Speciale Siria -Gabriele Del Grande
C’è un italiano, al quale dobbiamo tributare onore, che da tempo sta scrivendo reportage dalla Siria. Ha scritto due serie di articoli: “Speciale Siria”; e "Reportage Siria". Si chiama Gabriele Del Grande. Sebbene dagli articoli trapeli una certa simpatia per i rivoltosi, il tono è equilibrato. La riflessione profonda.
Qual è l’equilibrio di forze tra gli islamici moderati che sono la maggioranza dei rivoltosi e i Mujahideen, che sono una minoranza? Come potrà evolvere questo equilibrio? Chi gestisce le corti islamiche? I rivoltosi, non soltanto i Mujahideen, non fanno prigionieri e uccidono i soldati e i miliziani che catturano. Stanno combattendo i curdi? Stanno combattendo alcuni cristiani? Che uomini sono gli internazionalisti che giungono da tutte le parti del mondo? Avvocati, ingegneri , professori che sanno di andare molto probabilmente incontro alla morte, quando addirittura non ci vanno volontariamente, immolandosi come uomini-bomba. Sono uomini che meritavano di liberarsi i laici di sinistra che avevano promosso le rivolte pacifiche? O sono codardi fuggiti, che in gran parte non partecipano alla rivolta armata e che meritano di restare in esilio o di essere sottomessi, alternativamente, ad Assad o al governo islamico, moderato o estremista, nel caso in cui i rivoltosi vinceranno? Quali armi posseggono i rivoltosi?
Chiunque voglia sapere con un po’ più di profondità cosa sta accadendo deve leggere le due serie di articoli. L’autore è equilibrato. Non sposa l’odio per il regime dei rivoltosi. Non asserisce che l’esercito siriano sia più violento dei rivoltosi. Insomma, articoli da leggere tutti d’un fiato.
Per ora copio e incollo i cinque articolI che compongono "Speciale Siria". Essi sono strati scritti tra il 20 ottobre 2012 e il 24 ottobre 2012. E descrivono la situazione al tempo della scrittura. Vedremo che a distanza di quattro mesi, le valutazioni, contenute nel "Reportage Siria" sono un po' cambiate. molti degli articoli sono stati rifiutati dal Corriere della sera da la Repubblica e da altre testate nazionali.
Speciale Siria. La guerra di Aleppo (1) 20 ottobre 2012
L'eco degli spari e delle esplosioni va avanti incessantemente giorno e notte. I combattenti dell'esercito libero si danno il turno su camionette e furgoncini scassati che fanno avanti e indietro dal fronte. Sono soprattutto ragazzi delle campagne di Aleppo. Mostafa faceva il commerciante, Yusef il falegname, Ahmed l'informatico, Abu Malek il rivenditore di auto. Sono quasi esclusivamente arabi musulmani, salvo qualche raro caso di ex ufficiali cristiani e drusi dell'esercito che hanno disertato per unirsi alla rivolta.
Molti di loro nel 2011 erano scesi in piazza durante i sei mesi di proteste pacifiche. Fino a quando, abbandonati dalla comunità internazionale e sottoposti ogni giorno a omicidi, arresti e torture, hanno aderito all'Esercito libero formato da un gruppo di ufficiali disertori. Era l'agosto dello scorso anno. All'inizio si limitavano a proteggere le manifestazioni dagli attacchi delle forze di sicurezza e degli sgherri del regime. Poi una parte dell'opposizione siriana – sostenuta dal Qatar, dall'Arabia Saudita e dagli Usa – ha scelto la soluzione militare, iniziando ad attaccare le forze del regime nelle campagne e in città.
Le armi nel paese sono arrivate velocemente. Le brigate più vicine ai fratelli musulmani siriani e ai salafiti hanno ricevuto fondi dai paesi del Golfo. Altri carichi sono arrivati dalla Libia o semplicemente sono stati razziati dalle caserme del regime durante gli scontri. La maggior parte dei combattenti però, le armi le ha comprate di tasca propria, spesso vendendo casa e proprietà perché ormai i costi sul mercato nero della mafia turca sono aumentati di cinque volte. Un anno fa un kalashnikov si comprava con 300 dollari. Oggi non si trova a meno di 1.500 e i proiettili costano due dollari l'uno.
I principali teatri di battaglia tra l'esercito regolare e l'esercito libero sono la città di Aleppo e le campagne di Damasco, Idlib, Homs, Hama, Deraa, Dair El Zur e Rastan. Ad Aleppo la situazione è un inferno. I punti di contatto tra i due eserciti sono una decina lunga una linea che divide in due la città. L'esercito libero ne controlla la zona sudorientale e tutte le campagne fino alla frontiera con la Turchia di Azaz e Bab Hawa. Mentre il regime ha in mano la zona nordoccidentale della città e l'aeroporto. Lo stesso da dove decollano gli aerei che bombardano giorno e notte i civili rimasti in città.
Al pronto soccorso dell'ospedale di Sukkari ad Aleppo, i feriti arrivano ininterrottamente. I cadaveri ancora caldi vengono lasciati sulle barelle, mentre il sangue gocciola sul pavimento. Medici e infermiere non hanno il tempo di pulire. C'è da pensare agli anziani, alle donne, ai bambini piccoli. Che arrivano con le facce imbiancate dai calcinacci caduti sotto le esplosioni dei colpi di mortaio.
In via Tariq el Bab due missili hanno mandato in frantumi le facciate di due palazzi e gli appartamenti del primo piano sono crollati. Il giorno dopo, il signor Mohamed è già al lavoro per ricostruire il muro del negozio. Bozze di cemento e un po' di calce. Una vita di sacrifici, dice, e in un attimo non c'è più niente. Eppure gli è andata meglio delle famiglie al primo piano. Una strage: 11 morti, compresi 4 bambini, e 15 feriti.
Non tutti i cittadini delle zone libere di Aleppo appoggiano l'esercito libero. In particolar modo i meno coinvolti nelle manifestazioni, che giudicano un errore l'aver puntato tutto sulla guerriglia urbana. Perché così facendo hanno portato la guerra in città e alla fine – come in tutte le guerre – il conto più salato in termini di morti lo stanno pagando i civili.
Ahmed però la pensa in modo opposto. È un ragazzo di 25 anni di Damasco. Ha una kefya nera avvolta intorno alla testa e i pantaloni mimetici militari. Dice che l'esercito libero non ha munizioni né armi pesanti, e che l'unico modo per battere le forze armate del regime è la guerriglia urbana.
Parla, e ha il volto teso. È il suo primo giorno di guerra e deve ancora abituarsi a vedere i corpi degli amici dilaniati dalle bombe, le teste esplose dalle schegge di una granata, i vestiti intrisi di sangue per un colpo dritto al cuore di un cecchino.
Fino all'anno scorso Ahmed viveva negli Emirati Arabi, dove aveva una ditta di informatica. In Siria era tornato per le manifestazioni, a Damasco, ma era finita con 45 giorni di galera. Appena è uscito ha preso il primo aereo per la Libia, dove ci sono dei campi di addestramento per i siriani, a Misrata. E da là è tornato con un fucile in mano, dice, per liberare il paese dalla dittatura.
Oggi la brigata di Ahmed ha fatto esplodere due carri armati e tre blindati del regime. Ma le perdite umane tra le fila dei combattenti sono altissime. Statistiche attendibili non ce ne sono, ma per farsi un'idea bastano i numeri di Abu Malek.
