Le parole e le cose
Di questi tempi appare abbastanza evidente come la sinistra sia la parte politica maggiormente responsabile del disastro verso cui si avvia il nostro paese, e come il suo “popolo” sia totalmente incapace di capire questo semplice dato di fatto. Occorre naturalmente distinguere fra le tendenze di fondo del nostro tempo e il modo in cui esse si concretizzano nei diversi contesti. Non c’è dubbio che, rispetto al tema di cui stiamo discutendo, la tendenza generale è quella della trasformazione, da tempo compiuta, della sinistra europea da forza di emancipazione e difesa dei ceti subalterni (il che ovviamente non vuol dire: forza rivoluzionaria) a forza totalmente asservita agli interessi dei ceti dominanti, e funzionale alla distruzione dei diritti degli stessi ceti subalterni. Questa trasformazione richiede ovviamente un certo tasso di inganno e autoinganno, perché i ceti dirigenti della sinistra devono distruggere diritti e redditi dei ceti subalterni continuando a richiamarsi ad una tradizione dove si faceva il contrario, e i loro elettori devono in qualche modo credergli. La mia impressione è che questo gioco sia particolarmente evidente e “spudorato” nel nostro Paese, cioè che in esso appaia in maniera particolarmente evidente, rispetto ad altri paesi, l’inganno perpetrato dai ceti dirigenti della sinistra, e la radicata volontà del “popolo di sinistra” di non prendere coscienza dell’inganno. Nella sinistra del nostro paese vi è una scissione, particolarmente evidente, fra le parole e le cose, fra quello che si dice e quello che si fa. Ripeto, questo è un dato generale, ma mi sembra più accentuato in Italia. Se è davvero così, sarebbe il caso di chiedersi perché.
Prima di provare a fornire una risposta, possiamo fare un paio di esempi. Il primo, sul quale ritorno di tanto in tanto perché, lo confesso, a suo tempo ne fui particolarmente colpito, è quello del Partito dei Comunisti Italiani, che nel ’99 fa parte (con 4 ministri, se non ricordo male) del governo D’Alema, e quindi si assume la responsabilità dell’aggressione alla Jugoslavia, cui il governo D’Alema partecipa assieme ad altri paesi NATO. Il punto è che il PdCI partecipa a questa guerra di aggressione imperialistica protestando e manifestando contro di essa e contro la NATO, senza che questo atteggiamento assurdo appaia, ai suoi elettori e in generale alle persone di sinistra, per quello che è, una intollerabile ipocrisia sufficiente a seppellire all’istante una forza politica.
L’altro esempio è quello di Walter Veltroni, che dopo aver fatto un’intera carriera politica nel PCI, arrivando nel 1987 ad essere eletto deputato al Parlamento nazionale, può tranquillamente dichiarare, dopo la fine del socialismo reale e dello stesso PCI, di non essere mai stato comunista. Anche in questo caso, senza che nessuno sembri rendersi conto, nel mondo della sinistra, che una simile dichiarazione dovrebbe essere sufficiente a classificare il suo autore come un mentitore privo di qualsiasi affidabilità e indegno di fiducia, e a troncarne di conseguenza ogni ambizione politica.
Il punto, in questi due esempi, non sta tanto nel fatto che il PdCI abbia fatto scelte politiche sbagliate, o che Veltroni possa essere definito oppure no un ex-comunista: la storia è piena di errori politici dei comunisti, ed è piena di ex-comunisti. Il punto è il carattere particolarmente “sfacciato”, impudente, sprezzante di logica, intelligenza e buon gusto, di queste scelte e dichiarazioni. Evidentemente i loro autori sapevano di poter contare su una indulgenza a priori, da parte del “popolo di sinistra”, nei confronti di simili macroscopiche contraddizioni.
Si tratta, lo ripeto, di una particolare declinazione nazionale di un dato epocale. Provo ad ipotizzare una possibile spiegazione. Mi sembra che una tale possibile spiegazione, o almeno un suo ingrediente, stia nel fatto che nel nostro Paese il partito che ha egemonizzato la sinistra, per tutto il secondo dopoguerra, è stato il Partito Comunista Italiano. Questo è in effetti un dato specifico del nostro paese, fra tutti i paesi occidentali. Altrove, i partiti comunisti erano o piccole formazione estremiste, del tutto ininfluenti, oppure erano (come in Grecia, Portogallo e in sostanza anche in Francia) parti significative della sinistra, ben radicate nel paese, ma minoritarie e non egemoniche nella sinistra stessa. In Italia, invece, “essere di sinistra” ha sempre voluto dire avere a che fare con la presenza egemonica del PCI.
