Smascherare i «partiti sedicenti democratici»: la lezione di Gramsci nella tattica del Fronte Unico
Nell’intervento del 19 settembre scorso (http://www.riconquistarelasovranita.it/teoria/in-risposta-allintervento-di-moreno-pasquinelli-sovranismi-di-sinistra-di-destra-e-di-centro) in risposta alle critiche avanzate da Moreno Pasquinelli e dal Movimento Popolare di Liberazione alla linea politica dell’ARS (http://sollevazione.blogspot.it/2013/09/sovranismi-di-sinistra-di-destra-e-di.html) sostenevo che l’unica tattica veramente efficace contro il nostro comune nemico di classe, vale a dire il «Blocco Sociale Finanziario» diretto dal «Partito della Finanza» e plasmato dai dogmi del paradigma neoliberista a vocazione globalista ed eurista, fosse e sia, in adesione al principio di realtà e a quello della possibilità di trasformazione della stessa, l’elaborazione di un programma minimo comune di tutte le forze democratiche anticapitaliste e sovraniste. E proponevo a modello la linea politica escogitata da Antonio Gramsci nelle Tesi del III Congresso del Partito Comunista d’Italia (d’ora in poi Tesi di Lione, TL) nel gennaio del 1926, ovvero la tattica del fronte unico. Di qui l’idea della necessità di ricomporre un Fronte Unico del Lavoro costituito da quei blocchi sociali finora disgregati e dolosamente contrapposti, ossia: (a) il lavoro dipendente (pubblico e privato), (b) il lavoro autonomo (piccole e medie imprese, soprattutto agricole e artigianali), (c) il lavoro precario (in particolare, giovanile e immigrato); (d) il blocco dei disoccupati. Tesi che ho riproposto nel volantino dello scorso 14 dicembre (http://www.riconquistarelasovranita.it/azione/non-basta-protestare-bisogna-organizzarsi-il-volantino-dellars-per-il-9-dicembre), nel quale ho peraltro sottolineato come tale ricomposizione fosse tanto più necessaria in funzione della selezione di una nuova classe dirigente realmente alternativa a quella attuale che, proprio per questo, non può che provenire dalle fila del Fronte Unico del Lavoro.
Ora, anche alla luce dell’articolo di Stefano D’Andrea sul monito lanciato da Gramsci a non sottovalutare i movimenti spontanei (http://www.riconquistarelasovranita.it/teoria/gramsci-e-un-errore-trascurare-i-movimenti-spontanei-2), pubblicato lo scorso 13 dicembre in relazione alle manifestazioni promosse a partire dal 9 dicembre, approfitto di questo clima propizio per precisare i contorni della tattica del fronte unico facendo parlare lo stesso Gramsci, certo che le sue riflessioni risulteranno senz’altro suggestive. Prima però è indispensabile una premessa storica per ricostruire il contesto.
I passaggi che proporrò sono stati scritti, come accennavo, nel 1926, un anno cruciale della vita di Gramsci. E non solo perché l’8 novembre fu arrestato a Roma per effetto delle leggi fascistissime che durante il 1925 diedero corso all’instaurazione del regime fascista. Quell’anno è fondamentale anche perché Gramsci, allora Segretario del Partito Comunista d’Italia, sulla drammatica scia degli eventi segnati dall’omicidio Matteotti nel giugno del 1924, dal suicidio politico della secessione dell’Aventino che ne seguì e dal discorso di Mussolini alla Camera dei Deputati del 3 gennaio 1925, che instaurò di fatto il regime totalitario, elaborò quella tattica del fronte unico che, benché bocciata dal Comintern fino a metà degli anni Trenta, fu poi antesignana dei Comitati di Liberazione Nazionale che costituirono il centro direzionale della lotta di Resistenza contro il nazi-fascismo. Inoltre, perché sempre nel 1926 Gramsci maturò quell’insieme di radicali divergenze politiche con Togliatti e col resto della rappresentanza italiana presso il Comintern a Mosca che culminò col durissimo scambio epistolare del settembre-ottobre, nel quale Gramsci criticò Togliatti di «burocratismo».
Ma veniamo ai brani di nostro interesse. Partendo dalla considerazione della centralità nonché del carattere squisitamente politico dei problemi di organizzazione del partito – aspetto che ci tocca da vicino visto che come militanti siamo tutti chiamati a contribuire al radicamento dell’ARS sul territorio – Gramsci spinge affinché la base organizzativa sia stabilita nel luogo di lavoro, il che consiste in una scelta di campo essenziale anche in vista delle dinamiche dei rapporti sociali di produzione (TL: § 29). Giusto a proposito dei problemi particolari relativi ai singoli luoghi di lavoro e ai diversi settori produttivi e alle rivendicazioni che sorgono da questi, Gramsci scrive:
«È un errore il ritenere che le rivendicazioni immediate e le azioni parziali possano avere solamente carattere economico. Poiché, con l’approfondirsi della crisi del capitalismo, le classi dirigenti capitalistiche e agrarie sono costrette, per mantenere il loro potere, a limitare e sopprimere le libertà di organizzazione e politiche del proletariato, la rivendicazione di queste libertà offre un ottimo terreno per agitazioni e lotte parziali, le quali possono giungere alla mobilitazione di vasti strati della popolazione lavoratrice» [TL: § 39 bis]
«lo scopo nostro fondamentale è di ottenere una mobilitazione e una unità organica sempre più vaste di forze. Per raggiungere questo scopo occorre sapersi adattare a tutti i terreni che ci sono offerti dalla realtà, sfruttare tutti i motivi di agitazione» [TL: § 40]
«In Italia la tattica del fronte unico deve continuare ad essere adottata dal partito nella misura in cui esso è ancora lontano dall’aver conquistato una influenza decisiva sulla maggioranza della classe operaia e della popolazione lavoratrice» [TL: § 42]
Quindi, sulla base della premessa per cui «il partito comunista non può essere solo un partito di operai», ai quali spetta però il ruolo di parte dirigente, ma deve anzi «raccogliere intorno a sé e guidare tutti gli elementi che per una via o per un’altra sono spinti alla rivolta contro il capitalismo» [TL: § 29], Gramsci, da autentico democratico, esalta la necessità di coltivare una profonda sensibilità politica verso tutte quelle mobilitazioni che esulano dal terreno “familiare” delle fabbriche per comprenderne le ragioni e raccordarle alla causa più generale della lotta delle classi dominate. Ma come fare per conquistare un’«influenza decisiva sulla popolazione lavoratrice», in due parole, l’egemonia culturale? Scrive Gramsci:
«il partito può presentare, allo scopo di agevolare lo sviluppo della propria azione, soluzioni intermedie di problemi politici generali, e agitare queste soluzioni tra le masse che sono ancora aderenti a partiti e formazioni controrivoluzionarie. Questa presentazione e agitazione di soluzioni intermedie – lontane tanto dalle parole d’ordine del partito quanto dal programma di inerzia e passività dei gruppi che si vogliono combattere – permette di raccogliere al seguito del partito forze più vaste, di porre in contraddizione le parole dei dirigenti i partiti di massa controrivoluzionari con le loro intenzioni reali, di spingere le masse verso soluzioni rivoluzionarie e di estendere la nostra influenza (esempio: antiparlamento)» [TL: § 43]