Abu Malek un anno fa faceva il rivenditore di automobili. Le armi le ha prese quando la polizia gli ha ammazzato il fratello in una manifestazione. E oggi è a capo della brigata dei martiri di Salah Ed Dine, tutti ragazzi dell'omonimo quartiere popolare di Aleppo. Dei 115 uomini che aveva a disposizione un mese fa ne ha già persi 40: dodici sono morti in battaglia e altri 28 sono gravemente feriti. Le vittime della guerra ad Aleppo però sono soprattutto civili.
Aleppo, i giardinetti di Sukkari trasformati in cimitero, foto di Alessio Genovese
L'ultimo martire è un uomo di mezza età colpito alla testa da un cecchino dell'esercito di Assad. Lo stanno seppellendo in quello che prima della guerra era il giardinetto di Sukkari. Due ragazzi scavano in fretta una buca, con la pala. Hanno paura di attirare l'attenzione degli aerei militari che sorvolano la città. Al lato della fossa, tre bambini stanno a guardare, ormai abituati a vedere la morte abitare i loro quartieri.
Improvvisamente uno stormo di uccelli neri attraversano il cielo. Questa volta l'esplosione è molto più forte delle precedenti. È un bombardamento aereo. L'ennesimo. Da una strada non lontana si leva una colonna di fumo. Seguono altre esplosioni, saranno a un chilometro di distanza, in mezzo a una zona abitata, lontano da qualsiasi obiettivo militare.
Intorno a noi la gente fa finta di niente. Nessuno fugge in cerca di un riparo. Sollevano per un attimo lo sguardo per scorgere la sagoma degli aerei militari, e poi ritornano a parlare. È come se ormai avessero imparato a convivere con la guerra. O forse semplicemente si arrendono alla sorte. Perché la verità è che è impossibile prevedere dove gli aerei colpiranno la prossima volta. Bombardano a caso i quartieri liberati con l'unico obiettivo di terrorizzare e punire la popolazione che è rimasta in città.
Aleppo, Tariq el Bab dopo un bombardamento, foto di Alessio Genovese
Intanto da Aleppo sono fuggite migliaia di persone. Dati non ce ne sono, ma basta guardare le strade semivuote e le serrande chiuse dei negozi per farsi un'idea. Eppure, nonostante tutto, Aleppo è tutt'altro che una città fantasma. Certo, l'acqua e la corrente elettrica vanno e vengono, i prezzi dei generi alimentari sono raddoppiati, la benzina scarseggia e le piazze sono diventate discariche dove brucia la spazzatura raccolta per le strade. Ma per chi rimane la vita va avanti lo stesso.
I negozi hanno iniziato a riaprire, nei mercati è tornata la frutta e la verdura, e la gente fa la fila davanti ai pochi forni aperti per comprare il pane. A ricordare la guerra sono soltanto i boati delle continue esplosioni e le macerie delle case crollate sotto i bombardamenti aerei.
Contro l'aviazione militare del regime, l'esercito libero non può fare niente. Servirebbero dei missili antiaerei terra-aria. Ma i contrabbandieri siriani ce lo hanno detto chiaramente: sulle armi pesanti c'è il veto assoluto degli americani. Lo prova è che il cargo di missili partito dalla Libia a inizio settembre, è stato sequestrato dalle autorità turche nel porto di Iskenderun. La paura di tutti infatti è che quelle armi finiscano nelle mani sbagliate. Ad esempio nelle mani di quel migliaio di mujahidin islamisti giunti in Siria a combattere al fianco dell'esercito libero siriano.
httpv://youtu.be/3Y29fdEqssI
21 October 2012
Speciale Siria. Internazionalisti o terroristi? (2)
ALEPPO – Avevo conosciuto Abu Abed la sera prima, all'ospedale Zarzur, insieme ad Abu Moaz e Abu Zeid. Lasciati i fucili all'ingresso della clinica e trascinati dalla voce di petto di Abu Zeid, avevano intrattenuto medici e infermieri per una buona mezz'ora con tutto un repertorio di canzoni di guerra. Canzoni che incoraggiano i ragazzi a impugnare le armi, a dire addio ai propri familiari e a partire per la guerra. Una guerra combattuta nel nome di dio per porre fine all'ingiustizia e all'oppressione e per diffondere l'islam. Senza temere mai di morire. Perché chi muore da martire nella via del signore, vivrà in paradiso in eterno. È quello che gli uomini di religione chiamano jihad. Ed è quello che sta spingendo centinaia di giovani da tutto il mondo a unirsi alla rivoluzione siriana. Ragazzi come Abu Zeid e Abu Moaz, che in Siria sono arrivati da molto lontano.
Sì perché Abu Zeid “il cantante” non è siriano, bensì tunisino. È venuto ad Aleppo un mese fa. I contatti giusti li ha avuti tramite un gruppo salafita di Sfax e il fucile belga di alta precisione con cui fa il cecchino nelle fila dell'Esercito libero, lo ha comprato di tasca propria. Abu Moaz invece è egiziano. E prima di partire faceva il professore di storia islamica all'università di Al Azhar, al Cairo. Sono entrambi trentenni. La stessa età di Abu Abed, dei tre l'unico siriano, che prima della rivoluzione faceva l'imam in una moschea di Aleppo e che per le sue prediche contro il regime era già stato condannato a tre anni di carcere nel 2008.
Ad unire Abu Zeid, Abu Moaz e Abu Abed è la bandiera sotto cui combattono. La bandiera nera del jihad. La stessa che da un mese sventola sopra la scuola di Sukkari, che ad Aleppo è la sede di una delle più importanti brigate rivoluzionarie islamiste: gli Ahrar Al Sham, i Liberi del Levante. Sopra c'è scritto in arabo "La ilaha illa allah wa Mohammad rasul allah". “Non c'è altro dio all'infuori di dio e Mohammad è il suo profeta”.
Per anni quella bandiera nera è stata usata da una miriade di sigle del terrorismo islamico. Nella Siria di oggi però è diventata il simbolo dell'internazionalismo islamista. Sì perché nella scuola di Sukkari fanno base combattenti di mezzo mondo. Libici, sauditi, ceceni, tunisini, afghani, ma anche francesi e australiani.
Hanno le barbe lunghe, il turbante nero, pantaloni mimetici militari, e un kalashnikov in spalla. Tra di loro ci sono alcuni veterani della guerra, come i ceceni, i libici e gli afghani. Altri invece sono ventenni alla prima esperienza. Non tutti hanno una formazione islamista radicale. Tanti sono venuti semplicemente per seguire un grande ideale di solidarietà con la comunità musulmana sunnita siriana, a cui sentono di appartenere al di là delle frontiere. Né più né meno come i comunisti italiani che nel 1936 andarono in Spagna a combattere contro il fascismo (corsivo aggiunto).
Per la loro partecipazione alla guerra, non otterranno niente in cambio. Al contrario, sanno che la maggior parte di loro morirà presto in battaglia. Quello che non sanno è che chi si salverà, non riuscirà a conservare il proprio idealismo. Perché come tutte le guerre, questa è una guerra sporca.
Sporca come il sacco sulle spalle del vecchio appena uscito dalla sede della brigata islamista. Gronda sangue. Dentro ci sono i vestiti degli shabbiha catturati nei giorni scorsi. Si tratta dei criminali assoldati dal regime per perseguitare gli oppositori. A tagliare loro la gola è stato l'afgano, con una specie di spada. I corpi li hanno sepolti nella piazzola sotto il cavalcavia, dove hanno già sotterrato un'altra ventina di sgherri del regime giustiziati alla stessa maniera. Il vecchio ora sta andando a bruciare i loro panni.
