Commento a un articolo di Noëlle Burgi e Philip Golub su «Le monde diplomatique»
di Gianluigi Leone (ARS Lazio)
Si commentano alcuni brani di un vecchio articolo di Noëlle Burgi e Philip S. Golub, Il falso mito dello Stato post-nazionale, in «Le monde diplomatique» (ed. it.), n. 4, aprile 2000.
Gli autori descrivono attentamente le fasi di affermazione del capitalismo globalizzato contemporaneo, passando poi a descrivere, con una certa ambivalenza, il conseguente svuotamento delle sovranità nazionali.
L’articolo comincia descrivendo con scetticismo le tesi diffuse che vedono ormai superata la storica correlazione tra stato nazionale e capitalismo.
“La globalizzazione condannerebbe lo stato nazionale all'obsolescenza, renderebbe impotente la politica e ridurrebbe la sovranità a un guscio vuoto.
Quest'ipotesi del post-nazionale e della post-sovranità è plasmata sulle pretese universaliste del capitalismo contemporaneo, che penetra, per la prima volta nella storia, in ogni recesso del pianeta, e si erige oramai a sistema globale”.
“Saremmo giunti così a un improvviso deperimento dello stato nazionale moderno, divenuto semplice gestore di vincoli economici preminenti, che assisterebbe impotente al rovesciamento del rapporto di forze a vantaggio dei mercati mondializzati, e al conseguente svuotamento della sua sovranità. E quindi cesserebbe di essere, all'interno dei suoi confini storici, il luogo privilegiato dell'identità e dell'agire politico. Non più quadro strutturante di una fattiva solidarietà sociale, della convivenza e del bene comune, conserverebbe per lo più verso l'esterno soltanto gli attributi formali della sovranità. In breve, nel migliore dei casi lo stato sarebbe ormai un attore banale tra gli altri (privati) del sistema internazionale. E nella versione più pessimistica, avrebbe addirittura perduto il controllo, tanto da non essere più in grado di determinare il corso degli eventi, e neppure di influenzarli”.
Gli autori negano la fondatezza di queste tesi, e osservano che “lo stato americano, lungi dall'essersi autodissolto nella nuova utopia mercantilista, ha consolidato la propria egemonia e affermato la propria sovranità in maniera spettacolare. Quanto all'Europa, il potere statuale vi si è ridispiegato per entrare nel gioco della mondializzazione e realizzare l'unificazione economica del continente. Se è vero che questa reinvenzione dei compiti statuali avviene al prezzo di crescenti sofferenze sociali, ciò non si spiega affatto con un indebolimento meccanico dei poteri dello stato”.
Insomma, il problema non starebbe nell’indebolimento degli stati, ma in una reinvenzione dei compiti statuali, a spese della collettività e a vantaggio del nuovo capitale in trasformazione. Gli autori forse non potevano prevedere che oggi, a distanza di quasi 15 anni dalla stesura dell’articolo, anche il capitale nazionale di paesi sviluppati come Italia e Francia si trova in serie difficoltà all’interno delle nuove regole globali. Pertanto arriva a decadere la tesi della “reinvenzione dei compiti statuali” a vantaggio dei mercati nazionali delle vecchie potenze. Non solo. Se è vero che insieme al veleno del libero mercato oggi fuori controllo i vecchi stati nazionali elaborarono anche una serie di antidoti con l’introduzione di strumenti di tutela e sviluppo sociali, e seppero evolversi in democrazie costituzionali, è altrettanto certo che la perdita totale di sovranità nazionale cancellerebbe decenni di lotte e di conquiste sociali, a esclusivo vantaggio di quelle grandi concentrazioni di cui la sinistra si dichiara nemica.
Più avanti nell’articolo, si passa a descrivere lo svuotamento delle sovranità nazionali.
Si riconosce che la "globalizzazione istituzionalizza un nuovo rapporto di forze tra gli stati, che rinsalda la sovranità degli uni e restringe l'autonomia degli altri", arrivando a cancellare la sovranità residua dei "più vulnerabili tra i paesi del Sud del mondo".
Si sostiene ambiguamente che "l'Unione europea, attivamente coinvolta nell'utopia del libero mercato mondiale, costituisce però al tempo stesso un potenziale contrappeso nei suoi riguardi".
Il processo di integrazione non è nato "per creare un'identità contrapposta, ma suscettibile di misurarsi con gli Stati Uniti". Gli stati membri hanno cercato "i mezzi di affermare congiuntamente una sovranità che su scala di stato-nazione non era più in grado di far fronte alla globalizzazione".
I "vincoli della globalizzazione" e "gli imperativi dell'unificazione economica" vengono definiti "ineluttabili".
Si sostiene che in Europa "i trasferimenti di sovranità a vantaggio dell'istanza comunitaria non comportano una perdita di sovranità nazionale. Non si tratta di un gioco a somma zero. Data la pressione reale esercitata sugli stati-nazione dalla ridefinizione delle regole del gioco economico mondiale, si può parlare piuttosto di una messa in comune delle sovranità, grazie alla quale gli stati si tutelano dal rischio di essere sommersi, e hanno modo di riconquistare la sovranità minacciata su scala dei rispettivi territori, grazie al sostegno di una più vasta aggregazione regionale".