Ora, a me sembra che il più elementare buon senso dovrebbe suggerire che un Partito si dichiara “comunista” perché intende realizzare il comunismo, e, di conseguenza, che un tale partito ha il dovere di spiegare cosa intenda per “comunismo” e come intenda arrivarci. Naturalmente, poiché stiamo parlando di un partito politico, cioè di una organizzazione nata per l’azione politica, la risposta alla domanda “cosa si intende per comunismo” non può essere una bella frase vuota del tipo “il comunismo è il movimento reale che abolisce lo stato di cose presente”, non può essere una enunciazione di principi generali del tipo “ da ciascuno secondo le sue capacità a ciascuno secondo i suoi bisogni”, non può essere una dotta discussione filosofica sulla natura comunitaria dell’essere umano. Deve essere un progetto politico di una società alternativa all’attuale che, senza essere delineato nei dettagli, ci faccia però capire alcune delle strutture fondamentali di tale società alternativa. Correlato a questo, e anche più importante per un partito politico, è l’indicazione di un ragionevole percorso storico-politico che mostri la possibilità concreta di arrivare, in tempi non lontanissimi, alla configurazione sociale desiderata.
Ora, è evidente che nessuno si è mai sognato, nel vasto mondo del PCI e della sinistra italiana da esso egemonizzata, di chiedere questo tipo di chiarimenti e nessuno si è mai sognato di fornirli. Questo non vuol dire, ovviamente, che non si sapesse cosa intendeva fare il PCI. Le sue scelte politiche erano piuttosto chiare, sia in politica interna sia in politica internazionale. Il punto è che tali scelte politiche non avevano nulla di “comunista”. Il PCI era un partito comunista di nome, ma di fatto era un partito socialdemocratico nella politica interna e filosovietico in quella internazionale. Tutto questo non è necessariamente un male. Con queste caratteristiche, il PCI ha secondo me avuto una funzione essenzialmente positiva nel dopoguerra italiano, fino agli anni Settanta. Il punto è che questa strana natura del PCI aveva in sé i germi dei fenomeni degenerativi dei quali abbiamo discusso all’inizio. Nel mondo della sinistra italiana egemonizzato dal PCI era considerato normale aderire a un “partito comunista”, o votarlo, o avere rapporti politici con esso, senza che per lunghi decenni nessuno si ponesse il problema di cosa mai volesse dire, per un partito politico di massa in un paese occidentale, “essere comunista”, e soprattutto cosa c’entrasse il “comunismo”, qualsiasi cosa esso sia, con la concreta prassi politica del PCI. La sinistra italiana è stata cioè abituata, dalla massiccia presenza del PCI, ad una radicale scissione fra parole e fatti, fra slogan e realtà. È stata abituata a trovare del tutto normale definirsi in un modo e comportarsi in modo diverso. E proprio qui, a mio avviso, sta una delle radici dei fenomeni degenerativi di cui si diceva.
C’è una conseguenza: se tutto questo è sensato, è chiaro che occorre essere molto diffidenti verso i tentativi, riproposti ogni tanto, di ricostruire un partito comunista in Italia: alle difficoltà oggettive si aggiungono infatti i dubbi, mai affrontati seriamente, su cosa possa voler dire, per un partito politico, essere “comunista”, in un paese occidentale. L’impressione è che con questi tentativi si cerchi in sostanza di ripetere l’esperienza del PCI, in una situazione nella quale non vi sono evidentemente più le condizioni che l’hanno resa possibile, e oltretutto perpetuando le ambiguità e le ipocrisie che hanno segnato quella storia. Non è davvero di questo che abbiamo bisogno. Nel bene e nel male, il PCI ha segnato una parte della storia di questo paese. Quella storia è finita, occorre costruirne un’altra.
(M.B.)