Nessuno dei combattenti però presta attenzione al suo passaggio. Perché nel frattempo è arrivata una macchina in corsa. I primi a scendere sono Abu Zeid e Abu Moaz. C'è un cadavere a bordo da scaricare. Si tratta di Abu Abed. E' successo tutto un'ora prima. Il colpo di mortaio è esploso a un paio di metri dall'auto. E per Abu Abed non c'è stato niente da fare.
Adesso il suo corpo freddo giace su una barella al centro della moschea di Fatima Aqila, avvolto in un lenzuolo bianco macchiato di sangue. Abu Zeid lo bacia sulla fronte ingiallita per un ultimo saluto. Più in disparte, Abu Moaz seleziona sul telefonino la nuova immagine di sfondo. È l'ultima foto che ha scattato ad Abu Abed con le sue due bambine prima che partisse per la guerra.
I pianti degli uomini in armi durano poco. Il sole è già alto e Abu Abed deve partire per il suo ultimo viaggio. La tradizione vuole che sia seppellito prima del tramonto nel suo villaggio natale, sulle colline di Atma, lungo la frontiera con la Turchia.
Il viaggio dura molto più delle due ore previste. Prima ci fermiamo nelle campagne a nord di Aleppo per scaricare un gruppo di combattenti ceceni lungo una nuova linea del fronte. Poi visitiamo una fattoria dove sono nascosti una cinquantina di combattenti degli Ahrar el Sham per dare loro la notizia del martirio di Abu Abed.
Quando arriviamo ad Atma è già buio. Una folla di un centinaio di persone circonda il pickup con il cadavere a bordo. Dalle finestre della casa a fianco si odono i singhiozzi di una donna che piange. Dura tutto pochissimo, perché immediatamente la folla si muove in un corteo che accompagna il cadavere verso il cimitero, gridando ripetutamente: “Dio è grande e il martire è amato da dio!”.
La fossa è già stata scavata. Abu Moaz, il professore egiziano, dirige la preghiera. Illuminati da un paio di pile in mezzo alla notte oscura, tre ragazzi del paese iniziano a ricoprire di terra il cadavere, con la massima cura. Il viaggio di Abu Abed finisce qui. Ma per uno che parte altri otto ne arrivano.
Li incontriamo il giorno dopo sui sentieri del contrabbando lungo la frontiera tra Turchia e Siria. Quattro sauditi, due afroamericani, un siriano britannico e un neozelandese. Scendono a piedi dalla collina. Hanno le barbe lunghe, un piccolo zainetto alle spalle e gli occhi eccitati di chi parte per un'avventura che è un grande viaggio di iniziazione.
Un recente rapporto dell'Istituto svedese di affari internazionali, stima che i combattenti internazionali presenti in Siria siano tra gli 800 e i 2.000, circa il 5% delle forze dell'esercito libero siriano. Le principali brigate jihadiste che accolgono i combattenti internazionali sono il Jabhat el Nusra e gli Ahrar el Sham. Il Jabhat el Nusra (Fronte della vittoria) è la più piccola, ma è quella più vicina ad Al Qaeda, almeno a giudicare dal grado di popolarità che gode sui siti internet vicini all'organizzazione terroristica.
La brigata degli Ahrar Al Sham (I liberi del Levante) è invece una delle più importanti fazioni non solo dei mujahidin ma di tutto l'esercito libero. Su facebook hanno una pagina seguita da duemila persone, in cui ogni giorno postano notizie dal fronte e video delle battaglie, con tanto di sigla, montaggio e titoli di coda. L'ultimo post della pagina è dedicato al martire Abu Abed.
In questo momento in cui la partita si gioca tutta con le armi, i mujahidin sono i benvenuti in Siria. Sul lungo termine però, la presenza di milizie armate di islamisti radicali rischia di diventare un serio problema. Ne sono convinti i ragazzi siriani della brigata Al Faruq dell'esercito libero.
Ammar è uno di loro. Ha 25 anni e prima della guerra faceva il muratore. Si considera un buon musulmano, e proprio per questo rigetta ogni forma di estremismo: “I siriani non condividono il pensiero dei mujahidin. Questa è una guerra di liberazione. Non vogliamo uno stato islamico, vogliamo una democrazia. E i mujahidin devono capirlo prima possibile, altrimenti rischiano di fare tutti la fine di Absi”.
Cittadino britannico, Mohamed Shami El Absi era a capo del “Mujahidin Shura”, un battaglione internazionalista che aveva portato in Siria una cinquantina di mujahidin, soprattutto britannici di origini asiatiche, ma anche canadesi e australiani. Il battaglione di Absi aveva partecipato nel giugno 2012 alla liberazione di Bab el Hawa, un posto di frontiera con la Turchia a nord di Idlib. Subito dopo però erano iniziati i problemi con la brigata locale dell'esercito libero, Faruq.
“Prima i mujahidin volevano issare la bandiera nera di Al Qaeda e fondare un emirato islamico – racconta Mohamed, un vecchio marinaio siriano della brigata Faruq -. Poi hanno sequestrato due giornalisti. A quel punto dovevamo fare qualcosa e li abbiamo attaccati”.
Era la fine di agosto, lo scontro si è concluso con l'omicidio di Absi e di quattro dei suoi uomini, e con un deciso ridimensionamento della sua brigata. Episodi come questo sono destinati a ripetersi. Anche perché il ruolo dei mujahidin in Siria sta crescendo.
I finanziamenti e l'esperienza militare che hanno a disposizione infatti, danno loro un peso crescente all'interno di un esercito libero siriano sempre più a corto di soldi e di munizioni. Lo stesso succede dal punto di vista ideologico. Perché la repressione del movimento civile, democratico e non violento che aveva animato la rivoluzione siriana diciotto mesi fa, ha lasciato il vuoto. Le teste pensanti del movimento sono scomparse. Chi è morto, chi è stato arrestato e chi è fuggito all'estero per salvarsi la vita. E ormai sul terreno parlano soltanto le armi e gli uomini di religione. E intanto la gente comune continua a fuggire.
In Italia è stato esressamente rifiutato – tra gli altri – da Repubblica, Corriere della Sera, La Stampa, L'Espresso e Vanity Fair. Alle testate minori non è stato mai proposto, viste le vergognose condizioni di sfruttamento lavorativo che praticano.
22 October 2012
Speciale Siria. Restate all'inferno (3)
Campo profughi di Atma, foto di Alessio Genovese
ATMA (IDLIB) – Appese ai rami d'olivo, un tempo simbolo di pace, pendono le altalene dei bambini. Vuote. E tra le radici dei vecchi alberi siedono cerchi di padri di famiglia sconfitti. Versano il tè nei bicchieri, e tra una sigaretta e l'altra si interrogano sul domani. “La Siria non ci vuole, la Turchia nemmeno. Dove dobbiamo andare? Dicono che siamo terroristi! Ma io vedo solo donne e bambini qua intorno! Sono loro i terroristi?”. Aala è arrivato ad Atma tre giorni fa, da Daira Azza. È ferito alla schiena. Una scheggia della bomba che gli ha distrutto la casa. Dalla sua tenda si vede bene la frontiera. È lì davanti, a quattrocento metri di distanza. Ha la forma di una rete di ferro che percorre il crinale della collina come la cicatrice di una vecchia ferita. Ma vista dagli oliveti di Atma assomiglia di più a una gabbia. Sì perché nell'ultimo paese siriano prima del confine turco di Rihanli, migliaia di civili in fuga sono intrappolati in mezzo ai campi.
