Diego Fusaro: Minima Mercatalia
Alcuni brani da Minima Mercatalia, libro (edito da Bompiani nel 2012) nel quale il filosofo torinese riscopre la saggezza (mediterranea) degli antichi Greci contrapponendola dinamicamente all'ideologia capitalista (occidentale e atlantica) affermatasi con la modernità.
L’inconfessabile forma religiosa di cui si sostanzia il sistema globale è quella immanente dell’eternità, dell’inesorabilità e dell’immodificabilità del capitalismo stesso come destino, con i suoi tre dogmi fondamentali della centralità robinsoniana dell’individualismo assoluto, della costante necessità di intervenire militarmente con “bombardamenti etici” per mantenere e ampliare l’assetto capitalistico del mondo, della demonizzazione aprioristica di ogni passione trasformatrice, subito liquidata come vocazionalmente totalitaria e antidemocratica.
L’odierno sistema globale si configura come la prima società della storia umana in cui regna sovrano il principio metafisico dell’assenza di ogni limite, e più precisamente il “cattivo infinito” della norma dell’accumulazione illimitata del capitale, del cupio dissolvi dell’accrescimento smisurato del profitto – a scapito della vita umana e del pianeta – e della legge del costante “voler-avere-di-più” che la produzione impone ai suoi atomi sociali, nel trionfo di quello che Elias Canetti definiva come il “moderno furore dell’accrescimento”.
Il cosmo capitalistico segna, hegelianamente, l’”uscita da sé” del genere umano, l’alienazione rispetto alla propria essenza comunitaria: esso costituisce la negazione delle potenzialità ontologiche dell’uomo auroralmente codificate dal pensiero greco, la sua alienazione, poiché lo riduce, marcusianamente, all’”unidimensionalità” dello scambio e della produzione di merci, trasformando l’uomo stesso in una merce liberamente circolante sul mercato e coartandolo a pensare il proprio presente e a progettare il proprio futuro nella sola dimensione limitativa e reificante della produzione e dello scambio.
Antiborghese ma non anticapitalistico, il Sessantotto ha aperto la strada al nuovo assetto del mondo ultracapitalistico e affrancato dalla sola classe sociale – la borghesia – in grado di elaborare una coscienza infelice e rivoluzionaria. Dal 1989 in poi, con il crollo del Muro di Berlino, il cosmo capitalistico ha cancellato ogni confine reale e immaginario che lo limitava entro più o meno precisi confini e si è imposto, a livello simbolico, come unica realtà possibile: il capitalismo diventa speculativo, in quanto l’umanità si guarda nello specchio del mondo totalitario della merce ed è così indotto a concepirlo come il solo possibile, in una totale desertificazione dell’immaginario.
Il mondo greco presentava, come tratto saliente, la produzione finalizzata al consumo e, più in generale, al soddisfacimento di bisogni umani, per loro natura finiti e limitati. Il principio dell’illimitatezza era demonizzato in ogni sua possibile manifestazione, in quanto in esso vengono ravvisate le tracce della possibile dissoluzione della comunità. Modellata secondo il metron, la produzione era orientata alla ri-produzione della società nel suo complesso, e quindi alla sua conservazione.
Se nelle società precapitalistiche l'obbedienza era ottenuta con l'ostentazione crudele e terrificante della forza e del potere militare e religioso (ai contadini ribelli veniva tagliato in pezzi il corpo con tenaglie roventi, gli schiavi erano appesi alla croce, ecc.), ciò accadeva non perché il potere fosse forte, ma perché era ancora troppo debole. Esso era infatti “esterno” rispetto al processo di produzione e doveva costantemente sorvegliare e punire soggetti che non ne erano stati ancora del tutto plasmati. Con il dispiegamento del nuovo sistema di produzione, il potere, lungi dall'essere verticisticamente strutturato, è disperso nell'intera società e si insedia, in forma compiuta e capillare, nel processo di produzione. Di conseguenza, non deve terrorizzare ma addomesticare i corpi e le menti per adattarli alla divisione del lavoro.
