Una società fondata sul lavoro
Disoccupazione e salute mentale.
"The Mental-Health Consequences of Unemployment"
Diversi studi condotti da ricercatori europei ed americani hanno cercato di analizzare e misurare gli effetti e le conseguenze che prolungati periodi di disoccupazione possono produrre sulla capacità degli individui di interagire con la società.
Spesso, infatti, il termine disoccupazione è legato a problematiche strettamente di ordine economico che tendono inconsciamente ad escludere questioni ben più profonde di natura psico-sociale.
L’approccio degli osservatori sovente s’incentra su quelle tematiche e politiche d’intervento che pongono al centro della discussione le insufficienze o inefficienze dell’apparato burocratico-amministrativo-produttivo. Un approccio che pone nel mirino obiettivi piuttosto pragmatici ed utilitaristici, a volte cinicamente crudeli, rispetto a quella società sulla quale si vorrebbe incidere positivamente.
Una prova di come i “riflessi” umani tendono ad affievolirsi conducendo gli individui verso stati emotivo-depressivi ed involutivi che inevitabilmente riducono i margini di reazione e partecipazione degli stessi alla vita sociale, ci è dato da un recente sondaggio effettuato negli US dall’Istituto Gallup.
Un sondaggio che mette in risalto le evidenti correlazioni tra periodi di lunga inattività lavorativa e trattamenti psicologici per sintomi da depressione.
Non si tratta, in fondo, di una mera casistica numerica sulla quale eventualmente pianificare operazioni chirurgiche di stampo sanitario od assistenziale ne tantomeno di un fenomeno da liquidare con il tentativo tampone di provvedimenti emergenziali.
Ogni decisione assunta, ogni provvedimento adottato, ogni azione intrapresa, ogni giurisdizione esercitata dovrebbe convergere su una diversa interpretazione “emergenziale”.
L’emergenza lavoro non è solo un emergenza economica ma una concezione dell’essere e della propria esistenza all’interno della società.
La banalizzazione del problema “lavoro” come un evento di tipo causale connesso ad una disfunzione settoriale o generale del “mercato” si rivela essere funzionale più ad una volgarizzazione culturale che ad un’elevazione esistenziale.
Assistiamo ormai inermi ad un processo virale di “bastardizzazione” degenerativa e generazionale in cui l’individuo viene progressivamente privato della propria dignità esistenziale: nell’intimo come persona e nella comunità come essere sociale.
“Per tutta la vita, il tuo lavoro definisce chi sei”!
Questa frase pronunciata da un “espulso” dal mondo del lavoro americano si sposa fedelmente con la seguente: “All’improvviso tutto è andato e non si ha sa più per cosa poter essere orgogliosi”!
Un programma californiano di recupero per disoccupati di lunga durata, professionisti che vogliano intraprendere” corsi di aggiornamento” per entrare in contatto con nuove opportunità di carriera, cerca di riavvicinare gli “espulsi” all’interno del circolo esistenziale:
Francamente non basta!
Non basta creare una rete di contatti, far leva sulle opportunità di crescita, sulle aspettative di guadagno o sulle prospettive di sopravvivenza.
Una comunità che miri a prospettive di miglioramento serio della propria qualità di vita deve porsi altri e più alti obiettivi.
E’ chiaro che (dal mio personale punto di vista) l’articolo primo della Costituzione italiana che si richiama imprescindibilmente ad una entità istituzionale fondata sul lavoro… fosse stato scritto per evocare un’ideale la cui realizzazione fosse una ricerca continua della realizzazione stessa dell’essere umano nella sua forma individuale e geneticamente sociale.
Lo sviluppo dell’intera Costituzione italiana, nei suoi principi fondamentali, è una ricerca continua verso l’attenzione sulla centralità dell’uomo e della sua comunità d’appartenenza.