Vengono da Rastan, Jebal Akrad, Homs, Hama, Aleppo e persino Damasco. Sono soprattutto donne e bambini. Scampati ai bombardamenti aerei sui civili e ai massacri commessi dal regime nelle campagne insorte. Negli occhi hanno la paura di chi ha visto scorrere troppo sangue e ha deciso di andarsene prima che sia troppo tardi. Ma sulla loro strada hanno trovato una porta sbarrata.
Dalla fine di agosto infatti la Turchia – che già ospita 98mila profughi siriani – ha chiuso la frontiera a tutti i siriani senza regolare passaporto. In attesa di allestire nuovi campi e smaltire il malcontento della sinistra turca e della minoranza alawita di Antakya che chiede l'espulsione di tutti i profughi siriani accusati di coprire un complotto islamista contro Assad. Gli ingressi sono contingentati: poche centinaia di persone a settimana.
Campo profughi di Atma, foto di Alessio Genovese
E così nella sola Atma, in un mese si sono accumulati più di 25mila rifugiati a fronte dei 7mila abitanti del paese. Circa 15mila sono ospitati nelle case della gente, non c'è famiglia che non si sia fatta carico di altre due o tre famiglie di sfollati. Cinquemila persone sono ospitate nelle scuole del paese. E altre cinquemila sono letteralmente accampate in mezzo a un uliveto, lungo la frontiera. I più fortunati dormono nelle tende spedite dalle associazione turche. Gli ultimi arrivati invece hanno soltanto dei teli stesi tra un ulivo e l'altro per creare un minimo di intimità.
A fronte di cinquemila presenti, ci sono soltanto due bagni chimici e una cisterna d'acqua, talmente calcarea che è bianca come il latte. Ma alternative non ce ne sono. E i bambini la bevono lo stesso, prima di andare a giocare intorno ai fuochi dell'immondizia. Gli abitanti di Atma si adoperano per fare il possibile, ogni sera passa un camion di volontari a distribuire cibo e coperte, ma il problema è ben oltre la loro portata.
Intanto i massacri in Siria non conoscono fine. L'ultima strage di civili è accaduta a Kafr Awid, un paesino sulle montagne del Jebal Akrad, tre giorni prima del mio arrivo ad Atma. Nel giro di mezz'ora gli aerei di Assad hanno scaricato 12 barili-bomba imbottiti di tritolo sulle case del paese. Nel bombardamento, che ha distrutto decine di case e provocato decine di feriti, sono morte venti persone, tutti civili.
Osama quel giorno non ha chiuso occhio. È un infermiere di 35 anni, sposato, tre figli. A Kafr Awid aveva allestito un ospedale da campo a casa sua per curare clandestinamente i feriti dei combattimenti. Dopo gli ultimi morti però ha deciso di arrendersi. E di mettere in salvo la propria famiglia. Sulla sua testa pende un mandato d'arresto, che con i tempi che corrono significa una condanna a morte. Perché questa è una guerra che non fa prigionieri. E nessuno lo sa meglio della gente di Kafr Awid.
Osama ricorda bene la data. Era il 20 dicembre 2011. Quel giorno le truppe di Assad bombardarono senza sosta il paese costringendo le brigate dell'esercito libero al ritiro. I rastrellamenti iniziarono subito dopo. I militari del regime controllavano casa per casa, alla ricerca di tutti i sospetti. Ovvero di tutti gli uomini in età da combattimento. I ragazzi però – racconta Osama – si erano nascosti nella vallata del fiume dietro la collina. Centodieci uomini tra i venti e i trent'anni. Quando i militari li trovarono, ordinarono ai carri armati di fare fuoco, dall'alto. Dopodiché scesero con i coltelli a finire i superstiti.
httpv://youtu.be/21kCK232ndI
+18 IMMAGINI NON ADATTE A UN PUBBLICO SENSIBILE. Il massacro di Kafr Awid, 20/12/11
Un video su youtube conferma il drammatico racconto di Osama. Lui di quel giorno ricorda i pianti delle madri e delle spose. E l'immagine dei cadaveri ammucchiati uno sull'altro sul carrello del trattore con cui li portarono al cimitero per seppellirli in una grande fossa comune. Mentre ne parla, non smette di fissare la frontiera con la Turchia. La verità è che anche se l'esercito libero siriano controlla una striscia di trenta chilometri di territorio tra qui e Aleppo, Osama non si sente affatto al sicuro. E non è l'unico ad avere paura.
In fondo sono loro, i civili, le prime vittime di questa guerra. Come di ogni guerra. Perché è vero che tra i rifugiati di Atma ci sono attivisti della rivoluzione e disertori delle forze del regime. La maggioranza di chi fugge però, non ha mai preso posizione. Né per la rivoluzione, né contro il regime. Scappano soltanto perché sanno di appartenere alle città sbagliate. Scappano perché sanno che nella Siria di oggi, a decidere la vita o la morte di una persona può bastare una carta di identità.
L'ultima volta ad Aleppo è successo il 13 settembre 2012. Durante un rastrellamento, i militari del regime hanno arrestato 17 persone, comprese due ragazze di cui una incinta. Vivevano in un quartiere controllato dal regime, ma sui documenti avevano la residenza nei paesi insorti della campagna di Aleppo, adesso controllati dall'esercito libero. È bastato questo per accusarli di essere spie. Il resto è successo nel giro di pochi minuti. Li hanno messi in fila davanti a un muro, le mani legate dietro la schiena, e quindi hanno aperto il fuoco.
Fuggono da tutto questo i siriani. E non solo quelli di Atma. Da giugno a settembre il numero dei rifugiati è triplicato passando da 100mila a 300mila. Oltre ai 98mila profughi registrati in Turchia infatti, altri 200mila siriani si trovano nei campi profughi in Giordania, Iraq e Libano. Senza contare che si stima che almeno un milione di siriani abbiano lasciato il paese senza mai registrarsi nei campi profughi. E che almeno altrettanti siano sfollati all'interno del paese.
Tuttavia, lasciare la Siria sta diventando più difficile. Soprattutto per chi non ha un passaporto. E allora non resta che affidarsi ai contrabbandieri. Prima per entrare in Turchia e poi per continuare il viaggio. Magari verso la fortezza Europa. Dove l'asilo politico te lo danno ma devi prima giocarti la vita in mare, visto che viaggiare con i visti è un privilegio di pochi benestanti.
Le rotte sono le stesse di sempre. Portano dalla Turchia in Grecia e da lì in Italia, dove soltanto tra agosto e settembre sono sbarcati centinaia di siriani tra la Puglia e la Calabria. Altri continueranno ad arrivare nei prossimi mesi. E come vanno a finire queste storie lo abbiamo imparato da tempo: con altri morti e altro dolore.
L'ultimo drammatico naufragio è avvenuto lo scorso 6 settembre 2012 al largo delle coste di Izmir, in Turchia. La barca stava tentando di raggiungere la Grecia. Sono annegati 58 dei 100 passeggeri. Tutti siriani, soprattutto donne e bambini. Anche loro martiri di una guerra che ha già fatto almeno 30mila morti e centinaia di migliaia di feriti.
