Alcune osservazioni in merito a “Comunisti, fascisti e questione nazionale” di Stefano G. Azzarà
di GENNARO SCALA (FSI Bologna)
L’anno scorso è stata pubblicata un’interessante ricerca storica, Comunisti, fascisti e questione nazionale. Fronte rossobruno o guerra d’egemonia? di Stefano G. Azzarà, riguardante vicende e questioni che restano irrisolte, pur essendo trascorso un secolo, e quindi sono state confinate nell’ambito della rimozione storica, che come ogni rimozione continua a condizionare inconsapevolmente il nostro pensiero. Esse riguardono un nodo cruciale della storia del socialismo e del comunismo, nonché della storia europea, relativo a vicende precedenti l’affermazione del nazismo, e su cui sarebbe tuttora necessaria una approfondita riflessione storica, anche e soprattutto da parte di storici professionisti. Purtroppo, dato lo stato comatoso della cultura italiana, il contributo di Azzarà è passato quasi inosservato.
Il libro riguarda principalmente la campagna lanciata da Radek nel 1923 a partire dall’uccisione di Leo Schlagter, un militante nazionalista ucciso dai soldati francesi in seguito ad un’azione di sabotaggio. In tale campagna vi era il riconoscimento di una legittima questione nazionale in Germania, in seguito all’intenzione manifestatasi con le sanzioni imposte dal Trattato di Versailles di ridurre la Germania in una condizione semicoloniale. Nel segnalare l’importanza di questo contributo non posso però non rilevare alcune rilevanti contraddizioni.
Non è condivisibile, anzi sbagliata e ingiusta, la netta linea divisoria tracciata tra la politica proposta da Laufenberg e Wolffheim e quella di Radek, quando questa era sostanzialmente la stessa. I primi devono fare la parte dei cattivoni nazionalbolscevichi, mentre il secondo dell’astuto politico che cercò di togliere il terreno da sotto i piedi al nascente nazionalsocialismo. Scrive Azzarà:
“Nel girare al mittente le accuse di connivenza con i fascisti, Radek poteva farsi forte del recente repulisti da lui stesso operato ad Amburgo, nel corso della repressione del nazionalbolscevismo vero e proprio. Proprio quell’episodio, anzi, ci consente di capire come la questione in gioco non fosse affatto quella di un fronte unico trasversale o della ricerca di un ibrido politico, come era stato invece qualche tempo prima nelle intenzioni di Heinrich Laufenberg e Fritz Wolffheim, con i quali pure Radek aveva parlato durante la detenzione nel carcere di Moabit a Berlino nel 1919” (p. 53).
Si trattava invece di far finta di cercare un’alleanza per lanciare una “guerra d’egemonia” e fregare i nazionalisti, i quali erano idioti e si sarebbero subito fatti fregare, invece a quanto pare secondo i documenti riportati da Azzarà, Moeller van den Bruck che fu l’interlocutore di principale di Radek denunciò subito le sue intenzioni egemoniche.
Azzarà è spinto dalla preoccupazione di smentire la “diceria” che Radek si fosse messo a “dialogare con i fascisti” (“che diranno i compagni?”, è la voce di una sorta di Super-Io collettivo diventato ormai fantasmatico in tutti i sensi della parola). Quando lanciò la sua campagna il fascismo era ancora in incubazione. Le sanzioni imposte dal Trattato di Versailles avevano creato in Germania una inequivocabile “questione nazionale” e Radek fece benissimo a sollevarla, cercando l’alleanza di tutti coloro che intendevano affrontarla in termini non sciovinistici e revanscistici. L’alleanza tra Germania e Unione Sovietica, avrebbe permesso ad entrambe le nazioni di uscire dall’accerchiamento delle “potenze democratiche” e avrebbe tagliato le gambe al nascente nazionalsocialismo. Senza una risposta credibile da parte dei comunisti, la questione nazionale tedesca avrebbe fornito le polveri al nazionalismo estremo, come già avvertiva Clara Zetkin (secondo la ricostruzione di Azzarà). Quindi l’accusa di aver collaborato con il fascismo è una demenzialità che non andrebbe presa in considerazione.