Una centralità che pone le istituzioni al servizio della sua realizzazione e non al servizio della realizzazione del mercato. In completa antitesi con quanto oggi propugnato diversamente dal verbo “sovrannazionalista”.
Tale termine (probabilmente di personale nuova formulazione) si contrappone pertanto ed inevitabilmente al termine “sovranista” che pone al centro del dibattito una diversa questione: la questione della preminenza del popolo rispetto alla deriva demagogica del mercato.
La seconda s’attende probabilmente numeri diversamente ed in contrapposizione dalla prima che auspicabilmente presupporrebbe la tutela dei diritti e delle identità delle persone.
Il termine sovranista, a parer mio, non dovrebbe infatti infrangersi in contraddizioni, rivendicazioni od accuse di stampo nazionalistico, spesso “falsamente” evocate per creare fobiche ed assurde reazioni antagoniste.
Non è la “separazione” che anima il sovranista, bensì la coesione e l’unione che si esprime nella comunione d’intenti, nella comunità e nella comune appartenenza.
Negli anni novanta erano giovani gli studi sui processi interculturali.
All’alba della successiva e devastante globalizzazione, inaugurata sociologicamente sempre negli Stati Uniti, ove “orde” di attivisti in quel di Seattle si adoperarono per rendere internazionalmente manifesta la reazione alla forzatura neoliberista profusamente sollecitata, pubblicizzata ed elitariamente espressa da organismi sovraistituzionali come il WTO… gli studi sulla contaminazione pluralistica e positivamente arricchente data dall’interazione rispettosa tra diverse entità etnico-culturali e socio-economiche erano appunto agli albori.
Si guardava ad essi, però, con la speranza e la coscienza di poter cogliere un’opportunità.
Un’opportunità che potesse appunto realizzarsi in un processo di comunicazione ed interazione solidale tra popoli che arricchisse gli uni e gli altri attraverso le diversità e non che fosse da ostacolo allo sviluppo libero delle personalità di ognuno.
Francia, Germania ed Italia avevano ognuna un approccio diverso che rispecchiava per ognuna un diverso intendere l’inclusione (o per altri versi l’esclusione) dell’altro.
La Francia tendeva all’assimilazione, la Germania all’utilizzazione e l’Italia “forse” all’integrazione.
Il forse è d’obbligo per me che vengo da una realtà in cui è sempre “mandatario” ed immanente rimettere tutto in discussione e non per incertezza ma per necessità d’adattamento continuo alla realtà.
Così come tale necessità si ripresenta di continuo nella quotidianità delle realtà italiana ove l’emergenza e la transitorietà sono ormai divenute un dogma religioso.
La sindrome del traghettamento è però irta di ostacoli e pericoli come appunto dimostrano i risultati sulla sindrome da lunga disoccupazione o inoccupazione legati ai processi fisiologici moderni di precarizzazione del mondo del lavoro.
Da un’interessante pamphlet intitolato “Psicologia della Disoccupazione” vorrei mettere in risalto le seguenti riflessioni:
PSICOSOCIOLOGIA DELLA DISOCCUPAZIONE
Ecco allora che riemerge il tema centrale: il lavoro come merce od il lavoro come interazione ed autorealizzazione?
Piegandosi ad un mondo che valuta ogni elemento come “prezzo” si rischia di piegarsi ad un’esistenza che misura se stessa unicamente come “denigrazione”!
Un saluto
Elmoamf
Massimo Paglia – Ars Lazio
Complimenti per l'articolo, spero in possibili sviluppi e approfondimenti sul tema sempre su Appello al Popolo
Massimo, ho apprezzato molto questo tuo ultimo contributo.
L’esclusione (o peggio, autoesclusione), se non si arriva all’indigenza, è la conseguenza più importante della disoccupazione. Ne consegue che un reddito di cittadinanza può solo assicurare un ruolo che non si nega a nessuno: quello di consumatore, ma non può dare risposte credibili ai riflessi sociali che hai evidenziato.