«La presentazione e agitazione di queste soluzioni intermedie è la forma più specifica di lotta che deve essere usata contro i partiti sedicenti democratici, i quali in realtà sono uno dei più forti sostegni dell’ordine capitalistico vacillante e come tali si alternano al potere con i gruppi reazionari, quando questi partiti sedicenti democratici sono collegati con strati importanti e decisivi della popolazione lavoratrice (come in Italia nei primi mesi della crisi Matteotti) e quando è imminente e grave un pericolo reazionario (tattica adottata dai bolscevichi verso Kerenski durante il colpo di Kornilov). In questi casi il Partito comunista ottiene i migliori risultati agitando le soluzioni stesse che dovrebbero essere proprie dei partiti sedicenti democratici se essi sapessero condurre per la democrazia una lotta conseguente, con tutti i mezzi che la situazione richiede. Questi partiti, posti così alla prova dei fatti, si smascherano di fronte alle masse e perdono la loro influenza su di esse» [TL: § 43]
Troviamo qui un suggerimento di natura tattica a mio avviso molto prezioso, anche in riferimento alla congiuntura storica particolare che stiamo vivendo attualmente. Mi permetto di parafrasare il testo gramsciano sostituendo, al netto delle posizioni ideologiche e delle evidenti differenze storiche che rendono ciascuna epoca unica e irripetibile, alcuni termini del problema: (a) al Partito Comunista corrisponde oggi l’ARS dal momento che si trova, proprio come allora il PCdI, di fronte all’arduo compito di organizzare la lotta contro un regime, quello dell’Unione Europea germanocentrica e ultraliberista (allora quello fascista), che sta progressivamente mostrando il suo carattere totalitario, dunque antidemocratico e repressivo; (b) le «soluzioni intermedie» nell’interesse comune dell’intera «popolazione lavoratrice», che all’epoca di Gramsci riguardavano non solo la classe operaia ma anche, e per certi aspetti, soprattutto quella contadina e, come vedremo più oltre, i ceti medi, sono oggi la sintesi della matrice di rivendicazioni dei quattro blocchi sociali che compongono il Fronte Unico del Lavoro; (c) i «partiti sedicenti democratici», alla testa dei quali stava allora il Partito Socialista, corrispondono oggi ai partiti rappresentati in Parlamento, la gran parte dei quali, il Partito Democratico per primo (come suggerisce il suo stesso nome per una sorta di curiosa profezia lessicale), è costitutivamente e irrimediabilmente eurocratica ed eurista, mentre la minoranza che si proclama più o meno confusamente a favore della riconquista della sovranità, come per esempio la Lega Nord, è ancor più inadeguata e inaffidabile giacché diede, al pari delle altre forze, il proprio voto favorevole alla ratifica dei Trattati Europei da Maastricht in poi.
Ricaviamo allora che l’ARS deve avanzare su tutti i campi sociali in tensione, specialmente quelli dei blocchi sociali che si propone di rappresentare, proposte di riforma capaci di soddisfare, nei limiti di un quadro d’insieme coerente, le rivendicazioni delle classi in agitazione e di segnare un passo rivoluzionario rispetto alla tragica stagione di controriforme varate dai «sedicenti partiti democratici», antidemocratici e controrivoluzionari, negli ultimi trent’anni. Se l’ARS riuscisse a far questo, riuscirebbe anche a smascherare questi partiti che, malgrado la crisi, godono ancora, per quanto in forte diminuzione (come ho già cercato di mostrare altrove: https://www.appelloalpopolo.it/?p=9883), di un discreto consenso popolare, sul terreno di quelle stesse istanze di cui dovrebbero farsi carico se fossero animati da un sincero spirito democratico e fossero fedeli al loro mandato popolare nell’interesse della Nazione. E non basta dire, tra il serio e il faceto, che un partito come il PD a smascherarsi ci pensa benissimo da sé, come mostrano gli ultimi sviluppi al suo interno con la conquista di Renzi della segreteria e con il cambio del gruppo dirigente, alla luce dei quali il carattere liberista ed eurista del PD è ormai dichiarato e inequivocabile. Occorre un’azione attiva e penetrante dell’ARS sui temi concreti delle mobilitazioni sociali.
In questa operazione, la conquista dei ceti medi, vale a dire del lavoro autonomo e di alcuni fasce del lavoro dipendente, assume oggi come allora un’importanza centrale che Gramsci, nell’articolo Un’esame della situazione italiana dei primi di agosto del 1926, cioè alcuni mesi dopo le Tesi di Lione, avverte già perfattemente:
«in ogni partito ma specialmente nei partiti democratici e socialdemocratici nei quali l’apparato organizzativo è molto rilassato, esistono tre strati. Lo strato superiore molto ristretto che di solito è costituito di parlamentari e di intellettuali strettamente legati spesso alla classe dominante. Lo strato inferiore costituito di operai e contadini, di piccoli borghesi urbani, come massa di partito o come massa di popolazione influenzata dal partito. Uno strato intermedio che nella situazione attuale ha un’importanza ancora superiore all’importanza che aveva nei periodi normali in quanto rappresenta spesso il solo strato attivo e politicamente vivace di questi partiti. È questo strato intermedio che mantiene il legame tra il superiore gruppo dirigente e le masse del partito e della popolazione influenzata dal partito»
«Ora è appunto su una notevole parte di questi strati medi dei diversi partiti a carattere popolare che si esercita la influenza del movimento per il fronte unico. È in questo strato medio che si verifica questo fenomeno molecolare di disgregazione delle vecchie ideologie e dei vecchi programmi politici e si vedono gli inizi di una nuova formazione politica sul terreno del fronte unico»
Tutto ciò in virtù di quell’egemonia culturale che è fondamentale conquistare ai fini della lotta politica e che Gramsci ha pazientemente analizzato nell’intero corso della sua esistenza, fino alle ultime pagine dei Quaderni del carcere. Ecco alcuni passaggi significativi:
«siamo liberali, pur essendo socialisti. Il liberalismo, in quanto costume, è un presupposto, ideale e storico, del socialismo» [Scritti giovanili. 1914-1918, Einaudi, Torino, 1972: 225]
«[l’egemonia] presuppone una certa collaborazione, cioè un consenso attivo e volontario (libero), cioè un regime liberal-democratico» [Q. 6: 4 bis]
«Ogni rapporto di “egemonia” è necessariamente un rapporto pedagogico e si verifica non solo all’interno di una nazione, tra le diverse forze che la compongono, ma all’interno del campo internazionale e mondiale, tra complessi di civiltà nazionali e continentali» [Q. 10: 31]
«in qualche luogo il Croce ha affermato che non sempre occorre ricercare lo “Stato” là dove lo indicherebbero le istituzioni ufficiali, perché talvolta esso potrebbe trovarsi invece nei partiti rivoluzionari: l’affermazione non è paradossale secondo la concezione Stato-egemonia-coscienza morale, perché può infatti accadere che la direzione politica e morale del paese in un determinato frangente non sia esercitata dal governo legale ma da una organizzazione “privata” o anche da un partito rivoluzionario» [Q. 10: 45a]
In questo deve riuscire l’ARS: nel raggiungere, attraverso una campagna di persuasione culturale possibile solo all’interno di un regime di libertà di pensiero e di espressione, il consenso dei lavoratori dipendenti, degli autonomi, dei precari e dei disoccupati per poi ricomporne le istanze nel Fronte Unico del Lavoro che è la ragion d’essere e la sorgente della causa sovranista. Quanto questo regime di libertà di pensiero e di espressione sia effettivamente integro e lo resterà ancora, meriterebbe di essere discusso a parte. Sta a noi, però, mantenere vivi tutti i canali di comunicazione possibili coi blocchi sociali di riferimento e sfruttarli al massimo per strappare consensi alla nostra causa.