Sarebbe ora di riabilitare la memoria dei poveri Heinrich Laufenberg e Fritz Wolffheim, suo principale collaboratore, i quali non furono antesignani dei moderni “rossobruni”. Il primo fu un importante leader del movimento operaio tedesco a cavallo della prima guerra mondiale. Prima nella Spd e successivamente nel Kpd, fu oppositore della prima ora della guerra, tra l’altro conosceva Radek perché scrisse con lui un opuscolo contro la partecipazione alla guerra. Fu leader della “rivoluzione di Amburgo”, movimento politico sorto negli anni immediatamente successivi alla fine della guerra, che fu per ampiezza il secondo movimento comunista rivoluzionario, dopo quello di Berlino.
Laufenberg si ritirò dalla politica nel 1930, Wolffheim, di orgine ebraica, morì in un campo di concentramento. Essi per primi proposero un’alleanza della Germania con la Russia sovietica che permettesse alla prima di alleviare le sanzioni imposte con il trattato di Versailles, un obiettivo in cui sperava di far convergere anche la “borghesia”. Comunicarono tale proposta politica a Radek durante la sua prigionia a Berlino nel 1919. Radek a sua volta la riferì a Lenin dopo la sua liberazione e trasferimento in Urss. Riguardo alle vicende tedesche in quel periodo si intrecciava il pericolo e la speranza. Che vincesse la rivoluzione in Germania era considerato cruciale anche per la sorte della rivoluzione sovietica. Lenin riteneva inizialmente la rivoluzione sovietica il preludio ad una “rivoluzione comunista mondiale”, il blocco proposto da Laufenberg andava in direzione opposto ad una rivoluzione simil-sovietica in Germania.
In Estremismo, malattia infantile del comunismo attaccò le “madornali assurdità del ‘bolscevismo nazionale’ (Laufenberg e altri), che nell’attuale situazione della rivoluzione proletaria internazionale si è spinto fino al blocco con la borghesia tedesca per una guerra contro l’Intesa”. La critica di Lenin è stata generalmente considerata nel movimento comunista come prova inconfutabile: la posizione di Laufenberg era sbagliata. Ma questo vuol dire considerare Lenin come un capo infallibile, mentalità propria dei movimenti religiosi, e vuol dire incapacità di imparare dai propri errori. Anche i più grandi soccombono all’illusione storica.
Perché Laufenberg e Wolffheim fossero “nazionalbolscevichi” mentre invece Radek invece no, non è dato di capire. Né Laufenberg né Radek erano nazionalisti camuffati da bolscevichi, se questo si vuole intendere con il termine “nazionalbolscevico”. Si resero semplicemente conto che in Germania vi era una legittima questione nazionale, a cui i comunisti avrebbero dovuto dare una riposta credibile. Perché sarebbero sostanzialmente differente la proposta politica di Laufenberg da quella di Radek? Perché sul primo a differenza del secondo pesa il giudizio di Lenin. In realtà, quello che era cambiato dal 1919 (quando Laufenberg e Wolffheim presentarono i loro programma prima di essere espulsi dal Kpd) era il fatto che ormai diventava chiaro che non vi sarebbe stata nessuna rivoluzione simil-sovietica in Germania e che sarebbe stato meglio mirare ad un’alleanza tra le due nazioni. Radek in un primo momento si adeguò al giudizio di Lenin e si adoperò nell’espulsione di Laufenberg e Wolffheim dal KPD, ma successivamente ne adottò la linea politica con il lancio della campagna sul caso Schlagter nel 1923. Probabilmente, tale linea politica l’aveva interessato sin dall’inizio, ma si era adoperato per la loro espulsione perché questo era il volere di Lenin.
Che il messianesimo rivoluzionario potesse condizionare il punto di vista di Lenin è riconosciuto dallo stesso Azzarà quando critica la sua convinzione che la “vittoria del proletariato è immancabile” e avrebbe “tratto fuori l’umanità dal vicolo cieco in cui l’avevano condotta l’imperialismo e le guerre imperialistiche” (cit. da Azzarà, p. 121). Scrive Azzarà “Certamente indispensabile come mito di mobilitazione in anni di sangue e ferro, questo genere di ottimismo assoluto non poteva che portare a gravi errori di prospettiva politica perché rendeva le avanguardie, anche quelle più accorte, sostanzialmente disarmate di fronte alla contingenza e incapaci di cogliere fino in fondo la situazione concreta, e non un caso che esso si sia via via ridimensionato in Lenin dopo le più gravi esperienze di governo”. (p. 121)
Fu un errore la condanna iniziale di Lenin della politica Laufenberg, adottata successivamente da Radek nel 1923, che pare avesse l’appoggio dei vertici del Comintern, mentre non possiamo sapere quale potesse essere la posizione di Lenin che già agli inizi del 1923 era nella fase terminale della sua malattia che gli impediva di comunicare. Probabilmente, avrebbe avuto il sostegno dello stesso Lenin. Tuttavia tale linea non fu portata avanti coerentemente e l’intenzione non era quella di stabilire un’alleanza, ma di portare i presunti alleati nel proprio campo, a cui i nazionalisti rispondevano attraverso Moeller van den Bruck con un analogo proposito di portare i comunisti nel campo völkisch.
