Diego Fusaro: Se il capitalismo diventa di sinistra
Sul fatto che alle elezioni la sinistra, a ogni latitudine e a ogni gradazione, sia andata incontro all’ennesima sonante sconfitta, non v’è dubbio e, di più, sarebbe una perdita di tempo ricordarlo, magari con documentatissimi grafici di riferimento. Più interessante, per uno sguardo filosoficamente educato, è invece ragionare sui motivi di questa catastrofe annunciata. E i motivi non sono congiunturali né occasionali, ma rispondono a una precisa e profonda logica di sviluppo del capitalismo quale si è venuto strutturalmente ridefinendo negli ultimi quarant’anni. Ne individuerei la scena originaria nel Sessantotto e nell’arcipelago di eventi ad esso legati. In sintesi, il Sessantotto è stato un grandioso evento di contestazione rivolto contro la borghesia e non contro il capitalismo e, per ciò stesso, ha spianato la strada all’odierno capitalismo, che di borghese non ha più nulla: non ha più la grande cultura borghese, né quella sfera valoriale che in forza di tale cultura non era completamente mercificabile.
Non vi è qui lo spazio per approfondire, come sarebbe necessario, questo tema, per il quale mi permetto, tuttavia, di rimandare al mio Minima mercatalia. Filosofia e capitalismo (Bompiani, 2012). Comunque, per capire a fondo questa dinamica di imposizione antiborghese del capitalismo, e dunque per risolvere l’enigma dell’odierna sinistra, basta prestare attenzione alla sostituzione, avviatasi con il Sessantotto, del rivoluzionario con il dissidente: il primo lotta per superare il capitalismo, il secondo per essere più libero individualmente all’interno del capitalismo. Tale sostituzione dà luogo al piano inclinato che porta all’odierna condizione paradossale in cui il diritto allo spinello, al sesso libero e al matrimonio omosessuale viene concepito come maggiormente emancipativo rispetto a ogni presa di posizione contro i crimini che il mercato non smette di perpetrare impunemente, contro gli stermini coloniali e contro le guerre che continuano a essere presentate ipocritamente come missioni di pace (Kosovo 1999, Iraq 2003 e Libia 2011, giusto per ricordare quelle più vicine a noi, avvenute sempre con il pieno sostegno della sinistra).
Dal Sessantotto, la sinistra promuove la stessa logica culturale antiborghese del capitalismo, tramite sempre nuove crociate contro la famiglia, lo Stato, la religione e l’eticità borghese. Ad esempio, la difesa delle coppie omosessuali da parte della sinistra non ha il proprio baricentro nel giusto e legittimo riconoscimento dei diritti civili degli individui, bensì nella palese avversione nei confronti della famiglia tradizionale e, più in generale, della normalità borghese. Si pensi, ancora, alla distruzione pianificata del liceo e dell’università, tramite quelle riforme interscambiabili di governi di destra e di sinistra che, distruggendo le acquisizioni della benemerita riforma della scuola di Giovanni Gentile del 1923, hanno conformato – sempre in nome del progresso e del superamento delle antiquate forme borghesi – l’istruzione al paradigma dell’azienda e dell’impresa (debiti e crediti, presidi managers, ecc.).
Il principio dell’odierno capitalismo postborghese è pienamente sessantottesco e, dunque, di sinistra: vietato vietare, godimento illimitato, non esiste l’autorità, ecc. Il capitalismo, infatti, si regge oggi sulla nuda estensione illimitata della merce a ogni sfera simbolica e reale (è questo ciò che pudicamente chiamiamo “globalizzazione”!). “Capitale umano”, debiti e crediti nelle scuole, “azienda Italia”, “investimenti affettivi”, e mille altre espressioni simili rivelano la colonizzazione totale dell’immaginario da parte delle logiche del capitalismo odierno. Lo definirei capitalismo edipico: ucciso nel Sessantotto il padre (l’autorità, la legge, la misura, ossia la cultura borghese), domina su tutto il giro d’orizzonte il godimento illimitato. Se Mozart e Goethe erano soggetti borghesi, e Fichte, Hegel e Marx erano addirittura borghesi anticapitalisti, oggi abbiamo personaggi capitalisti e non borghesi (Berlusconi) o antiborghesi ultracapitalisti (Vendola, Luxuria, Bersani, ecc.): questi ultimi sono i vettori principali della dinamica di espansione capitalistica. La loro lotta contro la cultura borghese è la lotta stessa del capitalismo che deve liberarsi dagli ultimi retaggi etici, religiosi e culturali in grado di frenarlo.
