Analisi – Nell’epoca dei dazi, della crisi della produttività industriale del Vecchio continente e della rivalità tra superpotenze commerciali, la salute è diventata uno dei più agguerriti terreni di competizione internazionale. Se da un lato la farmaceutica rappresenta una punta di diamante dell’economia europea, dall’altro l’assertività con cui Cina e Stati Uniti stanno acquisendo sempre più potere nel settore è tale da allertare i legislatori europei. Un ulteriore banco di prova per i 27, le cui politiche (e interessi) spesso divergenti e frammentate dovrebbero cedere il passo a strumenti coesi e più autonomi.
UN SETTORE STRATEGICO (E FRAMMENTATO) PER L’ECONOMIA EUROPEA
Il comparto farmaceutico è uno dei motori dell’economia europea: rappresenta il 5% del valore aggiunto dell’intero settore manifatturiero, con punte superiori al 20% in Paesi come Belgio e Danimarca. I prodotti farmaceutici costituiscono infatti quasi l’11% delle esportazioni dell’UE, facendo del settore il primo al mondo negli scambi commerciali in valore assoluto.
La bilancia commerciale con gli Stati Uniti è positiva, con un surplus di 45 miliardi di euro nel 2023 dopo un picco di 53 miliardi nel 2022, ma la quota di mercato delle imprese europee continua a ridursi a vantaggio di quelle statunitensi e, sempre più, di quelle cinesi.
Nell’ottica di scuotere l’UE e chiamarla all’azione, Mario Draghi nel suo rapporto sulla competitività esorta l’Europa a “creare un mercato più attraente per le aziende farmaceutiche”, “rafforzare la proprietà intellettuale” e “sbloccare gli investimenti a livello comunitario e nazionale” per diventare un vero “polo leader a livello mondiale”. Di fatto, oggi l’UE rappresenta circa il 25% del mercato farmaceutico globale, contro il 60–65% degli Stati Uniti, e le risorse previste dal Critical Medicines Act(80 milioni di euro per il bilancio 2028-2034) non bastano a garantire produzione domestica e sicurezza delle catene di approvvigionamento.
Una criticità per l’UE è il drammatico divario rispetto agli States negli investimenti in ricerca e sviluppo. Gli Stati Uniti dispongono di un sistema di finanziamento pubblico solido e centralizzato: il National Institutes of Health (NIH) può, infatti, contare su un budget di oltre 45 miliardi di dollari l’anno, destinando più dell’80% a sovvenzioni competitive. Anche la Cina si impegna sempre di più a incrementare i finanziamenti pubblici in ricerca, avvicinandosi ai livelli europei.
L’UE, al contrario, si affida a una base di finanziamento frammentata e meno mirata. A livello comunitario, emblematico è il programma Horizon Europe (2021–2027), che destina 8,2 miliardi di euro alla ricerca sanitaria. A livello nazionale, gli Stati membri contribuiscono attraverso le proprie istituzioni di ricerca, ma la mancanza di coordinamento genera duplicazioni e limita l’impatto innovativo complessivo.
A questa frammentazione si aggiunge un quadro regolatorio complesso e disomogeneo. I tempi di approvazione dei nuovi farmaci nell’UE, sotto la procedura dell’Agenzia europea per i medicinali (EMA), risultano più lunghi rispetto a quelli delle Autorità statunitensi o asiatiche. Inoltre, dopo l’autorizzazione europea, i meccanismi nazionali di determinazione dei prezzi e dei rimborsi (ben 27) rallentano ulteriormente l’accesso dei pazienti ai trattamenti.
Onde evitare che tali carenze diventino strutturali, l’UE ha lanciato il Pacchetto Pharma, la più ampia revisione della legislazione europea sui medicinali degli ultimi vent’anni.
Il pacchetto legislativo, composto da una direttiva e un regolamento, introduce misure che mirano a semplificare il quadro normativo, migliorare la disponibilità dei medicinali e ridurre l’impatto ambientale dei farmaci. I negoziati interistituzionali, avviati il 17 giugno 2025, dovrebbero concludersi entro la fine dell’anno, con adozione formale prevista nel 2026 e piena attuazione entro il 2029.
IL RICORRENTE OBIETTIVO DI DIVIDERE L’EUROPA
Anche in campo farmaceutico, l’UE deve confrontarsi con Trump che, oltre alle consuete tattiche intimidatorie, adotta un’autoritaria politica di “divide et impera”.
Dopo i primi tentativi di calmierare i prezzi per decreto, la Casa Bianca ha imboccato la via dei negoziati bilaterali con le big pharma come Pfizer e AstraZeneca, mossa che differisce dalla tradizionale prassi con cui l’UE si rapporta a questo mercato.
È la logica della disintermediazione: se le imprese “saltano la fila” e si accordano una per una con Washington, Trump impone di fatto all’Europa di negoziare non più come blocco unitario, ma come somma di divergenti interessi nazionali e aziendali.