D.D.R.
Caro Domenico, grazie per il contributo.
Quattro osservazioni.
In primo luogo, l'ARS ha proposto molti provvedimenti che limiterebbero enormemente il grande capitale finanziario e industriale (oligopolistico e parassitario) e in questo preciso senso è anticapitalista; però volutamente non si è mai dichiarata anticapitalista. Quella che tu proponi è una scelta linguistica palesemente inopportuna e priva di ragioni strategiche e/o tattiche. Molto meglio dire che bisogna enormemente limitare il grande capitale finanziario e industriale oligopolistico e parassitario: sono molti di più coloro che si sentiranno spinti a seguirci (coloro che ci seguirebbero soltanto se adottassimo lo slogan dell'"anticapitalismo" e che sono più attaccati allo slogan che alla sostanza non ci interessano, perché sono evidentemente fanatici e sciocchi e sicuramente di poca presa sui loro conoscenti, amici e concittadini); e sono molti meno coloro che ci guaderanno con sospetto.
In secondo luogo mi sembra di ricordare che la Lega formalmente votò contro Maastricht, sebbene si tratti di una precisazione (dovuta ma) formale, visto che ha partecipato a governi che hanno dato attuazione a decine e decine di direttive europee.
In terzo luogo, non parlerei di "tattica del Fronte Unico" – e qui sta la differenza strutturale tra l'allora partito comunista e l'ARS – che comunque è ancora una piccola associazione, mentre il PCd'I aveva alcuni deputati, tra i quali Gramsci. L'ARS non è il partito che rappresenta una parte del lavoro e vuole tatticamente aggregare il Fronte Unico. L'ARS si propone fin da principio e strategicamente come associazione che intende valorizzare il lavoro in tutte le sue forme, autonomo e subordinato, stabile e precario, nonché coloro che sono in modo anticostituzionale condannati al non lavoro (disoccupati, attuali e futuri) dall'applicazione delle direttive e dei principi dei trattati europei. Questa mi sembra una differenza di non poco conto, che va posta in evidenza.
Infine, ciò che tu proponi è ciò che l'ARS dovrà fare quando, essendo riuscita a crescere quantitativamente e a ramificarsi fino al livello minimo necessario, si rivolgerà al popolo e al "pubblico" (che esiste e quindi dobbia tenerne conto). Ma questa azione potrà essere compiuta soltanto se e quando avremo raggiunto il primo obiettivo. Abbiamo più volte detto che ora dobbiamo costruire l'ifferta politica (uomini organizzazione e idee); poi l'offerta andrà a cercare la domanda. Sicché è bene tenere sempre a mente che per ora l'obiettivo dell'ARS è organizzare e disciplinare in un corpo unico le avanguardie disposte a militare nel Fronte Unico durante la lunga "fase" politica nella quale siamo appena entrati e che durerà almeno dieci anni. Ora non abbiamo la forza e per fortuna la voglia di fare ciò che dici (avere voglia di fare una cosa che non si ha la forza di fare significa condannarsi a morte certa). L'azione che suggerisci, che è da sempre l'azione desiderata dall'ARS, l'abbiamo sempre rinviata all'assemblea del giugno 2015. Anche questa precisazione è importantissima, perché l'ARS desidera che si iscrivano persone equilibrate, pazienti e realiste, ossia militanti forti e non militanti deboli.
Caro Stefano,
rispondo rapidamente alle tue osservazioni.
(1) Tu rilevi l’inopportunità, anche linguistica, dell’uso dell’aggettivo «anticapitalista» sostenendo che sia meglio dire che l’ARS intende piuttosto «enormemente limitare il grande capitale finanziario e industriale oligopolistico e parassitario». E questo sia per evitare di cadere nella tentazione di fare dell’anticapitalismo uno slogan vuoto di reale significato, come in effetti in passato è stato, sia per non spaventare o insospettire potenziali simpatizzanti e militanti.
Non sono d’accordo. Innanzitutto, proprio dal punto di vista dell’efficacia linguistica, usare una parola sola, secca e penetrante, è molto meglio che ricorrere a una perifrasi di 11 parole, la quale comporta molti più rischi di essere letta come un ambiguo giro di parole per evitare di dire quel di cui realmente si tratta, ossia un movimento anticapitalista, come tu stesso riconosci. Ritengo che non si debba aver paura di usare le parole quando queste esprimono ciò che realmente pensiamo e proponiamo. Ciò da cui bisogna guardarsi è l’incapacità o la non volontà di trasformare un progetto in una prassi, cosa che ha rappresentato a lungo un limite connaturato a gran parte della sinistra italiana.
Quanto ad evitare di fare della nostra linea anticapitalista una cartina di tornasole, sono assolutamente d’accordo con te. Proprio per questo milito nell’ARS, perché finora le sue proposte hanno aderito perfettamente al suo carattere costitutivo. Sul fatto di non spaventare o insospettire coloro che simpatizzano o militano per noi, dissento profondamente. Parliamoci chiaro: se un simpatizzante o un miltante dell’ARS si spaventa o s’insospettisce perché l’ARS si dichiara anticapitalista, allora o non ha letto il nostro statuto e le nostre proposte di riforma, che come tu stesso hai sottolineato sono anticapitaliste, oppure non le ha capite. Nel primo caso siamo di fronte a un superficiale o, peggio, a un opportunista, nel secondo a uno sprovveduto. Cosa dovremmo farci noi con dei tipi così? Io dico che sarebbe meglio perderli che trovarli anche se poi fare politica significa anche fare cultura e dunque educazione, per cui un partito vive sempre di uno “scambio pedagogico” con e tra i suoi militanti. Ma questo punto solleva una questione, quella della base sociale dell’ARS, che poi dovrebbe essere quella del Fronte Unico del Lavoro, sulla quale tornerò in un prossimo articolo.