Dalla sinistra che lotta contro il capitalismo per l’emancipazione di tutti si passa così, fin troppo disinvoltamente, alla sinistra che lotta per la legalità, per la questione morale, per il rispetto delle regole (capitalistiche!), per il diritto di ciascuno di scolpire un sé unico e inimitabile: da Carlo Marx a Roberto Saviano. È certo vero che Berlusconi è il Sessantotto realizzato, come ha ben mostrato Mario Perniola in un suo aureo libretto: la legge non esiste, vi è solo il godimento illimitato che si erge a unica legge possibile. Ma sarebbe un errore imperdonabile credere che il capitalismo sia di destra. Lo era al tempo dell’imperialismo e del colonialismo. Oggi il capitalismo è il totalitarismo realizzato (a tal punto che quasi non ci accorgiamo nemmeno più della sua esistenza) e, in quanto fenomeno “totalizzante”, occupa l’intero scacchiere politico. Più precisamente, si riproduce a destra in economia (liberalizzazione selvaggia, privatizzazione oscena, sempre in nome del teologumeno “ce lo chiede l’Europa”), al centro in politica (sparendo le ali estreme, restano solo interscambiabili partiti di centro-destra e di centro-sinistra), a sinistra nella cultura. Sì, avete capito bene: a sinistra nella cultura. Dal Sessantotto in poi, la cultura antiborghese in cui la sinistra si identifica è la sovrastruttura stessa del capitalismo postborghese: il quale deve rimuovere la borghesia e lasciare che a sopravvivere sia solo la già ricordata dinamica di estensione illimitata della forma merce (essa stessa incompatibile con la grande cultura borghese). Di qui le forme culturali più tipiche della sinistra: relativismo, nichilismo, scetticismo, proceduralismo, pensiero debole, odio conclamato per Marx e Hegel, elogio incondizionato del pensiero della differenza di Deleuze, ecc.
In questo timbro “totalizzante” risiede il tratto principale dell’ormai avvenuta estinzione dell’antitesi tra destra e sinistra, due opposti che oggi esprimono in forme diverse la stessa visione del mondo, duplicando tautologicamente l’esistente. Negli ultimi “trent’anni ingloriosi”, il capitale e le sue selvagge politiche neoliberali, all’insegna della perdita dei diritti del lavoro e della privatizzazione sfrenata, si sono imposti con uguale forza in presenza di governi ora di centro-destra, ora di centro-sinistra (Mitterand in Francia, Blair in Inghilterra, D’Alema in Italia, ecc.). Di conseguenza, l’antitesi tra destra e sinistra esiste oggi solo virtualmente come protesi ideologica per manipolare il consenso e addomesticarlo in senso capitalistico.
Destra e sinistra esprimono in forme diverse lo stesso contenuto e, in questo modo, rendono possibile l’esercizio di una scelta manipolata, in cui le due parti in causa, perfettamente interscambiabili, alimentano l’idea della possibile alternativa, di fatto inesistente. Vi è, a questo proposito, un inquietante intreccio tra i due apoftegmi attualmente più in voga presso i politici – “non esistono alternative” e “lo chiede il mercato” –, intreccio che rivela, una volta di più, l’integrale rinuncia, da parte della politica, a operare concretamente in vista della trasformazione di un mondo aprioristicamente sancito immodificabile.