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Ci si è dichiarati per decenni comunisti senza che ci si ponesse “il problema di cosa mai volesse dire, per un partito politico di massa in un paese occidentale, “essere comunista””. Marino Badiale pone il problema di come noi di sinistra abbiamo potuto essere così stupidi da offrire al ceto politico di sinistra un assegno in bianco su cui esso ha scritto una cifra enorme e che ha girato al beneficiario più impensato – e di tutto questo non ci siamo accorti prima che la cinghia cominciasse a stringere. Vorrei rispondere al problema con un’applicazione elementare della teoria psicanalitica. L’uomo ha il pensiero, ma di solito non lo usa: è stupido. Ci sono però due tipi di stupidità, quella maschile e quella femminile. Entrambe risalgono al complesso edipico. A quattro-cinque anni i bambini e le bambine pensano che esista un unico genitale, il fallo; non avendolo, queste si sentono incomplete e questo sentimento, in quanto mai (o quasi mai) abbastanza sanato dalla scoperta della complementarità dei sessi, produce la stupidità femminile – che però ora non ci interessa; quelli, i maschi, avrebbero voluto possedere la madre, ma ebbero paura del padre e temettero che li castrasse; il timore della castrazione, mai abbastanza superato, produce la stupidità maschile. Essa consiste nella convinzione che la realtà sia l’impero di Satana, che (per usare il linguaggio di Eraclito) Polemos sia il padre di tutto e che non si ricomponga in Logos, se non in un altro mondo o in un futuro indefinito. Quando Marx scrive: “La storia di ogni società è stata finora la storia di lotte di classe”, quando il fascista dice che le questioni si risolvono soltanto con la forza, quando il tifoso del *** cerca di pestare il tifoso del °°°, essi danno forza alla stupidità maschile, al desiderio di non scorgere la ricomposizione di Polemos, cioè il Logos, già presente nella realtà, in modo da avere la possibilità eterna di uccidervi il padre. Non voglio dire che Marx si riduca a questo, neanche il fascismo vi si riduce; sto dicendo che il dichiararsi comunisti o fascisti, di sinistra o di destra, senza neanche sospettare il significato di questa dichiarazione, – ossia fare un’affermazione stupida esprime soltanto la fascinazione del maschio per l’odio verso il padre. Peraltro non credo che si debba abbandonare Marx; basta in realtà riconoscerne l’insufficienza: che l’organizzazione economica sia fondamento dell’organizzazione politica, è, per me, una proposizione vera; non è però un principio filosofico, semplicemente perché il fondamento non è categoria filosofica. Marx direbbe che i principi filosofici, quelli che individuano la corrispondenza nel PRESENTE tra essere e dover-essere, sarebbero mistificazioni. Proprio qui però è il problema: una volta che l’essere è concepito come del tutto irredento, resta soltanto il dover-essere, ossia alla realtà oggettiva, che deve essere conosciuta pazientemente e trasformata ancora più pazientemente, si sostituisce il soggetto che si appaga dei suoi sogni e quando gli accada di poter realizzare qualcosa lo fa soltanto come servitore dell’accidentalità; infatti per il devoto del dover-essere, che non si è affaticato a conoscere la realtà, non esistono che accidenti; così gli manca la capacità che Platone esigeva dai governanti – quella di essere buoni cani, capaci di riconoscere l’amico dal nemico; ha sempre creduto soltanto nel suo io ipertrofico, il suo io gli santifica ogni scelta per il semplice fatto che è la SUA scelta.
Certo, tirare fuori interpretazioni psicoanalitiche è sempre affascinante anche se ormai, secondo me, fuori tempo massimo, soprattutto dopo la constatazione dell’inadeguatezza psicanalitica a porre le condizioni per risolvere i problemi umani. Non nego che Freud abbia avuto intuizioni importanti per la storia del pensiero ma ormai la sua opera è stata abbondantemente demolita dalle evidenze storiche, cito solo l’illuminante volume di Mecacci, “Il caso Marilyn Monroe e altri disastri della psicanalisi”. Comunque, la sostanziale correttezza dell’articolo manca secondo me di una semplice osservazione, o meglio di una conclusione storica che ormai si impone. Questa si evince se a tutte le interpretazioni possibili degli eventi umani si mette in primis una lente di ingrandimento non tanto psicanalitica, quanto “semplicemente” umanista, e, nell’accezione più larga del termine, “psicologica”. Le ambiguità, l’ipocrisia e la doppiezza lamentate nell’articolo non sono effettivamente patrimonio della sinistra italiana, ma, a ben vedere, il tratto caratteristico dell’esperienza comunista tout court. Il comunismo avrebbe dovuto rappresentare l’emancipazione umana verso una società più giusta, ma