Morti che sembrano non valere molto agli occhi della comunità internazionale. La stessa che non ha mosso un dito per fermare il massacro del popolo siriano e che adesso sembra obbligare i siriani a restare all'inferno senza troppo scomodare le nostre guardie di frontiera.
Un estratto di questo articolo è stato pubblicato in Germania su Taz
In Italia è stato espressamente rifiutato – tra gli altri – da Repubblica, Corriere della Sera, La Stampa, L'Espresso e Vanity Fair. Alle testate minori non è mai stato proposto, viste le vergognose condizioni di sfruttamento lavorativo che praticano.
Speciale Siria. Vendetta, atto secondo?(4)
ALEPPO – Dall'inizio della rivoluzione in Siria sono già morte 30mila persone, in maggior parte civili. Eppure il peggio rischia ancora di arrivare. Perché il sangue versato grida vendetta. E non è detto che con la fine della dittatura finisca anche la guerra. O quantomeno non è detto che la guerra finisca senza un regolamento di conti tra sunniti e alawiti. Ovvero senza che altro sangue innocente venga versato.Dopotutto sarebbe la conseguenza naturale delle politiche di Bashar, che dall'inizio della rivolta ha scommesso tutto sulla divisione settaria del paese, facendosi protettore delle minoranze contro quello che la propaganda del governo chiama il terrorismo sunnita. Nei quartieri cristiani di Aleppo e Damasco sono state formate delle bande armate pronte a difendere le proprie comunità. Lo stesso è successo nei quartieri alawiti di Homs e nei villaggi delle regioni alawite. Ma è soprattutto nelle campagne che il regime ha giocato la carta del settarismo. Reclutando centinaia di alawiti per commettere il lavoro sporco dei massacri nei villaggi a maggioranza sunnita.
Il copione è sempre lo stesso. L'esercito regolare bombarda per giorni interi i civili costringendo l'esercito libero al ritiro dalle zone abitate. Dopodiché le famigerate bande degli shabbiha, i tagliagole reclutati tra gli alawiti – la minoranza cui appartiene anche il presidente Bashar Al Assad -, entrano al seguito delle truppe per finire i superstiti, casa per casa, con il macabro rituale del taglio della gola. Senza nessuna eccezione per donne, bambini e anziani.
Tremseh, Daraya, Houla, Kafr Awid… L'elenco dei massacri nelle campagne siriane è lungo. I morti centinaia ogni volta. E la firma sempre la stessa. A confermare le testimonianze dei superstiti poi, ci sono decine di video amatoriali finiti su internet, girati dagli attivisti oppure trovati in tasca ai militari e agli shabbiha arrestati e uccisi dai combattenti dell'esercito libero.
httpv://youtu.be/EtFVtQCwbnc
+18 IMMAGINI NON ADATTE A UN PUBBLICO SENSIBILE. Il massacro di Tremseh, video amatoriali
In uno dei video si vedono due attivisti legati con le mani dietro la schiena, in piedi, a torso nudo. Due militari prima li sfottono. “Volete la libertà? – dicono -. Eccola!” E tagliano la testa a uno dei due con un coltello da macellaio. Poi accendono una motosega e la usano per tagliare la testa all'altro. In un altro video, un giovane attivista catturato dalle truppe di Asad è sepolto in piedi dentro una buca, fino al collo. Piange implorando pietà. Ma i militari, senza smettere di ridere, finiscono di riempire la fossa e lo sotterrano.
Questa spropositata e ingiustificata violenza, oltre ad aver terrorizzato la popolazione siriana, ha sicuramente piantato il seme della vendetta. Dopotutto i combattenti dell'esercito libero non lo nascondono. Gli alawiti sospetti che incontrano nella città liberate vengono ammazzati su due piedi. Gli abitanti del posto fanno i nomi di chi ha torturato, stuprato e ucciso in nome del regime. E i combattenti dell'esercito libero tagliano loro la gola. Lo stesso accade per tutti gli iraniani e i libanesi trovati in giro. Per le inchieste non c'è tempo. Si dà per scontato che siano mercenari al soldo della dittatura e vengono giustiziati.
Succede persino in una grande città come Aleppo. Dove una ventina di shabiha sono stati arrestati e uccisi nel solo quartiere di Sukkari. A tagliarli la testa è stato un combattente afgano della brigata islamista Ahrar Al Sham. I loro corpi sono sepolti in una piazzola lungo la strada, a fianco di un cavalcavia, dove si nota la terra smossa accanto ai cumuli di immondizia bruciata. La stessa sorte è toccata a Zaino Berri e ai suoi uomini. Prima della rivoluzione i Berri erano un clan mafioso che ad Aleppo controllava il mercato delle droghe e del contrabbando. Con l'inizio delle proteste il regime li aveva armati e finanziati affinché svolgessero il lavoro sporco della repressione. Ovvero omicidi, stupri, pestaggi, torture. Quando ad agosto l'esercito libero è entrato in città, sono stati i primi ad essere arrestati e quindi giustiziati con una scarica di mitragliatrice contro il muro, davanti a una folla esultante.
httpv://youtu.be/ARV5LrK9S-k
+18 IMMAGINI NON ADATTE A UN PUBBLICO SENSIBILE. Aleppo, combattenti dell'esercito libero giustiziano i vertici degli shabbiha dopo la liberazione di un quartiere
E se questa è stata la reazione in una grande città come Aleppo, la reazione nelle campagne potrebbe essere molto più grave. Perché nelle campagne si aggiunge il fattore settario. Ad Aleppo infatti Berri e gli altri shabbiha erano sunniti, come la maggior parte delle loro vittime. Nelle campagne invece, i massacri nei villaggi sunniti sono stati commessi dalle milizie alawite dei villaggi vicini. E lo stesso è accaduto a Homs, dove fin dall'inizio della repressione il regime ha diviso la città in due, isolando il quartiere alawita con decine di posti di blocco e usandolo come base per i bombardamenti sui quartieri sunniti.
A distanza di 19 mesi dall'inizio della rivoluzione, il sangue versato è tanto che un capovolgimento dei rapporti di potere e un'avanzata dell'esercito libero potrebbe significare una vendetta collettiva contro le zone alawite. Anche se la maggior parte dei combattenti dell'esercito libero giurano che non accadrà. E rispondono con i vecchi slogan delle manifestazioni: wahid, wahid wahid, al sha3ab al suri wahid (uno, uno, uno, il popolo siriano è uno). Sono i figli di un paese dove la convivenza tra religioni, culture e minoranze è stata la norma per secoli. Cristiani, musulmani sunniti, ebrei, alawiti, arabi, turchi, curdi, circassi, armeni.
Il problema è che quando di mezzo ci sono le armi, per fare un massacro non c'è bisogno delle maggioranze. Basta una brigata di cento uomini. È inutile nasconderlo. Le armi sono finite in mano a gente molto diversa e al vuoto di potere che seguirà l'avanzata dell'esercito libero, corrisponderà un clima di impunità che farà sì che tutto possa accadere. Il caso della guerra in Libia nel 2011 insegna. E non è stato raccontato abbastanza.
Anche in Libia i ribelli erano giovani di estrazione popolare che avevano imbracciato le armi in nome della libertà e della democrazia. Eppure non esitarono a vendicarsi dell'assedio subito a Misrata, distruggendo la vicina città di Tawargha uccidendo centinaia di civili e costringendo alla fuga più di 40mila persone che, a distanza di un anno, non sono ancora tornate nelle loro case. Gli stessi rivoluzionari, per vendicarsi delle forze mercenarie di Gheddafi, arrestarono centinaia di civili africani e ne uccisero decine e decine. E infine, per vendicarsi del clan di Gheddafi, i ribelli bombardarono e saccheggiarono oltremisura la sua città natale, Sirte.