Il paradosso sta nel fatto che la sinistra oggi, per un verso, ha ereditato il giacimento di consensi inerziali di legittimazione proprio della valenza oppositiva dell’ormai defunto partito comunista e, per un altro verso, li impiega puntualmente in vista del traghettamento della generazione comunista degli anni Sessanta e Settanta verso una graduale “acculturazione” (laicista, relativista, individualista e sempre pronta a difendere la teologia interventistica dei diritti umani) funzionale al capitalismo globalizzato. Il quotidiano “La Repubblica” è la sede privilegiata di questo processo in cui si consuma questa oscena complicità di sinistra e capitalismo. I molteplici rinnegati, pentiti e ultimi uomini che popolano le fila della sinistra si trovano improvvisamente privi di ogni sorta di legittimazione storica e politica, ma ancora dotati di un seguito identitario inerziale da sfruttare come risorsa di mobilitazione. Per questo, la sinistra continua inflessibilmente a coltivare forme liturgiche ereditate dalla fede ideologica precedente nell’atto stesso con cui abdica completamente rispetto al proprio originario “spirito di scissione” (la formula è del grande Antonio Gramsci), aderendo alle logiche del capitale in forme sempre più grossolane. È di Bersani la frase, pronunciata in campagna elettorale, “i mercati non hanno nulla da temere dal PD”: frase pleonastica, perché esprime ciò che già tutti sapevamo, ma che è rilevante, perché ben adombra come la sinistra continui indefessamente a lavorare per il re di Prussia, il capitalismo gauchiste.
Lungo il piano inclinato che porta dalla nobile figura di Antonio Gramsci a personaggi come Massimo D’Alema o Vladimir Luxuria si è venuto consumando il tragicomico transito dalla passione trasformatrice al disincanto cinico – tipico della generazione dei pentiti del Sessantotto, la più sciagurata dal tempo dei Sumeri ad oggi – fondato sulla consapevolezza della morte di Dio, con annessa riconciliazione con l’ordo capitalistico. Con i versi di Shakespeare: “orribile più di quello delle erbacce è l’odore dei gigli sfioriti” (lilies that fester smell far worse than weeds). E questi gigli sono effettivamente sfioriti: sono l’incarnazione di quello che Nietzsche chiamava l’“ultimo uomo”. L’ultimo uomo sa che Dio è morto e che per ciò stesso tutto è possibile: perfino aderire al capitalismo e bombardare il Kosovo o la Libia.
È, del resto, solo in questo scenario che si comprende il senso profondo della dinamica, oggi trionfante, della personalizzazione esasperata della polemica con l’avversario. L’antiberlusconismo, con cui la sinistra ha identificato il proprio pensiero e la propria azione negli ultimi vent’anni, ne rappresenta l’esempio insuperato. La personalizzazione dei problemi, infatti, si rivela sempre funzionale all’abbandono dell’analisi strutturale delle contraddizioni, ed è solo in questa prospettiva che si spiega in che senso l’antiberlusconismo sia stato, per sua essenza, un fenomeno di oscuramento integrale della comprensione dei rapporti sociali. L’antiberlusconismo ha permesso alla sinistra di riciclarsi, ossia di passare dall’opposizione operativa al capitalismo all’adesione alle logiche neoliberali, difendendo l’ordine, la legalità (capitalistica) e le regole (anch’essere capitalistiche). L’antiberlusconismo ha indotto l’opinione pubblica a pensare che il vero problema fossero sempre e solo il “conflitto di interessi” e le volgarità esistenziali di un singolo individuo e non l’inflessibile erosione dei diritti sociali (tramite anche le forme contrattuali più spregevoli, che rendono a tempo determinato la vita stessa) e la subordinazione geopolitica, militare e culturale dell’Italia agli Stati Uniti.