Nel voler differenziare le posizione di Laufenberg da quelle di Radek si manifesta il proposito contradditorio di Azzarà di voler esaminare gli errori del passato, ma restando collocato dalla parte del Bene. I comunisti non furono comunque dalla parte della “ragione storica” diedero il loro “valido contributo” alla tragedia che si concluse con la vittoria del nazismo e la seconda guerra mondiale. Il lavoro di Azzarà è importante per la comprensione della storia del comunismo e della storia europea riguardo questioni cruciali, ma va letto con spirito critico e “senza rete” avrebbe detto Costanzo Preve, senza la protezione psicologica data dalla convinzione autoconsolatoria di essere stati comunque dalla parte della “ragione storica”. Ciò che impedisce ad Azzarà di portare sino in fondo la riflessione sugli errori del passato, è la convinzione che i comunisti fossero in ogni caso dalla parte della “ragione storica”, essendo come Losurdo tra coloro che non hanno voluto e non vogliono prendere atto che un processo storico si è concluso e che bisogna intraprendere un “nuovo inizio”, visto che ormai la “ragione storica” del comunismo non la condivide ormai quasi più nessuno.
Perché si chiede Azzarà (p. 119) i comunisti non riuscirono a stabilire la propria egemonia sulle classi medie? La risposta sta già nella domanda: proprio perché ragionarono nei termini di una propria necessaria egemonia in nome di una fede del comunismo che aveva tratti messianici, essi non cercavano alleati ma adepti da convertire. E non era neanche vera e propria ricerca dell’egemonia perché questa comporta la capacità di stabilire dei patti con un alleato che resta diverso da sé stessi, e non si ha intenzione di sussumere all’interno della propria organizzazione. Per quanto riguarda l’egemonia effettiva sarebbe andata a chi aveva più filo da tessere.
L’alleanza tra la Germania, che Francia e Inghilterra volevano mettere in ginocchio, e la Russia sovietica, anch’essa accerchiata dalle “nazioni democratiche”, sarebbe stata naturale, se l’Europa in fase di disfacimento non fosse abitata dai fanatismi. Sia quanti si opponevano legittimamente alle sanzioni sia i comunisti potevano contare nei confronti delle rispettive pretese egemoniche sul reciproco bisogno che avevano Germania e Unione Sovietica e forse un’autentica alleanza avrebbe contribuito a stemperare i rispettivi fanatismi. Ma il fanatismo prevalse. In spregio alla comoda retorica degli “opposti fanatismi”, che riguarderebbe solo i comunisti e i nazionalisti, bisogna dire con forza che i primi fanatici furono coloro che pensarono di ridurre in condizioni semicoloniali una nazione come la Germania senza creare le condizioni per una nuova devastante guerra, soltanto dopo vengono i fanatici comunisti i quali erano dalla parte del Bene, del Progresso e della Storia, e i fanatici nazionalisti che ragionavano prevalentemente in termini revanscistici e per i quali la Russia sovietica era comunque il male, peggiore di chi nei fatti aveva messo in ginocchio la Germania.
La storia non si fa con i sé, ma chissà, lasciatemi immaginare, se la Germania e l’Urss si fossero alleate, i tedeschi, forse, non sarebbe stati buttati dalla disperazione nelle braccia dei nazisti. L’Unione Sovietica grazie al rapporto con una potenza economica quale la Germania non avrebbe avuto bisogno, per realizzare quello sviluppo economico che gli era indispensabile, delle misure eccezionali della “collettivizzazione forzata” da cui nacque lo stalinismo.
La perdita della centralità delle nazioni europee ci sarebbe stata lo stesso, dal momento che nascevano potenze come gli Usa e l’Unione Sovietica, ma forse non ci sarebbe stato il crollo rovinoso della II guerra mondiale. Ma la tragedia storica doveva compiersi.
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