Lo stesso potrebbe succedere anche in Siria. La vendetta collettiva è ciò che più temono tutti gli attivisti del movimento non violento siriano. Per loro in Siria è già stato versato troppo sangue. Ed è ora di una soluzione politica. Ma quella soluzione al momento è impossibile. Da un lato per l'incapacità dell'opposizione siriana di parlare con una sola voce, divisa dai conflitti tra vecchi oppositori di sinistra, i fratelli musulmani e gli ex del regime già pronti a rifarsi una verginità politica. Dall'altro per l'immobilismo della comunità internazionale che sembra assistere inerme al massacro del popolo siriano.
Nella storia contemporanea non si è mai vista l'aviazione di uno Stato sovrano bombardare per mesi i propri cittadini. Senza che nessuno dica niente da fuori. Ma forse è proprio questo il senso. Forse al di là del sostegno economico e militare di Russia e Iran al regime, e al di là del veto di Russia e Cina al Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, c'è qualche paese forte nella regione – e non è solo Israele – a cui fa comodo che la Siria persegua questa folle politica di autodistruzione. Perché alla Siria del migliore nemico Asad, è preferibile soltanto una Siria distrutta. E allora la triste verità è che la Siria e i siriani non sono mai stati così soli.
Questo articolo è stato espressamente rifiutato in Italia – tra gli altri – da Repubblica, Corriere della Sera, La Stampa, L'Espresso e Vanity Fair. Alle testate minori non è stato mai proposto viste le vergognose condizioni di sfruttamento che praticano.
24 October 2012
Speciale Siria. La rivoluzione tradita
CAIRO – È notte fonda, e dal terrazzo di un vecchio albergo del Cairo salgono i fumi dei narghilé alla mela. I bicchieri sono pieni di birra. Intorno ai tavolini, una decina di oppositori siriani cercano di dimenticare i mali dell'esilio. Khalaf è un poeta, Wassim un webdesigner, Rita una formatrice, Maan un regista, Fadi un commerciante, Farzand un medico, e Khater un musicista. Doveva esserci anche Louise, un'attrice, ma stasera non è potuta venire perché oggi ha iniziato uno sciopero della fame in piazza Tahrir con altre tre ragazze: la poetessa Tibi e le attiviste Rola e Salma.
Diciotto mesi fa erano a Homs, Aleppo e Damasco, tra i primi organizzatori di quello che delle primavere arabe è stato il più duraturo, creativo e organizzato movimento non violento e laico. Laico sì perché Khater e Khalaf sono sunniti, Rita e Louise alawite, Maan druso, Fadi cristiano e Farzand curdo. E perché Wassim che è ateo, è entrato per la prima volta in una moschea durante la rivoluzione, perché le moschee erano gli unici luoghi dove ci si poteva aggregare in massa, il venerdì durante la preghiera, per poi uscire in una manifestazione prevenendo le forze di sicurezza.
La folle repressione del regime ha cambiato il loro destino. Dei compagni di quelle prime manifestazioni, molti sono stati uccisi in carcere o sono morti sotto le bombe. Gli altri sono fuggiti per salvarsi la vita. E dall'esilio cercano di supportare la rivoluzione, almeno sulla rete. Khater compone canzoni della resistenza, JuanZero disegna caricature di Bashar, e tutti gli altri passano le giornate in rete per far circolare notizie e idee. Idee sì, le stesse che per un anno hanno alimentato la rivoluzione siriana e che oggi rischiano di morire insieme alle migliaia di vittime di un'improbabile guerra che – a detta degli attivisti del movimento pacifista – sta trascinando il paese in un vicolo cieco di morte e distruzione.
Diciotto mesi fa, nessuno di loro avrebbe mai immaginato che la rivoluzione sarebbe passata alle armi. Wassim all'inizio era convinto che il regime sarebbe caduto nel giro di qualche settimana, come era successo in Tunisia e in Egitto. E la sua unica preoccupazione quando venne arrestato nell'aprile 2011, era che non avrebbe vissuto quel momento storico con i suoi compagni, perché in carcere. Col senno di poi, ammette di aver peccato di ottimismo.
Prima della rivoluzione Wassim aveva un'avviata impresa di informatica. Da quando è fuggito, ha speso i risparmi di una vita per sostenere il movimento non violento tra Beirut e Istanbul. E ormai ridotto sul lastrico, si è fermato al Cairo. Vive in un modesto bilocale a Saad Zaghloul, insieme a uno studente dei movimenti universitari di Aleppo, anche lui in esilio. Mi versa un bicchiere di raki. Allungato con acqua e qualche cubetto di ghiaccio. Sul suo nome pendono quattro mandati di arresto. Tornare a Damasco è impossibile.
Di combattere con l'esercito libero non ne vuole sentire parlare. Wassim è convinto che la guerra sia stata una scelta sbagliata. Dettata dai paesi del Golfo e dagli americani per sostituire Bashar con un governo islamista amico e indebolire così Hezbollah e l'Iran. All'inizio aveva pensato di andare a documentare i massacri del regime e di fare un film sul ruolo della minoranza alawita nella rivoluzione, ma ha cambiato idea dopo la morte sotto le bombe di due suoi cari amici registi: Basel e Tamer.
È grazie a ragazzi come loro se si sa qualcosa di quello che sta succedendo in Siria. I giornalisti internazionali infatti coprono soltanto la città di Aleppo. Avventurarsi nel resto del paese è troppo pericoloso. Eppure ogni giorno sono diffusi in rete migliaia di video da ogni cittadina siriana e da ogni quartiere di Damasco e di Aleppo. Girati da giovani reporter siriani volontari che passano le giornate sul fronte a rischio della propria vita. E poi caricano tutto su facebook, su pagine condivise da centinaia di migliaia di siriani. Gente comune che a sua volta rimbalza in rete i contenuti. Non credo ci sia nella storia nessun altro esempio di una guerra con una copertura mediatica così capillare e così partecipata.
Anche Wassim per alcuni mesi ha lavorato sul fronte dell'informazione. Era a Istanbul allora ed era responsabile della formazione giornalistica degli attivisti siriani, e del contrabbando in Siria di telecamere, computer, software e modem satellitari. Ma quelli sembrano giorni lontanissimi.
“Oggi il movimento civile non è più in grado di lavorare. Se in una città c'è l'esercito non possiamo fare nulla. Quando si spara, le voci delle esplosioni coprono la nostra voce. Ci resta solo facebook. Abbiamo artisti, musicisti, poeti, disegnatori. La prima cosa per noi è l'arte, vogliamo mostrare all'estero che la rivoluzione siriana non è solo la guerra. Che c'è un pensiero, che ci sono dei sogni”.
Peccato però che all'estero questa voce non stia proprio arrivando. La Siria è raccontata esclusivamente come il teatro di una guerra civile.
“Alcuni egiziani mi chiedono come andare in Siria per combattere il jihad e difendere i sunniti. Pensano che la guerra sia tra sunniti e sciiti, non hanno capito che è una rivoluzione. E tutto questo a causa delle notizie diffuse in modo distorto da Al Jazeera e Al Arabiya, i cui editori, Arabia Saudita e Qatar, hanno una chiara agenda politica”.