Ingiustizia, miseria e storture d’ogni sorta hanno così cessato di essere intese per quello che effettivamente sono, ossia per fisiologici prodotti del cosmo a morfologia capitalistica, e hanno preso a essere concepite come conseguenze dell’agire irresponsabile di un singolo individuo. Per questa via, la politica della sinistra – con Voltaire, “mi ripeterò finché non sarò capito” – non ha più avuto quale referente polemico il sistema della produzione e dello scambio – ritenuto anzi incondizionatamente buono o, comunque, intrascendibile –, bensì l’irresponsabilità di una persona che, senza morale e senza onestà, ha inficiato il funzionamento di una realtà sociale e politica di per sé non contraddittoria.
La politica ridotta al tragicomico teatro identitario dell’opposizione tra berlusconiani e antiberlusconiani ha permesso di far passare inosservato lo scolpirsi del nuovo profilo di una sinistra che – nel nome della questione morale e nell’oblio di quella sociale – ha abdicato rispetto alla propria opposizione agli orrori che il capitalismo non ha cessato di generare. È in questo senso che l’antiberlusconismo rivela la sua natura anche più indecente, se mai è possibile, dello stesso berlusconismo. In questo risiede la natura tragica, ma non seria dell’odierna sinistra, fronte avanzato della modernizzazione capitalistica che sta distruggendo la vita umana e il pianeta. La sinistra è il problema e, insieme, si pensa come la soluzione. Il primo passo da compiere per riprendere il perseguimento del programma marxiano dell’emancipazione di tutti dal capitalistico regno animale dello spirito consiste, pertanto, nell’abbandono incondizionato della sinistra e, anzi, della stessa dicotomia destra-sinistra. Tutto il resto è chiacchiera d’intrattenimento o, avrebbe detto Marx, “ideologia”.
[fonte: www.sinistrainrete.info, 7 aprile 2013]
scritto interessantissimo, che arricchisce coloro che non possono dedicare tempo alle ricerche e all'approfondimento; io sono fra questi; una cosa però ho la presunzione di affermare; la sinistra descritta in questo saggio, sinistra non lo è più da tanto tempo, almeno trent'anni; da quando ci fu la sconfitta degli operai fiat a torino nel 1980; da allora ho visto la cosidetta sinistra lentamente e senza soluzione di continuità, trasformarsi in braccio armato del capitalismo; braccio armato utilizzato per cancelalre tutti i diritti acquisiti in decenni di lotte operaie e popolari; ecco perchè non concordo sull'abbandono, incondizionato della sinistra; semmai bisogna agire nel deserto che ci ritroviamo, per colonizzarlo con i valori rivoluzionari di marx, lenin, gramsci; colonizzarlo come avviene per i processi naturali delle specie vegetali.
Avevo già notato questo scritto di Fusaro trovandoci molte cose che, pur nei limiti della mia ignoranza del fatti, mi paiono sensate. Tuttavia il richiamo, di sfuggita ma non troppo, alla riforma Gentile mi desta qualche perplessità. Riporto il periodo (grassetto mio):
"Si pensi, ancora, alla distruzione pianificata del liceo e dell’università, tramite quelle riforme interscambiabili di governi di destra e di sinistra che, distruggendo le acquisizioni della benemerita riforma della scuola di Giovanni Gentile del 1923, hanno conformato – sempre in nome del progresso e del superamento delle antiquate forme borghesi – l’istruzione al paradigma dell’azienda e dell’impresa (debiti e crediti, presidi managers, ecc.)."
Qui la suddetta riforma viene quasi presentata come momento di elevazione nell'organizzazione del sistema dell'istruzione, in contrapposizione a tutto quello che è stato fatto dopo che viene inserito nell'indistinto, ed un po' anonimo a dir la verità, contenitore della riforme interscambiabili.
Io non conosco dettagliatamente la riforma Gentile, e non voglio indistintamente bollare come negativo tutto ciò che è stato fatto durante il periodo del fascismo (ritengo, ad esempio, l'IRI una cosa buona).
Tuttavia, anche leggendo wikipedia vedo che (grassetti sempre miei):
La scuola concepita da Gentile è severa ed elitaria. Gli studi superiori, nella concezione del filosofo, sono "aristocratici, nell'ottimo senso della parola: studi di pochi, dei migliori".