Con la svolta solipsistica di Cartesio, il soggetto individuale e anticomunitario diventa il punto archimedico su cui si regge il mondo (…) Il pensiero si configura pertanto come l'atto di autocoscienza esistenziale con cui il singolo individuo riconosce di esistere in quanto “cosa pensante”, e dunque a prescindere dal corpo, dal mondo e dalla trama delle relazioni intersoggettive (…) In preda a un completo oblio dell'essere sociale, il soggetto moderno non può autorappresentarsi come membro solidale di una comunità, ma deve pensarsi come individuo sovrano e originario, rispetto al quale la comunità e ogni altra forma di associazione devono essere intese, nella migliore delle ipotesi, come momenti secondari e derivati, in ogni caso non costitutivi della sua essenza.
I Greci non impiegarono mai il termine atomon per riferirsi all'uomo, proprio perché, per loro, esso non costituiva un “atomo sociale”, ma una psyché, un'”anima”, un'unità concreta e differenziata, diversa da tutte le altre. Se la saggezza greca aveva considerato ogni anima come un mondo unico e irripetibile, la modernità capitalistica, soprattutto a partire da Hobbes, imbocca la strada della riduzione dell'uomo a unità astratta e omogenea.
Il modello utilitaristico diventa, nel XVIII secolo, il paradigma dell'autofondazione della sovranità dell'economia sulla politica: si tratta di un'autofondazione, perché, rigettando tanto il modello della fondazione della società su basi teologiche, quanto quello della fondazione contrattualistica, l'economia diventa causa sui o, da una diversa prospettiva, resta un principio incausato. Ne scaturisce un modello religioso: l'economia di mercato, come la divinità monoteistica, non è creata. Il capitale tende, fin dal suo momento genetico, ad assumere una strutturazione teologica, spodestando le precedenti divinità e occupando il loro spazio nell'inedita forma di un Assoluto immanente, che deve essere assunto docilmente come principio direttivo dell'intera esistenza umana. Il nuovo sistema di produzione tende a produrre un'inesplorata fondazione simbolica e religiosa centrata sull'esteriorizzazione dell'onnipotenza dell'economia e della tecnica ipostatizzate, autonomizzate e assolutizzate. D'altra parte, tramite il dispositivo smithiano dell'invisible hand, emerge in modo tutt'altro che evanescente questo movimento di divinizzazione del mercato.
La valenza totalitaria dell'odierno sistema globale – fattore di riproduzione strategica dell'intero cosmo sociale, economico, politico – affiora soprattutto dal fatto che esso occupa capillarmente ogni settore della produzione e dell'immaginazione saturandolo con la forma merce, a tal punto da non riconoscere più alcuna resistenza sociale (economicizzazione del conflitto), culturale (eclisse della coscienza infelice) e politica (accettazione univoca del mercato come presupposto irrinunciabile da parte di tutti gli schieramenti politici). Proprio in forza di questa sua fisiologica colonizzazione di ogni spazio reale e immaginario, il capitalismo assoluto-totalitario non si riproduce affatto “a destra”, come comunemente si è indotti a pensare. Al contrario, esso occupa la totalità sociale, politica e simbolica e, di conseguenza, si riproduce a destra in economia, al centro nella politica, a sinistra nella cultura: a destra in economia, perché è oggi egemonica la neoliberistica sovranità assoluta dell'economia; al centro nella politica, in quanto è predominante un “estremismo del centro” e si hanno solo schieramenti interscambiabili di “centro-destra” e di “centro-sinistra”; a sinistra nella cultura, dal momento che, dal Sessantotto in poi, la cultura di sinistra, con il suo nichilismo relativistico, accetta integralmente il mercato e promuove la liberalizzazione di ogni realtà.
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