Gli accordi con l’Amministrazione statunitense inaugurano un “most-favored nation pricing”ibrido, affiancato da un canale direct-to-consumer: la piattaforma TrumpRx.gov promette l’acquisto diretto dei farmaci con sconti medi fino al 50% (e punte più alte) su ampie categorie di prodotto. Il ragionamento è lineare: eliminando gli intermediari, le aziende possono tagliare il prezzo al paziente senza comprimere i margini.
Ma ogni rivoluzione ha sia vincitori che vinti: se la vendita non passa più dai canali tradizionali, le aziende di distribuzione potrebbero vedere erosi ricavi e potere contrattuale. E il presunto beneficio macro resta modesto: anche ipotizzando un’estensione generalizzata, i risparmi stimati per i non assicurati sono una goccia in un mercato il cui valore, nel 2025, è stimato a circa 670 miliardi di dollari.
Intanto, sui farmaci generici pesa la leva dei dazi su India e Cina, che alimenterà rialzi dei medicinali non di marca, compensando di fatto i ribassi negoziati sui branded.
L’AUMENTO DI FRAGILITÀ DELLA CATENA DI APPROVIGIONAMENTO
La leva tariffaria è il secondo braccio della strategia di Trump. Certamente, i dazi sui prodotti farmaceutici rappresentano una delle forme più insidiose di protezionismo, poiché generano costi umani ed economici che superano di gran lunga i benefici commerciali.
La sensibilità del comparto fu percepita fin dal 1995, quando gli Stati Uniti, l’Unione Europea, il Giappone, il Canada, la Svizzera, la Norvegia e Macao firmarono un accordo internazionale per azzerare i dazi sui farmaci, garantendo per tre decenni relazioni transatlantiche basate sulla libera circolazione dei medicinali. Oggi però l’Amministrazione Trump ha scelto di rompere questo equilibrio, accusando l’Europa di approfittare del sistema. Risultato: dazi punitivi e accordi, favorevoli, soprattutto per gli USA.
L’accordo che blinda al 15% la tariffa sui farmaci importati dall’UE negli Stati Uniti dipenderà dall’esito dell’indagine della Sezione 232 su farmaci e relativi componenti. Quindi una data certa non c’è. Nel frattempo, però, la minaccia di tariffe ben più alte (fino al 250%) si traduce in un incentivo (minaccioso) a rilocalizzare produzione e gettito fiscale sul suolo americano. Tali manovre hanno già portato frutti: l’americana Pfizer ha ottenuto un’esenzione triennale legata a tagli significativi dei listini per i pazienti americani e a un piano di 70 miliardi in ricerca e manifattura negli USA; la britannica AstraZeneca ha siglato un accordo analogo con investimenti fino a 50 miliardi entro il 2030. Su questa scia, Roche, Novartis, Sanofi, Merck, Eli Lilly, Johnson & Johnson hanno presentato ingenti piani d’investimento sul territorio statunitense.
Tuttavia, al di là delle reazioni ottenute con la forza, i dazi di Trump nel lungo periodo potrebbero ritorcersi contro i suoi stessi cittadini, che rischiano di non poter disporre di farmaci nel proprio Paese.
Sul piano dei prezzi al paziente, l’impatto diretto in Europa è limitato: sul territorio comunitario, infatti, i tariffari sono fissati dalle competenti Autorità nazionali e i Servizi Sanitari Nazionali respingono aumenti privi di giustificazione clinica. Ma il prezzo politico ed economico si paga altrove: nella perdita di massa critica, nella dipendenza da scelte industriali altrui, nella logica del negoziato bilaterale che spezza la compattezza europea. Perfino il ricorso alle tutele multilaterali è indebolito dalla paralisi dell’Organo d’Appello del WTO, bloccato da anni: una strada teoricamente percorribile, praticamente infruttuosa.
CONCLUSIONI
La verità è che il confronto globale sulla farmaceutica va oltre la questione dei dazi e dei listini: riguarda il controllo stesso delle catene del valore, degli epicentri produttivi e dei profitti generati dalla ricerca. Gli Stati Uniti puntano a divenire il fulcro dell’innovazione biotecnologica e farmaceutica; la Cina non è più solo un luogo di produzione a basso costo, ma di affinata innovazione e sviluppo; l’Europa, dal canto suo, rischia di restare in mezzo, pur disponendo di università d’eccellenza e competenze biotech di prim’ordine.
Anche in questo settore, l’UE ha bisogno di una strategia coerente che metta a fattor comune politica industriale, approvvigionamenti, incentivi fiscali e una cornice regolatoria snella ed efficace. In ballo non c’è solo il prezzo di un medicinale, ma la sovranità economica su una filiera che incide sulla salute pubblica, sull’occupazione e sulla leadership tecnologica europea.





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