Dal punto di vista strutturale Gentile individua l'organizzazione della scuola secondo un ordinamento gerarchico e centralistico. Una scuola di tipo aristocratico, cioè pensata e dedicata "ai migliori" e non a tutti e rigidamente suddivisa a livello secondario in un ramo classico-umanistico per i dirigenti e in un ramo professionale per il popolo e la classe lavoratrice. Le scienze naturali e la matematica furono quindi messe in secondo piano, mentre le discipline tecniche ad esse correlate avevano la loro importanza solo a livello professionale.
L'istruzione di massa ci è stata illusoriamente presentata come emancipativa ed ha invece prodotto un drammatico abbassamento di livello ed una mercificazione dell'istruzione stessa, opera questa compatibile col clima da consumistico paese dei balocchi volutamente creata. Voglio però commentare che le nostalgie per una istruzione elitista, che fece pure una discutibile gerarchia fra diverse discipline, mi lasciano perplesso. Per non dire che, sempre leggendo da wikipedia, Gentile stesso prese le distanze dalla riforma che andò attuandosi. Quindi non capisco a cosa esattamente si riferisca Fusaro quando si richiama a tale riforma. Insomma, un argomento complesso che andrebbe sviluppato meglio e non buttato così in un periodo en passant.
Giovanni
@Giovanni La risposta alle sue comprensibili perplessità sta in un saggio di Fusaro dedicato al filosofo siciliano:
"Certo, a Gentile stava a cuore soprattutto la formazione di quelle élites capaci di assicurare continuità allo Stato liberale e borghese; per il filosofo siciliano si trattava, pur sempre, di contrastare la richiesta di una società democratica, volta alla massificazione della cultura e a cui 'bisognano gli automi dell'industria e le volpi del commercio; le pecorelle dei partiti politici e della chiesa e i famelici lupi delle amministrazioni e delle sacre gerarchie, tutt'al più qualche topo erudito da biblioteca e qualche ragno faticone intento a tessere e ritessere le penelopee tele sociologiche'. Ma è pur vero che a distanza di quasi vent'anni, Gentile, insistendo sulla funzione emancipatrice dello Stato, fondata sullo 'sviluppo autonomo della scienza', ancora una volta evidenzia un modello pedagogico, peraltro operante in tutta la sua produzione scientifica, di tipo 'politico e sociale, rivolto alla costruzione della coscienza nazionale e che vede nel risveglio della vita spirituale e nella scuola come agenzia delegata a realizzare tale risveglio gli strumenti fondamentali ed insostituibili della rinascita collettiva'. È il tema dell'educazione nazionale che caratterizza l'interesse gentiliano, tanto più in un'ora come quella presente nella quale l'esigenza di una cultura 'nazionale' sembra essere più che mai urgente, sia per ricostruire il Paese che per non farlo mancare ad un appuntamento di trasformazione e di rinnovamento che per il filosofo siciliano è oramai irrinunciabile".
Aderendo al fascismo, Gentile commise un errore direttamente proporzionale alla sua statura intellettuale, e dunque un errore gigantesco (del resto, non fu l'unico in quel periodo). Il confronto con gli ultimi quattro-cinque ministri della pubblica istruzione non si pone nemmeno.
L'articolo ha il grande pregio di porre il nesso forte fra il Sessantotto e il disfacimento attuale. Tuttavia sciagurata non è la generazione dei pentiti del Sessantotto, sciagurato fu il Sessantotto medesimo, rivolta spontanea e godereccia dei figli del boom industriale, cresciuti in un benessere ignoto ai loro padri e, per questo, proiettati a smantellarne l'intelaiatura ideale e normativa.
