molto sugli effetti di reale emancipazione sulla comunità, così come contare il numero di airbnb o di sfratti fornisce una dimensione parziale del tasso di sostituzione degli abitanti.
Eppure per capire le trasformazioni materiali uno sforzo comparativo va fatto, almeno sugli ordini di grandezza. I posti di lavoro “buono”, quello creato dal privato sociale, sono forse due o trecento, e non sempre garantiscono un’effettiva sicurezza economica. Quelli legati al turismo, si sa, sono in gran parte al nero, sottopagati e ad altissimo tasso di sfruttamento – dalle interviste raccolte da Luca Rossomando si evince una media di 10 ore al giorno per 40 euro. Le nuove “eccellenze artigiane” legate al turismo si contano sulle dita di una mano, mentre il tessuto di piccole botteghe e piccole produzioni ormai dissolto contava centinaia di unità. Gli abitanti espulsi sono migliaia, se non decine di migliaia. I finanziamenti privati catalizzati dai tre grandi enti (che Rossomando definisce “gli ultracorpi”) equivalgono a milioni di euro, mentre l’associazionismo storico, o i gruppi e i comitati più politicizzati, competono per poche decine di migliaia di euro, e spesso i loro membri sono costretti a lavorare, a condizioni non sempre favorevoli, per i tre grandi – una dipendenza che ne inibisce, consapevolmente o meno, la capacità di metterne in discussione gli aspetti negativi.
Il potere mediatico e il capitale relazionale assicurano a questi ultracorpi un’egemonia quasi assoluta sui territori su cui insistono, conferendogli un ruolo di attori primari della cosiddetta “rigenerazione urbana”. La loro capacità di “fare girare l’economia” permeando ogni azione di un alone di bontà trasformativa gli procura il consenso e la collaborazione attiva dell’intera classe dirigente, della politica, dell’università e naturalmente degli imprenditori. Sempre pronti a sottolineare l’incapacità strutturale delle istituzioni pubbliche a gestire la città, si propongono ogni giorno come i loro sostituti: i progetti urbani, i progetti culturali e i progetti sociali sembrano avere valore solo se passano da loro, e le amministrazioni li assecondano, felici di sottrarsi alle responsabilità dirette e di usufruire di una stampa invariabilmente positiva. In cambio, godono di un’ampia pace sociale, assicurata dalla capacità che questi enti hanno di depoliticizzare e calmierare le energie sociali attive nelle aree più calde.
Il caso napoletano illustrato dal libro di Rossomando offre l’occasione di mettere a fuoco le tendenze gerarchizzanti, monopoliste e politicamente reazionarie dell’attuale assetto del Terzo settore, nella forma italiana ma come è ancora più noto anche a livello globale. Per recuperare la reale forza trasformativa del lavoro sociale e culturale, per tornare a fare emergere le sue energie migliori, è indispensabile ripristinare uno sguardo critico e autocritico sul sistema per come oggi è concepito, e soprattutto svincolarlo dalla logica imprenditoriale che inesorabilmente fiacca ogni forma di solidarietà e cooperazione, imprigionandolo nell’eterna competizione tra pesci grandi e pesci piccoli e affossando l’idea stessa di politica come emancipazione.
FONTE:https://gliasinirivista.org/il-contrario-dellemancipazione/





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