(2) Sto scrivendo di getto perciò non ho modo di verificare ma, se la memoria non m’inganna, la Lega Nord dovrebbe avere votato a favore di Maastricht. Come che sia, ha votato sciaguratamente a favore di Lisbona, il che per molti versi è ancora peggio. E poi, come tu stesso hai ricordato, ha dato attuazione, nell’ambito dei governi di cui ha fatto parte, a una serie sterminata di altrettanto sciagurate direttive europee, per cui il leghisti sono complici, e dunque colpevoli, esattamente come tutto il resto dell’arco parlamentare italiano degli ultimi trent’anni.
(3) Sulle differenze tra l’allora Partito Comunista d’Italia e l’ARS hai ragione, infatti ho precisato io stesso che le mie considerazioni vanno lette «al netto delle posizioni ideologiche e delle evidenti differenze storiche che rendono ciascuna epoca unica e irripetibile». Tant’è che ho sempre parlato di «Fronte Unico del Lavoro» e non di «tattica del fronte unico», come faceva invece Gramsci. Proprio perché si tratta di due epoche diverse e quel che allora avrebbe dovuto essere un’alleanza tattica, sulla base della quale il proletariato avrebbe poi dovuto assumere una funzione dirigente, rappresenta oggi un orizzonte strategico dal momento che conosciamo ormai bene tutti i limiti organizzativi e politici della classe operaia e non siamo narcotizzati da una concezione salvifica del proletariato come classe liberatrice dell’umanità: la storia ha dimostrato che ciò non è necessariamente vero e che non esistono classi depositarie di soluzioni liberatrici della “popolazione dominata”.
(4) Sulla prospettiva per la quale la conquista dell’egemonia, pur fondamentale, sia da perseguire in un secondo momento, cioè dopo aver costruito l’«offerta politica», ho una visione al tempo stesso più semplice ma anche più complessa. Mi spiego: le due cose, vale a dire la costruzione dell’organizzazione politica e la conquista dell’egemonia, non sono disgiunte, non sono l’una la premessa dell’altra. Si tratta, a ben vedere, di due processi non solo paralleli ma che si alimentano a vicenda. E non necessariemente in maniera del tutto consapevole. Costruire un’organizzazione, definire un’identità politica, darsi una disciplina, rispettare un codice, rappresentano già una forma di offerta politica, tant’è che queste operazioni dipendono in parte anche da un riscontro immediato nella popolazione del Fronte Unico del Lavoro, cioè all’interno di quei blocchi sociali che costituiscono la nostra base di mobilitazione. Non solo: il processo di conquista del consenso in vista dell’egemonia culturale implica per forza di cose correzioni, aggiustamenti, ridefinizioni e perfezionamento proprio della stessa organizzazione politica, che, per definizione, non può essere già bella e pronta al momento di presentarsi. Non può e non deve essere rigida e immodificabile ma deve sapersi adattare, proprio come sosteneva Gramsci, a ogni terreno di confronto dialettico e di lotta politica, proprio perché ci rivolgiamo a dei blocchi sociali che finora sono stati messi artatemente gli uni contro gli altri come i capponi di Renzo e tra i quali dobbiamo essere noi a saper mediare, a trovare la quadra, a definire un punto d’equilibrio politicamente rivoluzionario e vincente. Perciò i due processi, costruzione dell’organizzazione e conquista del consenso, non sono consequenziali né acquisiti una volta raggiunti ma sempre in movimento e sempre in comunicazione tra loro.
In ogni modo, ne riperleremo anche se sono convinto che i punti di contatto tra noi restano molti di più di quelli di divergenza.
A presto
Domenico
Caro Domenico,
mi sembra che sulla seconda e sulla terza delle mie osservazioni ci sia pieno accordo. Perciò torno sulla prima e sulla quarta.
Oggi, se chiedi a 100 persone se sono d'accordo con l'obiettivo di limitare il potere del grande capitale finanziario e industriale, il 90% ti risponde che è d'accordo. Se chiedi alle medesime persone se sono anticapitaliste il 90% ti risponde di no.
Se i dati sono questi è semplicemente folle, insensato, impolitico scrivere in un documento politico che si è anticapitalisti. Quando tra dieci-venti anni si sarà diffusa l'idea che il capitalismo è concorrenza e non libera iniziativa privata – la quale è compatibile con (e anzi essenziale per) il socialismo – allora converrà dichiararsi anticapitalisti (persino Luciano Barra Caracciolo parla di capitalismo regolato e così Bagnai; forse hanno "torto"; oppure anche loro sanno ciò che so io e, come ha fatto l'ARS fino ad ora, optano per una scelta linguistica opportuna).
In secondo luogo, bisogna tener conto che il 50% almeno di coloro che oggi si dichiarano anticapitalisti sono addirittura contrari alla libera iniziativa privata (anzi, alcuni sono contrari persino al lavoro come fondamento della società). Distinguerci da questi retrogradi, trogloditi e immorali è fondamentale. E questa è un'altra ragione per non definire l'ARS anticapitalista.
D'altra parte su 218 iscritti attuali, mi sembra che si e no uno o due amino qualificare i nostri contenuti e la nostra proposte come anticapitalisti. E' chiaro come il sole che l'inserimento in un nostro documento delle parole "prospettiva anticapitalista" e simili sarebbe stra-bocciato nella nostra assemblea. E non è bene proporre temi, idee e parole che vengono bocciati. Bisogna proporre temi, idee e parole che ottengono il consenso unanime o quasi (ne parlammo già a proposito delle parole "compagni" e "patrioti"). Insomma non bisogna proporre le nostre idee ma quelle che abbiamo compreso essere le idee di tutti. Le nostre proposte divengono ciò che è essere accettato da quasi tutti. E' così che si costruisce un soggetto collettivo.
L'ARS aspira a creare, eventualmente assieme ad altri, un soggetto politico. Il soggetto politico si crea nella situazione data. Poi, quando è creato ed è forte, compatibilmente con la condizione storica, compreso il movimento che la caratterizza, svolge anche un ruolo di formazione. Fino ad allora questo compito non può essere svolto se non molto ma molto marginalmente e con molta cautela.
Vengo alla quarta osservazione. Per quanto riguarda l'idea che prima si debba formare l'offerta politica e poi l'offerta viene rivolta al popolo o pubblico a me sembra addirittura una banalità. Un conto è dire a Tizio: aggregati, aiutaci a creare questa offerta politica; un conto è dire: noi vogliamo fare questo e quest'altro. In questa seconda ipotesi, Tizio, se è persona ragionevole, ti guarda negli occhi e ti chiede: ma quanti siete? E quando gli rispondi "per ora 220", se è persona ragionevole ti sorride bonariamente.