Cosa cerca un ventenne viziato e scazzone? Spinelli, libertà sessuale, 18 politico, qualche sbandierata con annessa scazzottata cogli sbirri. Cosa cercherà lo stesso ragazzotto una volta arrivato sui 40 anni, magari dallo scranno di qualche cattedra universitaria o di qualche ufficio di partito su cui ha messo lo zampino grazie ai sopradetti metodi? Cercherà una poltrona più grande e soldi facili. Il rivoluzionario sessantottino diventa spontaneamente il politico, l'opinion leader, il faccendiere neoliberista, disposto a falcidiare realtà produttive, mettere sulla strada migliaia di famiglie, distruggere realtà paesaggistiche millenarie in cambio della prossima storia di coca e la prossima troia da 5000 euro a notte.
Non è un caso che il neoliberismo prenda il volo 15-20 anni dopo il Sessantotto.Ciò che Fusaro legge come parabola di decadenza della sinistra è la parabola di decadenza della civiltà occidentale, che nel giro di pochi decenni ha portato a compimento il processo di sgretolamento dell'apparato di pregiudizi utili che avevano consentito la trascorsa fioritura. Da Gramsci a Luxuria c'è anzitutto il trapasso da un tipo umano sano a uno degenerato, la regressione allo stadio infantile e pulsionale (marcusiano) precedente all’enuclearsi d’un criterio di razionalità repressiva.
L'altro elemento che resta ai margini dell'analisi di Funaro è la straripante influenza dei rapporti geopolitici. L'Italia attuale è un mattoncino dell'impero statunitense. La mercificazione di tutti i rapporti, la scomparsa di ogni elemento ideale dalla dimensione politica (cioè l'apparente scomparsa della politica, che è in realtà una scomparsa dai luoghi in cui la teoria democratica l'aveva demandata) e la sua spettacolarizzazione, come anche l'appiattimento della scuola in istituto di parcheggio sociale buono per alfabetizzare e indottrinare una plebe meticcia, fino alle leggi tradotte dall'inglese in un deforme basic Italian, sono tutti elementi direttamente mutuati dal cuore dell'Impero.
Non è la "modernizzazione capitalistica" che sta invadendo tutto e distruggendo il pianeta, è il capitalismo terminale inverato dal conquistatore anglosassone e imposto dal suo braccio armato, l'impero statunitense. Questi sinistrorsi parlano sempre di forme economiche senza ricollegarle alle culture organiche di cui sono espressione: vizio di fondo dell'economicismo marxista.
Condivido l'analisi di Fusaro. Ma riguardo alla dicotomia destra-sinistra ho alcune perplessità. Quindi quando professori come Emiliano Brancaccio (di certo non un sessantottino) propongono l'uscita "da sinistra" commettono un errore lessicale?
A mio personale parere sì, Brancaccio commette un errore. Utilizzare il temine "sinistra" crea confusione nell'interlocutore… Basti ricordare che – secondo la premiata ditta "Giavazzi & Alesina" – "er libberismo è dde sinistra" (scusa il romanesco…). Per altre persone, invece, "sinistra" significa tutt'altro…
Discorso simile mi sembra possa essere fatto per la "destra".
In sintesi, credo sia opportuno evitare accuratamente l'utilizzo di tale terminologia, anche per non cadere nel gioco di contrapposizioni fasulle e ben descritte da Fusaro (al quale rivolgo i mie complimenti).
Luigi,
l'uscita che Brancaccio qualifica di sinistra, quella che io suggerisco da sempre, e che consiste nell'uscita dalla ue (dal mercato unico) e non solo dall'euro e che prevede la libera circolazione dei capitali – in Francia la propone, forse da prima di me, la Le Pen.
Infatti, J. Sapir ha appena dichiarato di essere disposto a collaborare con la Le Pen.
Se la tesi che propongo da tempo e che sostiene Brancaccio è di sinistra, allora anche quella della Le Pen (parlo della sola politica patriottico-economica) è di sinistra.
Se la politica patriottica, prima ancora che economica, della Le Pen – la quale vuole distruggere l'Unione europea, limitando la circolazione dei capitali – è di destra, allora anche la proposta di Brancaccio è de destra.
Come la mettiamo?