Un'agenda che spaventa Wassim e gli altri attivisti del movimento civile. Dopotutto gli unici che stanno finanziando l'esercito libero sono governi islamisti. L'Arabia Saudita, il Qatar, la Turchia. E poi ci sono gli Stati Uniti che appoggiano i Fratelli musulmani, come hanno fatto in Egitto. L'esercito libero siriano non ha un'agenda islamista, ma ha un dannato bisogno di soldi e di armi.
“Ho un amico, un ex generale che ha disertato, ci ho parlato su skype l'altro giorno dopo averlo visto su Al Jazeera con la barba lunga quando so che è un gran bevitore di raki. Dice che in guerra se non hai armi muori, e che con la barba lunga lo pagano meglio. Per lui è tutta una farsa, ma poi le milizie dei mujahidin ci sono davvero. Hanno portato in Siria combattenti libici, ceceni. Le loro idee radicali ci fanno paura. Non vogliamo uno stato islamico. Sono ancora una minoranza, ma sono un pericolo. Anche perché la stampa internazionale parla solo di loro e così discredita la rivoluzione”.
E lo stesso sta facendo la propaganda del regime. Che ormai si tiene in piedi soltanto grazie a una sapiente costruzione della paura.
“Quando è uscito il video di alcuni combattenti dell'esercito libero di Feriana che tagliavano la gola ad alcuni alawiti sospettati di essere shabbiha, il regime ha mostrato le immagini in tv dicendo ecco come i terroristi sgozzeranno gli alawiti e i cristiani se vincono la guerra.”
Grazie a quella paura, secondo Wassim, un 25% del popolo sostiene ancora con il regime. E un altro 50% – la maggioranza – semplicemente non prende posizione. Odiano il regime, ma hanno paura di esprimerlo. Oppure hanno paura della piega che sta prendendo la rivoluzione da quando è iniziata la guerra.
Il dottor Farzand è uno di loro. È un medico curdo di Aleppo sulla quarantina, padre di due bambini. Un anno fa era sceso in piazza contro il regime. Oggi ha lasciato la Siria per mettere in salvo la famiglia. Parla con le lacrime agli occhi, soppesando ogni singola parola, come se ammettesse per la prima volta la sconfitta.
“Un anno fa avevamo un sogno. E non era la fine del regime. Il nostro sogno era la costruzione della Siria del futuro. Dopo 40 anni di dittatura e di terrore, il popolo siriano aveva sconfitto la paura, avevamo ritrovato la dignità e ripreso a sognare. La fine del regime era un passo necessario, ma non era il nostro obiettivo. Era il primo passo di un lungo cammino che doveva portarci a un futuro di libertà, diritti e giustizia. La guerra ha ucciso tutto questo. Non voglio che cada il regime se poi arriva un altro regime. Non voglio che cada il regime se deve essere versato il sangue di decine di migliaia di innocenti. La guerra è una follia, per uccidere un uomo bisogna essere malati. Ho paura di quello che sta succedendo nel mio paese”.
Il no alla guerra dei pacifisti siriani non è un atto di accusa contro l'Esercito libero, ma piuttosto l'amara consapevolezza di come l'inaudita violenza del regime abbia trascinato il paese in una spirale di violenza che nessuno sa dove porterà. A parlare sono rimaste soltanto le armi e gli uomini di religione. Contro i quali Maan, un altro attivista esiliato della compagnia del Cairo, non si risparmia:
"Il Corano è pieno di pagine che sono un inno alla vita. È scritto che chi uccide un uomo è come se avesse ucciso l'intera umanità. Ma gli uomini di religione in Siria vedono soltanto i versetti del jihad. E i ragazzi delle campagne credono veramente alle loro parole. Credono che se moriranno da martiri in guerra finiranno dritti in paradiso circondati da splendide vergini. E finiscono per preferire la morte a una vita miserabile come quella sotto una guerra. Non si rendono conto che è un suicidio collettivo, stanno mandando a morire i nostri migliori ragazzi.”
Ma d'altronde non c'era da aspettarsi altro. Abbandonati dalla comunità internazionale e sottoposti ogni giorno a torture e massacri, difficilmente i siriani avrebbero potuto reagire altrimenti. Sangue chiama sangue. È la più antica legge del mondo. E al popolo siriano non è rimasto che stringersi alle armi e alla religione. Non più per fare la rivoluzione. Ma semplicemente per salvarsi la vita.
Estratti di questo articolo sono stati pubblicati in Svizzera e Germania su Amnesty International Journal. In Italia è stato espressamente rifiutato – tra gli altri – da Repubblica, Corriere della Sera, La Stampa, L'Espresso e Vanity Fair. Alle testate minori non è stato mai proposto, viste le condizioni di sfruttamento che praticano
Questo è per Del Grande:
E questo è per D'Andrea.
Molti mesi dopo, torno e che ti trovo? Una serie di articoli come questi, e addirittura un inno a JAN (associata indebitamente ad Al Qaeda, ma tant'è), la scimitarra più affilata di tutto l'arsenale della Rivoluzione. Niente male! Che differenza da quando il sottoscritto diceva più o meno le stesse cose, proprio qui su questo sito, e venuva insultato da una torma di fascisti.
So che non lo ammetterai, anche perché hai una certa capacità di negare l'evidenza, ma io sono rimasto sulle mie posizioni, e tu hai fatto enormi passi nella mia direzione. Passi insufficienti e tardivi, ma comunque sufficienti a portarti su un terreno completamente diverso da quello da cui provenivi. Qualunque osservatore imparziale, anche un quisque de populo, lo riconoscerebbe senza dubbi.
Bene, mi piace quando le mie opinioni si propagano senza che debba alzare un dito.
Torno da dove sono venuto. Arrivederci, forse tra qualche mese tornerò di nuovo qui.
Caro Claudio,
tu avevi una posizione ben precisa. Sostenevi che la rivoluzione in atto in Siria non era islamista. Postatsti anche un commento o forse mi inviasti una email nella quale tentavi di mostrare come in Siria vi fossero rivoltosi "socialisti". Io questo l'ho sempre negato. E gli articoli di Del Grande lo confermano. Quei tipi sono fuggiti in Egitto a fare i disegni e a scrivere le poesie e a lamentare che la loro rivoluzione èp stata tradita (da chi?). La rivoluzione, quella vera, la fanno gli islamici che vogliono, alternativamente, uno stato islamico moderato o l'emirato siriano. Quindi la tua tesi di una rivolta di gruppi laici e socialisti è smentita dai fatti.
Del Grande spiega anche come molti ribelli siano finanziati dal Qatar? Secondo te, questi finanziamenti avvengono con il consenso o contro il consenso degli Stati Uniti? Hai letto che gli Stati Uniti sono contrari a consegnare ai ribelli siriani missili terra aria (una piccola contraerea) mentre, evidentemente, non si oppongono alla consegna di altre armi? Tu sostenevi che gli Stati Uniti fossero in realtà alleati di Assad (e dell'Iran). Quindi secondo te Riccardo Terzi di Sant'Agata, che non perde mai occasione di perorare la causa dei ribelli di sostenere che bisogna armarli e addestrarli è inviso agli Stati Uniti? La tua tesi geopolitica non ha retto alla prova dei fatti.