Fino a quando non arriveremo a 1500 persone non esistiamo – dobbiamo ficcarcelo nella testa -, se non nella realtà virtuale. Parlare ai nostri fratelli, cugini, agli amici d'infanzia, agli amici di scuola, ai compagni degli studi universtari, ai vicini di casa, ai genitori degli amici di asilo dei nostri figli, alla segretaria, al barista, all'edicolante, ai colleghi, ai commercianti presso i quali facciamo acquisti, ai frequentatori del nostro bar, agli zii, ai militanti che incontriamo quando quando ci rechiamo nei presidi nel movimento del 9 dicembre, ai lettori di appello al popolo e di riconquistare la sovranità e invitarli in incontri di 10-15 persone per illustrare il progetto e spiegargli che ognuno si impegna in primo luogo a trovare altri militanti per il progetto: QUESTA E NESSUN ALTRA E' LA NOSTRA AZIONE POLITICA. Ed è un'azione volta a dare vita ad un soggetto collettivo. Se entro il giugno 2015 non siamo in numero sufficiente, il progetto abortisce.
A noi non interessa il circolo culturale. Il circolo culturale è la prigione nella quale ci rinchiuderemo se falliremo.
Un'offerta politica che non esiste non può per definizione rivolgersi al popolo o al pubblico. Qui a me la questione sembra logica. Al più la tua proposta può costituire una forma di suggerimento volto ad indicare i luoghi nei quali e i modi con i quali cercare i militanti. Ma non credo che ci sia bisogno di suggerimenti. Ognuno mette in pratica la propria azione di proselitismo e se riesce e ha successo la addita ad esempio. Ma prima deve metterla in pratica e deve avere successo. Io, per esempio, credo di aver trovato un metodo eccelente ma fino a quando, tra tre o quattro mesi, non potrò dire "noi abbiamo compiuto questo tipi di azioni e abbiamo ottenuto questi risultati" tengo per me la proposta.
Caro Stefano,
assodato che sul primo punto non siamo d’accordo, vorrei farti notare che sull’altro (cioè la quarta osservazione) non c’è una vera e propria divergenza e quel che sembra tale è in realtà un equivoco. E questo equivoco sta nel concetto di cultura. Cerco di spiegarmi.
Ciò che riassumi nel «parlare ai nostri fratelli, cugini, agli amici d’infanzia, agli amici di scuola, ai compagni degli studi universtari, ai vicini di casa, ai genitori degli amici di asilo dei nostri figli, alla segretaria, al barista, all’edicolante, ai colleghi, ai commercianti presso i quali facciamo acquisti, ai frequentatori del nostro bar, agli zii, ai militanti che incontriamo quando ci rechiamo nei presidi del movimento del 9 dicembre, ai lettori di Appello al popolo e di Riconquistare la sovranità e invitarli in incontri di 10-15 persone per illustrare il progetto e spiegargli che ognuno si impegna in primo luogo a trovare altri militanti per il progetto» – in breve l’insieme di operazioni che costituisce la nostra sola «azione politica» nella fase attuale – tutto questo è cultura. Cultura non è, o almeno non solo e per minima parte, quel che tu chiami «circolo culturale», e che potremmo tradurre col più comune “salotto”, dal quale, per inciso, per il momento, facciamo benissimo a stare alla larga.
È cultura l’intero patrimonio di conoscenze, di saperi e di elaborazioni che consentono all’uomo di soddisfare i propri bisogni e le proprie curiosità nell’ambiente in cui vive. La legge di gravitazione universale di Newton è cultura tanto quanto lo è un sonetto di Petrarca; la scienza delle costruzioni è cultura esattamente come la pittura rinascimentale; la rivoluzione scientifica di Galilei è cultura né più né meno che un album dei Beatles; l’abilità dei maestri di Murano nel lavorare il vetro è cultura proprio come un film di Kubrick.
Ecco allora che organizzare il nostro movimento è fare cultura. I nostri incontri sono cultura, come pure i nostri dibattiti, e ancor più i nostri documenti; di qui la responabilità di scriverli bene e affinché siano comprensibili a tutti. Tutto ciò è parte integrante della costruzione del consenso in funzione della conquista dell’egemonia. Ed è proprio in questo senso che i due processi, l’organizzazione e la penetrazione culturale, si alimentano l’un l’altro fino a risultare inscindibili. Senza l’uno non ci può essere l’altro e viceversa.
A presto
Domenico
Domenico,
a questo punto concludo che anche sotto il profilo della quarta osservazione la divergenza è linguistica. Scrivere "l’ARS deve avanzare su tutti i campi sociali in tensione, specialmente quelli dei blocchi sociali che si propone di rappresentare, proposte di riforma capaci di soddisfare, nei limiti di un quadro d’insieme coerente, le rivendicazioni delle classi in agitazione e di segnare un passo rivoluzionario rispetto alla tragica stagione di controriforme varate dai «sedicenti partiti democratici», antidemocratici e controrivoluzionari, negli ultimi trent’anni" mi sembra preferibile con riferimento all'ARS tra uno o due anni. Insomma dai l'impressione che l'ARS esista nella realtà mentre non esiste. Quasi tutti i movimenti nascenti muoiono perché parlano come se esistessero e poi finiscono per agire come se esistessero, ingannando se stessi. Per questa ragione io sto sempre molto attento a tenere i piedi per terra e a ripetere che la nostra attività politica oggi consiste nel costruire il soggetto, non nel farlo agire, visto che ancora non esiste.
Non mi è chiaro se intorno al I punto tu pensi che i giudizi che ho dato (se chiedessimo a 100 persone… ecc.; il 50% di coloro che si dichiarano anticapitalisti sono contrari alla libera iniziativa privata) sono errati in fatto, ovvero se pur concordando in linea di principio con quelle percentuali credi che un nuovo soggetto collettivo non debba tenerne conto.
Caro Stefano,
intorno al primo punto penso semplicemente che si possa ragionare in termini statistici solo quando si abbiano alla mano indagini statistiche condotte scientificamente. Mancando queste, fare delle stime a spanna mi pare indebolisca il ragionamento piuttosto che rafforzarlo, dal momento che si tratta di quantificazioni che risentono molto delle nostre relazioni personali, le quali, pur indicative, non esauriscono il quadro sociale.
Detto questo, il mio dissenso si basa sul fatto che preferisco definire per bene le cose e l'aggettivo anticapitalista mi pare colga in pieno uno dei caratteri dell'ARS. Non farlo potrebbe generare ambiguità e far sembrare l'ARS un movimento interclassista, cosa che, se ho capito bene, non è, giacché la nostra base sociale di mobilitazione è rappresentata dai quattro blocchi del Fronte Unico del Lavoro, da cui restano esclusi gli imprenditori della grande impresa, il ceto mangeriale (sia i top manager che gli alti dirigenti pubblici), i boiardi di Stato, il ceto pseudo-intellettuale asservito al regime, ecc. Insomma, i nostri nemici.