Dunque, da un lato si denuncia lo svuotamento delle sovranità nazionali come conseguenza deleteria dei processi di globalizzazione in atto (ma deleteria solamente per i paesi periferici del "sud del mondo", secondo il classico pregiudizio geografico che considera vulnerabili solo i paesi sottosviluppati), dall'altro si introduce l’improbabile espressione "messa in comune delle sovranità" per descrivere il processo attraverso il quale i paesi europei resisterebbero meglio agli attacchi esterni.
Il problema del "deficit democratico" nella (secondo gli autori) necessitata “messa in comune delle sovranità” è eluso con l'astuta introduzione di un argomento di supporto: "se parliamo di sovranità in quanto relativa autonomia nel sistema dei rapporti tra gli stati, è indubbio che gli esecutivi nazionali abbiano saputo e potuto esercitarla fondandosi sulle strutture comunitarie, almeno nei settori chiave legati al riorientamento dell'economia mondiale: se vi è un ambito di consenso europeo, è senz'altro quello della libera concorrenza, oramai eretta a valore e priorità assoluta. Questa coincidenza tra le volontà politiche nazionali e quella europea è tanto meno contestabile in quanto molte riforme introdotte su scala degli stati membri hanno in parte preceduto la normativa comunitaria, e spesso vanno molto al di là di quanto avrebbe richiesto la stretta osservanza dell'obbligo comunitario". In pratica si sostiene che la perdita di sovranità sia in fondo apparente, data la supposta coincidenza tra le volontà politiche nazionali e comunitarie.
Si prosegue attraverso una strumentale distinzione tra sovranità nazionale e sovranità popolare, evidentemente a supporto di quanto asserito fino a questo punto: “Se invece parliamo dell'esercizio della sovranità popolare, possiamo constatare come esso sia sopraffatto da pratiche che imbavagliano le rappresentanze parlamentari, anche e sempre più spesso su temi essenziali, e condizionano in misura anche maggiore la società civile, ponendola di fronte a fatti compiuti.”
“Nel contesto della mondializzazione e dell'unificazione europea, questo "deficit democratico" significa che la riorganizzazione della sovranità degli stati avviene per mezzo ma anche al prezzo di una considerevole autonomizzazione del potere politico, malamente mascherata dal nuovo arsenale di norme con le quali si asserisce di voler arginare la frattura sociale.”
Si riconosce che l’armonizzazione sociale a livello comunitario è “molto difficoltosa, se non addirittura impossibile”. Si ammette che “gli stati, più vicini ai cittadini, sarebbero in una posizione migliore per difendere i loro interessi, nel rispetto delle tradizioni sociali e dei temperamenti nazionali.” Tuttavia si preferisce suggellare il tradizionale e consueto giudizio negativo emesso a carico dello stato-nazione, asservito per definizione al capitale nazionale. Pertanto si da per certo che “le riforme sociali nazionali convergono tutte verso una stessa finalità: la liberalizzazione del mercato del lavoro”.
Quanto alle istituzioni comunitarie “più che giocare il ruolo di usurpatrici di sovranità nazionali in declino, hanno consentito agli stati membri di perseguire con altri mezzi i loro interessi nazionali”.
“Con l'avanzare del processo di unificazione europeo, così come è stato concepito fin dalle origini, in una sorta di marcia cieca e forzata verso una "finalità senza fine", gli stati si trovano presi nell'ingranaggio di quest'Europa che procede senza voltarsi indietro, e nega loro ogni possibilità di ritirare la parola data. Avendo stabilito i grandi orientamenti politici, portano la responsabilità delle norme che vengono poi promulgate dalla Commissione e imposte a tutti gli stati membri come leggi preminenti rispetto alle legislazioni nazionali”.
“La soluzione allora non sarebbe un ritorno allo statu quo ante, poiché una volta abbandonati a se stessi gli stati membri si ritroverebbero privi dei margini di manovra che si erano ricostituiti grazie all'azione concertata. L'unica prospettiva sarebbe allora una ridefinizione delle finalità dell'Unione europea”.
“Le crescenti disuguaglianze, anche al di là del problema etico che comportano, finiscono sempre per frenare per lo sviluppo economico e minare la coesione sociale. Nel contesto europeo, la dinamica transnazionale potrebbe essere l'occasione di un'armonizzazione sociale al livello più alto, attraverso un allineamento delle clausole e pratiche più favorevoli in materia di condizioni di lavoro, salari, occupazione e tutela sociale”.
“Ciò presuppone un volontarismo politico che manca al momento attuale, ma che sarebbe esemplare se riuscisse ad affermarsi. Se, al contrario, avremo un'Europa costituita come impero del libero scambio a fronte dell'egemonia americana, ci avvieremo forse verso un mondo multipolare, ma non certo più equo”.
In sintesi, c’è chi inventa per te gioco e regole, e tu, pur non condividendo né il gioco né le regole, devi comunque sederti al tavolo e giocare, contando morti e feriti, e cullando la speranza che si presenti l’occasione di una “armonizzazione sociale al livello più alto” di quello nazionale, nonostante questa appaia "molto difficoltosa, se non addirittura impossibile".
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