A mio parere, Stefano D'Andrea ha ragione.
La situazione francese vede il Front National unico oppositore della finanza internazionale. Il Partito Socialista, invece, sta coerentemente e diligentemente – anche se gradualmente -portando avanti il solito programma "europeo".
Tra l'altro, tenete presente che – ormai da tempo – fra gli operai il primo partito è quello teoricamente di "estrema destra", cioè il F.N.
Che significa?
Credo che l'ottimo articolo di Fusaro ci fornisca una possibile chiave di lettura di questi fenomeni.
Saluti!
Articolo di notevole spessore che però manca, a mio avviso, di precisione in alcuni punti.
Poniamo la questione del '68 e chiediamoci se veramente quella distinzione tra rivoluzionario e dissidente sia così negativa per quei tempi. Se l'alternativa doveva essere la Stasi (DDR) credo che la questione di una scelta di quel tipo sia quanto meno mal posta. O imprecisa, come dicevo.
D'accordo, poi il "piano inclinato" ha fatto scivolare le cose verso un destino (Manifesto!) molto più che discutibile. Ma incolpare la sinistra di "relativismo e nichilismo" senza avere prima spiegato cosa di non solo buono ma ottimo hanno portato nel cammino storico e filosofico è un'altra leggerezza. Pare che quel piano inclinato a sinistra, se adeguatamente dotato di nichilismo e relativismo, non possa che portare al Kossovo, all'Iraq, alla Libia. Altra imprecisione. Il relativismo ci permette di conoscere che ogni movimento è reale e virtuale allo stesso tempo, a seconda del sistema percettivo e di misurazione che si adotta. Non mi sembra che porti in modo ineluttabile alla guerra imperialista, che nasce da quelle verità assolute (la democrazia è meglio di qualsiasi altra forma di potere) che il relativismo da Protagora in poi tenta di combattere.
Peggio ancora andiamo con il nichilismo, citando addirittura ciò che Nietzsche chiamava l’“ultimo uomo”. L’ultimo uomo sa che Dio è morto e che per ciò stesso tutto è possibile: perfino aderire al capitalismo e bombardare il Kosovo o la Libia.
Tesi questa indimostrabile. E' anzi facile dimostrare il contrario, se si tiene presente quanto affermato in "Frammenti postumi" :
"La metafisica, la morale, la religione, la scienza… vengono prese in considerazione solo come diverse forme di menzogna: col loro sussidio si crede nella vita."
Questa è l'anima del nichilismo: capire come la matrice culturale si sia impossessata di noi al punto da farci credere ai simulacri (secondo una definizione successiva di Baudrillard). All'epoca di Nietzche tali simulacri hanno fondato la Modernità, in epoca postmoderna invece hanno strutturato l'iperrealtà ovvero la realtà virtuale chi ci circonda, compreso questo messaggio. Ebbene il nichilismo (nella sua fase storico-filosofica, epurata dal senso disgraziatamente acquisito oggi) si oppone fermamente a tutti questi simulacri, consapevole che sono strumenti che allontanano dal vivere, mentre ci illudono di poterlo fare.
Lungo il piano inclinato che porta dalla nobile figura di Antonio Gramsci a personaggi come Massimo D’Alema o Vladimir Luxuria si è venuto consumando il tragicomico transito dalla passione trasformatrice al disincanto cinico
Sul cinismo poi…se credete andate a rileggervi quanto scrivevo tempo addietro: Diogene come Nietzche metteva in guardia i suoi concittadini dai pericoli del benessere, simulacro tout court.
https://www.appelloalpopolo.it/?p=2821
Il disincanto cinico, Diogene che sfida Alessandro Magno, resta per me un vero valore. Qualcosa che nè Luxuria nè D'Alema hanno mai lontanamente concepito, presi come sono dall'afflato modernista che vuole diritti umani e bombardamenti in serie andare mano nella mano verso il radioso futuro di un mondo impegnato per il Progresso, la Scienza e chi più ne ha più ne metta.