È solo il timore di trovarmi, in una riunione del movimento in cui milito, accanto a un grande imprenditore (che è cosa ben diversa dai piccoli e medi imprenditori che lavorano fianco a fianco coi loro operai), che molto probabilmente negli anni passati ha portato i suoi capitali all'estero nei paradisi fiscali e ha delocalizzato buona parte delle sue attività, che mi spinge a essere chiaro e netto su questo punto. Tutto qui.
A presto
Domenico
Le parole hanno un significatoche deriva dalla loro storia. E anticapitalista ha significato essere contro la libera iniziativa privata. Assumerle in un nuovo significato e' un'operazione culturale legittima. Il problema è se è politicamente opportuna. Grandi imprenditori e grandi manager, boiardi di stato e pseudo-intellettuali non verranno nelle assemblee dell'ARS, questo mi sembra indubitabile.
Aggiungo che "limitare il potere del grande capitale" è più in linea con il sovranismo. A me, sinceramente, se altri popoli desidereranno in maggioranza continuare a fondare lo "sviluppo" sui grandi centri commerciali, le borse, la finanza, le grandi banche d'affari e il capitale marchio importa fino a un certo punto. Non ho la pretesa di combattere il sistema mondiale capitalistico, obiettivo che lascio volentieri ai vuoti oratori di alcuni centri sociali e circoli culturali. Piu' umilmente ho deciso di impegnarmi per limitare il potere del grande capitale sulla mia terra e nella mia nazione. Per questo "modesto" obiettivo credo di poter fare qualche cosa, sempre che lieviti una cultura sovransta (il sovranismo per forza di cose, limita, tanto o poco, il potere del grande capitale finanziario, marchio e industriale). Se poi tra dieci-quindici hanni l'Italia costituisse un'esperienza imitata da altri popoli, la cosa mi farebbe piacere.
Frequento un Tribunale, una Università, quindi una cinquantina di colleghi e qualche centinaio di studenti, 220 iscritti all'ARS, un bar frequentato da una cinquantina di operai, lavoratori a giornata, agricoltori e piccolissimi artigiani, una cinquantina di studenti della MMT, alcuni eccellenti siti (Bagnai, Caracciolo, Voci dall'estero, voci dalla germania). Di gente che si dichiara anticapitalista quasi non ne conosco. Potremmo chiedere ai 220 iscritti all'ARS (ma non credo che ve ne sia bisogno) e arriveremmo a una conclusione certa: coloro che si dichiarano anticapitalisti sono senza alcun dubbio meno del 10% della popolazione.
Vorrei fare un'osservazione sull'uso del termine "anticapitalista". Rovesciamo la situazione e immaginiamo un movimento che voglia "enormemente limitare la grande burocrazia statale oligopolistica e parassitaria". Ad esempio un partito che, nell'URSS brezneviana, avesse voluto rompere la cappa burocratica imposta dai molteplici piani quinquennali incapaci di produrre il benessere minimo necessario alla popolazione. Avrebbe, per ciò stesso, potuto autodefinirsi "anticomunista"? Ovvio che no.
Io credo che un equivoco di fondo risieda nel fatto che alcuni non abbiano ancora compreso che l'ARS non intende promuovere un sistema economico e sociale guidato esclusivamente dai principi del collettivismo e dell'economia di piano, sebbene arricchito da una compiuta democrazia politica. L'ARS sostiene che lo Stato deve tornare a svolgere un ruolo di primo piano nella conduzione economica, assegnando alla pianificazione e al mercato i rispettivi compiti: la prima definisce gli obiettivi sociali da raggiungere e utilizza gli strumenti monetari e di programmazione economica, il secondo fornisce le informazioni indispensabili senza le quali nessuna programmazione è possibile. Il problema delle economie collettiviste (da quella sovietica a quella cinese) è sempre stato l'impossibilità pratica di pianificare in anticipo quanto, di ogni merce e/o servizio, dovesse essere prodotto, e a quali prezzi relativi. Solo il mercato fornisce queste indicazioni, le quali, recepite dai pianificatori, forniscono a questi le informazioni necessarie. Ora, se c'è un mercato deve esserci, per forza di cose, un capitale privato. Il problema, dunque, è quale di questi due soggetti, lo Stato o il Capitale, debba essere prevalente. Per l'ARS deve essere prevalente lo Stato. Questo non significa che l'ARS intenda "distruggere" il capitale privato. Dunque, qualificare l'ARS come "anticapitalista" conduce ad una profonda ed essenziale incomprensione. L'ARS, invece, vuole "enormemente limitare il grande capitale finanziario e industriale oligopolistico e parassitario". Così è molto più chiaro.
£rrata corrige.
Non "Io credo che un equivoco di fondo risieda nel fatto che alcuni non abbiano ancora compreso…" bensì "Io credo che un equivoco di fondo risieda nel fatto che alcuni non hanno ancora compreso…"
Sono un po' pignolo.
Caro Stefano, caro Fiorenzo,
innanzitutto vi ringrazio per le vostre osservazioni, che ci permettono di fare chiarezza sulle nostre posizioni e di aprire un confronto che non può che far bene all’ARS e ai suoi militanti.
(1) Voi continuate a preferire la perifrasi «enormemente limitare il grande capitale finanziario e industriale oligopolistico e parassitario» all’aggettivo «anticapitalista», che io prediligo perché più netto e immediato. Vi invito a non trascurare che, per quanto precario e assai lontano dall’essere strutturato in una qualche università, ammesso che ambisca ancora a questo, sarei un linguista, dunque un ricercatore il cui oggetto di studio è rappresentato dal linguaggio, diciamo pure dal sistema linguistico, indagato attraverso una o più delle oltre 7 mila lingue censite (7105 secondo le ultime rilevazioni di Ethnologue). Perdonate perciò la mia deformazione professionale ma devo farvi notare alcuni aspetti: (a) una parola è sempre preferibile a un giro di parole, specie se questo dà l’impressione di confondere le idee piuttosto che chiarirle; (b) nel caso della nostra perifrasi, poi, dobbiamo rilevare un uso improprio dell’avverbio «enormemente», il quale, per consuetudine, dovrebbe seguire il verbo cui si riferisce: per carità, non si tratta di una regola (anzi, nella lingua non ci sono regole ma solo eccezioni), però in italiano suona meglio e in questo caso pure; (c) sempre l’avverbio «enormemente» gioca a nostro sfavore perché rende l’intera perifrasi piuttosto opaca: che differenza ci sarebbe fra limitare enormemente (sic!) il capitale e l’opposizione radicale rappresentata dall’anticapitalismo? Certo che ci sono ma si tratta di sfumature che nelle forzature dell’argomentazione politica rischiano di sbiadirsi e di non essere colte. L’impressione che se ne ricava è che si abbia paura di dire anticapitalismo per non spaventare potenziali simpatizzanti e militanti anche se poi in realtà proprio all’anticapitalismo si pensa: del resto, tu stesso, Stefano, hai ammesso che molte delle misure proposte dall’ARS sono a tutti gli effetti anticapitaliste. (d) L’oggetto della perifrasi complica ancora di più le cose perché mette in campo un argomento complesso come il «grande capitale» e lo precisa restringendolo a quello «finanziario» e «industriale», connotandolo infine come «oligopolistico» e «parassitario». Il problema delle perifrasi è che ogni parola di cui si compongono, come tutte le parole che si usano, deve essere contestualizzata, dunque spiegata. E qui abbiamo ben 5 termini da spiegare in relazione a un unico oggetto. E non si tratta di termini banali. Capitale «finanziario» e «industriale»: ma siamo così sicuri che nell’attuale fase di produzione capitalistica siano poi così distinti? E se sì, cos’è l’uno e cos’è l’altro? E magari: perché vogliamo contenere proprio tutte e due? «Oligopolistico» e «parassitario»: so bene che sappiamo cosa stiamo dicendo, il problema è spiegarlo a chi non lo sa, e sono decine di milioni di persone. Capite cosa voglio dire? Per me si può anche usare questa perifrasi dal momento che la capisco, anche se lo stile è un po’ grezzo, ma rischia di non essere capita o, ancor peggio, di essere fraintesa da una grande maggioranza. Sul piano squisitamente stilistico suona un po’ come le vecchie parole d’ordine vetero-comuniste imparate a memoria e ripetute a pappagallo dai quadri del partito più burocratico dell’Occidente. La mia perplessità, quindi, è puramente espressiva. Certo che anche l’aggettivo «anticapitalista» trascina con sé un retaggio storico e culturale piuttosto scomodo, se non altro, però, ha il vantaggio di essere più diretto, di condensare meglio una posizione politica.