Certo, tu sostenevi la tesi che all'inizio ci fossero state proteste pacifiche; che Assad le avesse represse; e che perciò era scoppiata la rivolta armata. Del Grande sembra sostenere questa tesi. Probabilmente, sotto questo profilo, tu avevi ragione: la situazione della Siria era più simile alla quella della Tunisia o dell'Egitto che alla Libia. Però anche in Libia c'erano state rivolte pacifiche alle quali avevano partecipato forze che volevano lanciare la rivoluzione armata. Per quale ragione ti sentivi di escludere ed escludi che alcune milizie islamiche avessero già preparato la rivolta armata? Certo è che quella gente fuggita in Egitto, che assomiglia tanto ai nostri radical chic, sarebbe stata presto soppiantata dagli islamici e dagli islamisti. Cosa credi che Assad sia ingenuo come te? Assad sapeva chi avrebbe preso il potere. Ma soprattutto che senso ha pretendere che un regime dittatooriale si faccia da parte dinanzi a proteste pacifiche? Quando è accaduto nella storia? Che senso ha essere moralisti e incolpare qualcuno per essersi comportato come sempre si è comportato chi si trovava al suo posto? Il tuo giudizio moralistico non lo condividevo e non lo condivido. Perché è antistorico.
In ogni caso, quando discutemmo (in realtà fosti tu ad arrabbiarti, perché sei un ragazzo e ti voglio capire) era già scoppiata la rivolta armata. Tu sostenevi che Assad fosse un genocida, perché bombardava i quartieri delle città. Del Grande spiega che sono stati i rivoltosi a scegliere di combattere la guerriglia urbana, considerata come l'unica possibilità. Cosa pretendi che i rivoltosi potessero liberamente ripulire i quartieri da polizia e miliziani; occuparli e che Assad non potesse bombardare i quartieri occupati?
Del Grande spiega chiaramente che quando i ribelli prendono i miliziani o catturano soldati di Assad li giustiziano. Io posso mostrarti filmati in cui i miliziani di Assad torturano i ribelli e filmati in cui i ribelli torturano i miliziani di assad. E' pieno di filmati in cui i ribelli giustiziano decine di miliziani di Assad e di soldati. La tua tesi del mostro genocida contro nobili ribelli non regge. Ci sono torturatori, vendicatori, boia, contro torturatori, boia e vendicatori. E' sempre stato così, anche al tempo della resistenza partigiana italiana. Non c'erano buoni contro cattivi. ma schieramenti che sostenevano idee diverse. I buoni come Felice Cascione, che si tenevano dietro i prigionieri, facevano una brutta fine.
Ora vuoi negare che jabhat al nusra sia Al Qaida in Siria. Ma sbagli. Ma sai cosa è Al Qaida? E' un organizzazione militare internazionalista che intende ricostruire il califfato e che ha lanciato una guerra secolare contro chi vuole opporsi. Ovviamente essa interviene ovunque ne abbia l'occasione (in occasione della seconda guerra in Iraq Bin Laden ebbe a dire che Bush era "l'uomo più stupido del mondo", perché gli aveva dato un'opportunità insperata, che infatti poi hanno sfruttato egregiamente). Da ciò che racconta Del Grande (Terroristi o internazionalisti?) JAN ha tutte le caratteristiche per stare in Al Qaida. Vuole il califfato; è internazionalista; combatte sotto la bandiera del Jihad. Ora io ho sempre saputo che si trattava di internazionalisti, sia in Afghanistan sia in Iraq. Tu no, perché "odiavi" Osama Bin Laden, che invece io, pur nella assoluta diversità di valori di fondo, riuscivo ad ammirare. Ebbene Jabhat al nusra canta e fa cantare inni a Osama Bin Laden: httpv://youtu.be/vsq5ZRir-0k .
In realtà il fatto che abbiano Bin laden come guida strategica e spirituale non significa ancora niente, perché anche Ahrar Al Sham, ben più numerosa, è internazionalista, anche se formata da internazionaisti locali, che accolgono combattenti che arrvano da altre parti del mondo. E anche Ahrar Al Sham combatte sotto la bandiera del Jihad per il califfato. Appartenere o no ad Al Qaeda non dipende dalla volontà dei gruppi ma da un'affiliazione, quindi da una scelta del centro. Ebbene, tutti danno per scontata questa affiliazione perché JAN avrebbe avuto l'onore di apparire nei siti di Al Qaida (che io non frequento; puoi andare a verificare se non credi a ciò che tutti i giornali scrivono; quell' "indebitamente" però fa un po' sorridere, visto che si tratta di gente che, come minImo, ha per massima aspirazione appartenere ad Al QAIDA). Non a caso Jabhat al nusra è stata prontamente inserita dagli Stati Uniti tra le organizzazioni terroristiche mentre Ahrar Al Sham no, perché magari ancora pensano di poterla infiltrare o magari la hanno già infiltrata.
A questo punto resta tra noi la diversità rispetto al tifo. Tu tifi per i rivoltosi, accada quel che accada. E' una posizione di un'ingenuità notevole. Meglio una dittatura severa che l'assenza dello stato. la Somalia, la Libia, l'Iraq stanno a dimostrare che non basta sconfiggere un dittatore se non hai la forza di sostituirlo nel governo dello stato. Quando lo stato non c'è prevalgono i taglieggiatori, i banditi, i sequestratori, i mafiosi, regna il terrore e non potendo svilupparsi un'economia, domina la povertà e la schiavitu'.
La mia posizione è un po' equilibrata. Copio e incollo ciò che ho scritto sul tuo sito:
"siccome la Siria viveva in pace, e con un livello alto di laicità, se si tiene conto di una valutazione relativa ai paesi arabi (l'unica sensata: dunque la Siria era laica) e, pur sotto una dittatura, garantiva la pacifica convinvenza delle minoranze, la rivoluzione, che alla fine vincerà (qui tu sbagli, credo: hanno uomini armi e consenso) dovrà essere valutata come positiva o negativa in base al suo esito. Se avremo una semplice distruzione dello stato come in Libia, l'esito sarà catastrofico; se avremo la divisione con la costruzione di un emirato islamico, l'esito sarà almeno dubbio. Se avremo uno stato islamico non proprio moderato, con regresso per quanto riguarda la situazione delle donne e di alcune minoranze, l'esito sarà stato negativo. Se avremo uno stato islamico moderato e tollerante, non dittatoriale, allora l'esito sarà stato positivo. Ecco perché, ad una valutazione concreta e realistica, non è facile tifare. Una cosa è certa. La figura meschina l'hanno fatta gli organizzatori laici e di sinistra delle manifestazioni pacifiche. Non mi risulta che essi siano parte rilevante della resistenza armata.".
Quindi hai torto quando neghi che JAN sia Al Qaida; hai torto quando cerchi di negare il ruolo importante che i Mujhaideen che combattono sotto la bandiera del Jihad stanno avendo e avranno. Avevi torto quando sostenevi che i ribelli fossero anche laici e socialisti (quelli si erano limitati a fare i disegni). Avevi torto quando sostenevi che gli stati Uniti fossero alleati di Assad. Hai torto quando sostieni che Assad sia più violento e cattivo dei ribelli. Hai torto quando asserisci che, se Assad sarà sconfitto, comunque finirà, per i Siriani sarà un bene. Potrebbe essere una tragedia trentennale.
Insomma, non mi sembra proprio che le mie posizioni siano identiche alle tue. Ma quando maturerai, ti renderai conto che quello che per te è stato un problema, non deve esserlo. La diversità di opinioni non ha fatto mai male a nessuno.