Da questa serie di imprecisioni nascono domande lecite sulle distinzioni tra destra e sinistra. Una risposta articolata al riguardo richiede spazi che questo semplice post non concede.
Complimenti all'autore dell'articolo, davvero molto interessante; indubbiamente ha centrato l'atteggiamento di molti sessattottini, ovvero libertà assoluta senza responsabilità. Chissà se ha letto il romanzo di Houellebecq "Le particelle elementari" in cui si narra la vita di due fratelli vittime della propria madre…
Sulla scuola invece concordo sulle perplessità sollevate. La scuola di Gentile era falsamente meritocratica, ovvero conservava le disuguaglianze sociali: almeno il '68 ha avuto il merito di mettere in discussione i professori-baroni, i metodi d'insegnamento spesso antiquati, la distanza con la società. I decreti delegati, pur con tutti i limiti, sono stati un tentativo di far entrare anche i genitori degli alunni nella conduzione della Scuola. Questi tentativi, come ben sappiamo, o sono stati abortiti o si sono trasformati in una mera burocratizzazione del corpo docente; uniti alle varie contro-riforme e al suo graduale impoverimento di risorse si è arrivati all'odierno disastro. Però non credo sia "colpa" del '68 se gli alunni, che si voleva avviare ad essere cittadini, oggi li si prepara ad essere consumatori libertari senza libertà (né lavoro).
Lascio perdere i complimenti di cui Diego Fusaro non ha certamente bisogno e passo subito al dissenso dialettico su due punti che non mi sembrano neutri sul piano epistemologico.
La metafora del piano inclinato utilizzata da Fusaro è indubbiamente suggestiva, ma non è trasferibile ai processi storico-sociali. La processualità storica non può essere indagata sic et simpliciter con la fisica galileiana (piani inclinati, leggi del pendolo, regola del parallelogramma, etc.). Fusaro – che è un filosofo a tutto tondo, un fine maître à penser, nonché un eroico intellettuale, resistente al pensiero unico, debole, liquido o gassoso che dir si voglia – sa bene cosa si intende, al di là del pasticcio semantico, per eterogenesi dei fini.
Detta in soldoni per i non addetti al lavoro: – così come non si può dire che il fascismo sia il naturale esito del Risorgimento, o che il Terzo Reich sia il frutto putrescente covato nel grembo della Repubblica di Weimar, o ancora che Iosif Stalin sia il naturale e necessario compimento del marxismo-leninismo, – così non si può dire che il relativismo e, tanto peggio, il nichilismo siano il frutto del ’68.
Il secondo punto che mi preme sottolineare è che: “Gentile è il più grande filosofo italiano del ‘900”, è un enunciato contestabile non tanto e non solo per le ragioni di merito, esposte nel commento di Giampiero Marano del 14 luglio 2013, del tutto condivisibili, ma è contestabile per la sua incompatibilità con una reale adesione al marxismo.
Volendo essere espliciti, delle due l’una: “”Diego ama Giovanni” aut “Diego ama Carlo”” Si tratta di una non-equivalenza, la quale – in base alla logica verofunzionale, di aristotelica memoria – restituisce come vero il primo enunciato e falso il secondo e/o viceversa. Insomma, non si dà il caso che gli enunciati siano entrambi veri e/o entrambi falsi.
Né vale nascondersi dietro la distinzione tra teoria e prassi, dicotomia questa che, come Fusaro sa bene, lo zio Carlo ha sconfessato nella famosa XI tesi su Fuerbach.
Sposando la tesi di José Ortega Y Gasset, suggerita da Diego Fusaro, lascio che s’insinui pure ogni dubbio su quanto affermato. Aggiungendo che se è vero che sul piano teorico non tutte le affermazioni hanno la medesima rilevanza veritativa, sul piano pratico, quelle ispirate ad una reale etica della responsabilità, senza scomodare Kant o Lévinas, godono sempre della medesima dignità.
Gerardo Oreste 26/07/’17