(2) Tuttavia, poiché non è il momento di dividersi ma anzi di definire i punti d’incontro e di unirsi, e siccome non tengo poi neanche tanto all’etichetta di anticapitalista, che pure delinea la mia visione personale, propongo di uscire da questa piccola impasse attraverso l’aggettivo «antiliberista», che credo metta tutti d’accordo. Mi pare infatti che l’ARS possa essere definita a buon diritto un’associazione antiliberista, col che possiamo ben sottendere che contiene e promuove idee e proposte antitetiche al paradigma liberista e marginalista attualmente dominante, il quale, per l’appunto, rappresenta l’avamposto più avanzato del modo di produzione capitalistico, che costituisce lo spirito stesso del disegno globalista ed eurista. Per conto mio, quindi, m’impegno, ogni qualvolta sarò chiamato a parlare dell’ARS e in nome dell’ARS, a mettere da parte l’aggettivo «anticapitalista» a favore di quello «antiliberista». Penso sia ragionevole, no?
(3) Infine, Fiorenzo, rispondo brevemente alla tua osservazione. Posto che bisognerebbe aprire una discussione su termini centrali quali mercato, capitale e pianificazione, la confusione di cui tu parli non è un rischio in cui incorro. Mi spiego: so bene che la nostra non è né deve essere un’economia pianificata burocratizzata sul modello di quella, fallimentare, sovietica. Neanche, se mi permetti, sul modello del capitalismo di stato cinese, peraltro irriproducibile vista l’originalità della sintesi confuciana, taoista e buddhista che è stata innestata su un regime comunista per diversi aspetti già molto originale di suo. La nostra economia, per come la vedo io, dovrebbe essere un’economia poliarchica in cui c’è un grande centro regolatore e di garanzia: lo Stato, il quale deve controllare tutta la grande impresa dei settori industriali strategici, come l’energia, il petrolchimico, il gas, il metano, la siderurgia, la meccanica, la chimica industriale, ecc. Lo Stato però deve anche tutelare il risparmio e le piccole e medie imprese, che in Italia sono per lo più agricole e artigianali: deve essere loro amico attraverso una riforma radicale dell’intero sistema bancario e deve creare le condizioni perché nuove imprese, sotto l’impulso delle forze giovanili che si affacciano nella produzione, possano nascere, crescere e prosperare. Lo Stato deve anche incentivare la formazione di nuovi sistemi cooperativi, tutelandoli ma anche vigilando sull’autenticità del loro carattere. Lo Stato, inoltre, deve essere il regolatore ultimo della produzione di tutti i beni cosiddetti comuni, tramite il controllo diretto o una rigorosa partecipazione pubblica. E tutto questo, infine, tessendo pazientemente una fitta rete di rapporti tra il mondo della produzione e quello della cultura, in particolare quello dei saperi, la cui sede naturale è rappresentata, o almeno dovrebbe esserlo, dalle università.
Spero di essermi fatto capire.
Per ora è tutto.
A presto
Domenico
Caro Domenico,
a me sembra che i documenti dell'ARS siano chiarissimi:
l'ARS non è semplicemente antiliberista (anche Rifondazione lo è). E comunque esiste una parola chiara per indicare il concetto in senso positivo: dirigista;
l'ARS non è soltanto antiglobalista o antiunionista. E anche in questo caso esiste una paroila per indicare il concetto in senso positivo: sovranista;
l'ARS si definirebbe anche socialista, se questa parola fosse intesa diffusamente in senso lato, perfettamente corrispondente all'attuazione che della costituzione fu data per oltre trenta anni. Ma siccome le cose non stanno così l'ARS è per un'economia sociale e popolare";
l'ARS non è anticapitalista, perché con questa parola tutti coloro che non si qualificano anticapitalisti e una parte molto rilevante della esigua minoranza che si qualifica anticapitalista intendono un regime giuridico di avversione di principio alla libera iniziativa economica (e quindi al rapporto di lavoro subordinato privato). +Anzi, inteso l'anticapitalismo in questo senso, l'ARS è antianticapitalista. L'ARS, guardando alla storia italiana (vogliamo cominciare da là; poi ci sono altre cose da fare) ha avanzato molte proposte che limitano il potere del grande capitale;
infine l'ARS è contraria al liberoscambismo ed è per un sistema economico sufficientemente chiuso, conseguenza che deriva in modo automatico dai notevoli vincoli alla libera circolazione dei capitali che l'ARS propone.
Mi sembra che queste brevi proposizioni siano a tutti chiare e corrispondono al programma di fase che l'ARS si è proposta. La fase durerà almeno 10 anni (ma potrebbero essere venti). Poi, a Dio piacendo ci divideremo.
Perciò credo che per almeno 10 anni non abbiamo niente da discutere. Abbiamo soltanto da lavorare per costruire l'ARS su queste premesse, che sono quelle sulla base delle quali e in ragione delle quali un numero significativo di persone molto valide ha deciso di militare (proporre di cambiare le carte in tavola, anche di pochissimo, dopo che queste persone000 hanno aderito è evidentemente una idea grave che non dobbiamo nemmeno lasciare balenare).
Caro Stefano,
tutto quel che tu hai puntualizzato penso sia in linea con quanto ho cercato di riassumere al punto (3) del mio commento precedente. Perciò non mi pare di essere così eretico. Il mio intervento non era minimamente teso a «cambiare le carte in tavola» né credo di aver mai dato quest'impressione. Se l'impostazione dell'ARS non mi fosse andata a genio dall'inizio, semplicemente non avrei deciso di aderirvi. Mi pare elementare.
Però su un punto voglio invitarti a riflettere. Quando sostieni che «per almeno dieci anni non abbiamo niente da discutere», il che riecheggia ciò che avevi già detto in uno dei primi commenti, vale a dire che «non bisogna proporre le nostre idee ma quelle che abbiamo compreso essere le idee di tutti», secondo me si corre il rischio di fare dell'ARS un monolite, cioè un organismo rigido e incapace non solo di interpretare la realtà ma anche di modificarla in maniera originale.
Cerco di spiegarmi. Capisco e condivido il presupposto per il quale non è questo il momento di dividersi e bisogna cercare la maggiore unità possibile attraverso un lavoro di sintesi politica. Tuttavia, sedare la discussione e limitare il confronto non sono il modo migliore per raggiungere l'unità. Anzi, come mostra la storia dei partiti della sinistra radicale degli ultimi venti-trent'anni, la mancanza di un'autentica dialettica interna costituisce la ragione fondamentale della loro implosione, scatenata non a caso da una miriade di scissioni.
Inoltre, penso che la prima e irrinunciabile forma di espressione sia quella personale, cioè delle proprie idee. Senza per questo avanzare la pretesa d'imporle all'associazione e ai militanti che la compongono. L'idea per cui dovremmo attenerci a proporre solo ciò che possa essere condiviso da tutti rappresenta quindi un principio controintuitivo oltre che regressivo. Per quel che riguarda l'istruzione per esempio, e nello specifico la scuola, l'università e la ricerca, se dovessi attenermi a quel che ho sentito mormorare tra il pubblico all'assemblea dello scorso giugno, non sarei in grado di proporre una vera riforma degna di questo nome. Tanta era la confusione e l'incompetenza sul tema di buona parte di coloro che sono intervenuti e hanno votato (alcuni di pancia, altri senza aver letto i documenti delle proposte), che se dovessi tener conto dei loro pareri ne uscirebbe fuori un pastrocchio.
Ognuno cioè porta nell proprie idee la sua storia, le sue competenze, le sue conoscenze dei problemi, dei dati, delle statistiche e delle tendenze in atto. Certo che bisogna cercare l'unità avanzando proposte che siano coerenti con la ragion d'essere dell'ARS ma bisogna anche avere il coraggio di scuotere il Paese con idee che, allo stato dell'arte, non possono che risultare radicali agli occhi una società civile un po' assopita e ormai assuefatta a riforme campate per aria. Che poi questa originalità, specie per quanto riguarda la scuola, consista nel recupero e nella rielaborazione di modelli messi a punto nel passato, nella grande tradizione di educatori di primissimo livello che vanta il nostro Paese, questo è un altro discorso.
In breve, lavoriamo per l'unità e la coesione, certo. Ma con coraggio e originalità.
A presto
Domenico
Caro Domenico,
so che siamo d'accordo. Il punto che io non mi stancherò mai di sottolineare è che oggi non è l'ARS che deve agire. Oggi ci sono i militanti dell'ARS che devono agire per costruire l'ARS e dotarla di un numero sufficiente di uomini. Le analisi e le proposte ci sono già e sono sufficienti.
Quando il soggetto collettivo esisterà già nella realtà, sorgerà anche la necessità di dibattere. Ma fino a quando non saremo un partito di governo o un partito che propone delle parole d'ordine per candidarsi alle elezioni, il dbattito deve essere esclusivamente sull'azione – come agire; quale tattica; quale strategia; come aggregare – altrimenti saremmo bambini che giocano a fare la politica (Alternativa, Per il bene comune e altri tentativi simili hanno avuto questa caratteristica deleteria, anzi mortifera). Perché un soggetto collettivo dibatta, si allei, si candidi, deve prima esistere.
Nell'ARS, invero, c'è un grande dibattito ma riguarda appunto l'azione e la teoria dell'azione. Tutto viene preso in considerazione e vagliato ma soltanto al fine di valutare al meglio come agire per aggregare intorno al progetto che c'è: ogni documento non in grado di ottenere il 90% del consenso deve essere ritirato, perché non vi è alcun bisogno di giocare a creare minoranze e maggioranze in ungruppo di qualche centinaio di persone. Se crediamo che su una certa materia non siamo in grado di proporre un documento che trovi il consenso del 90% degli iscritti, dobbiamo intelligentemente evitare di proporlo. Non c'è alcuna fretta. Un'associazione con limitato numero di iscritti e magari 50 documenti approvati ed eventualmente proposte di legge elaborate o sa di essere un circolo culturale o, se crede di essere un soggetto politico, è malata di estrema ingenuità. Abbiamo 10 anni per elaborare 50 documenti politici.
Questo è l'unico punto sul quale non sono sicuro vi sia consenso tra noi e che tuttavia è iscritto nel progetto fin da principio. Personalmente, sarei disponibile a militare in una associazione che avesse approvato documenti molto peggiori (dal mio punto di vista) rispetto a quelli dell'ARS e che tuttavia seguisse la strategia iscritta nel progetto, anziché in un'associazione che accogliesse tutte le mie idee ma seguisse una strategia diversa.
Ecco perché mi permetto sempre di dire "state attenti" quando qualcuno dice l'ARS deve fare questo o quest'altro. L'ARS come soggetto politico ancora non esiste. Non è lì'ARS che deve fare. Sono Stefano D'Andrea, Domenico Di Russo, Fiorenzo Fraioli che devono fare… (l'ARS). E cosa dobbiamo fare? Prendere tutti i nostri compagni di giochi, di scuola, di università, di quartiere, di ex militanza, di famiglia, tutti i conoscenti intelligenti e proporgli il progetto dell'ARS. Ognuno ha almeno 100 persone da contattare. Ma non basta contattare, bisogna suggerire letture (tra i tanti articoli e documenti che abbiamo scritto), invitare a riflettere, dire che li ricontatteremo, ricontattare, uscire assieme, invitare a casa propria un numero di persone e alla fine dell'anno dare all'ARS 5 nuovi militanti (poi magari qualcuno ne dà solo 2 o 3 e altri 7). Oltre a ciò, naturalmente, bisogna partecipare alle azioni di militanza collettiva.
Se il soggetto esisterà, e credo francamente che esisterà, allora ovviamente dibatterà e agirà. Oggi l'unico dibattito sensato è quello sulla strategia di aggregazione ma è un dibattito che va svolto con delicatezza (e in privato, non certo in pubblico), perché per sostenere quale sia la migliore strategia bisogna prima averla praticata con profitto e allegare i risultati.
Caro Stefano,
da questo punto di vista, siamo assolutamente d'accordo. Se vado oltre è solo perché amo fare progetti.
Buon anno, Stefano.
A presto
Domenico