si è “realmente” trasformato in uno dei regimi più asfissianti e illiberali della storia. La doppiezza è insita nella sua pratica che impone una uguaglianza non di opportunità ma, di fatto, di condizione umana, che castra e nega alla base, quella che è la vera ed enorme varietà umana. Siamo tutti diversi, intellettualmente e soprattutto nelle “responsabilità”, nel libero arbitrio. Ecco che il comunismo svela la sua doppiezza quando reclama una apparente, giusta uguaglianza (giusta se si limitasse ad una uguaglianza di opportunità), ma impone un livellamento sociale e morale verso il basso. Ecco allora che se guardiamo alla politica come un prodotto della psiche umana, si rivelano le vere macro differenze tra fascismo/comunismo, destra/sinistra. Il comunismo è per forza di cose doppio e infido, il fascismo è più palesemente dispotico ed autoritario. Anche nel fascismo non sono assenti impulsi all’eguaglianza e alla giustizia sociale ma, al di la delle differenze storico/sociologico/economiche/ideali con cui si è sviluppato, la differenza con il comunismo è una minore ambiguità sulle sue intenzioni dispotiche ed autoritarie. Ecco allora che se accogliamo nell’analisi queste caratteristiche capiamo che, per forza di cose, intorno ai due poli si coagulano persone appartenenti “psicologicamente” ed emotivamente a due categorie diverse: una più schietta e aperta, anche se autoritaria, l’altra apparentemente più solidale ma fondamentalmente infida, machiavellica e inaffidabile. Mille sono ovviamente le sfumature, ciò che dico non rinnega ovviamente la varietà e la complessità umana, ma fornisce una “spiegazione” del perchè, alla fine, gli impulsi provenienti da queste categorie politiche sono destinati ad un esito scontato e, come la storia insegna, deleterio per la condizione umana e per la speranza di un mondo migliore. La politica del resto ha già “partorito” il superamento dei vecchi “ismi” del 900, imponendo la novità di quelli che chiamiamo movimenti post ideologici. A ben vedere, l’ideale su cui possono ritrovarsi questi movimenti, il loro vero, anche se spesso inconsapevole minimo comun denominatore, è quello che io chiamo l'”etica dei DIRITTI UMANI. I trenta diritti umani disegnano una società più umana e coniugano al meglio sia le tendenze che appartengono alla giustizia sociale, sia quelle che appartengono alla libertà e unicità dell’individuo. Sono questi diritti la vera ipocrisia dell’occidente, e sono questi diritti che dovrebbero rappresentare l’anima e la spina dorsale della necessaria politica di risveglio umano, pena la caduta nel baratro di un REGIME DI CONTROLLO GLOBALE di cui già vediamo le fondamenta “tecnologiche”, che si instaurerà necessariamente dopo che i residui istinti fascio/comunisti, a cui va aggiunta la variante di intolleranza religiosa dei regimi teocratici, avranno terminato il loro psicotico antagonismo in qualche nuova guerra globale, probabilmente manovrati da un’élite finanziaria che se ne strafrega ma anzi usa a piacimento destra e sinistra. Decidiamo di assumere il disegno dei DIRITTI UMANI nell’azione politica, coaguleremmo un’infinità di persone/soggetti sociali, depureremmo la politica da vecchie tensioni/divisioni appartenenti ai logori ideali del 900, e forse riusciremo a scongiurare il tetro futuro che ci attende.
Caro Massimo Franceschini, il problema su cui volevo focalizzare l’attenzione era il rapporto tra essere e dover-essere. Comunismo e fascismo sono progetti politici legati al dover-essere. Mi risparmio ogni analisi del fascismo: basti ricordare l’immonda retorica dell'”uomo nuovo”. Quanto al comunismo, non sono i piddini i primi a parlare di “sogno”, è Marx a farlo; per quanto, nella sua straordinaria intelligenza, si sia proibito di scrivere ricette per l’osteria dell’avvenire, il suo rapporto con la VERITA’ già presente, già esistente, è molto difficile: egli riconosce la grandezza della borghesia nel suo aver saputo sviluppare la potenza del lavoro umano, non riconosce la grandezza della borghesia nell’aver saputo sviluppare istituzioni statali organiche e, in quanto tali, capaci di realizzare i diritti in una misura inaudita nella precedente storia umana; per Marx queste istituzioni sono soltanto l’ipocrita “dittatura della borghesia”, cui egli contrappone, nella “Critica del programma di Gotha” la dittatura del proletariato. Egli l’aveva intravista come un lampo nella Comune di Parigi e aveva ingenuamente creduto nella sua sostenibilità sulla lunga durata. Nella sua corsa verso il dover-essere, il comunismo storico si è invece imposto come regime poliziesco del partito unico ed è regredito allo schiavismo (i Gulag) e allo sterminio dei nemici di classe. Il punto per me è la rottura del cerchio magico del dover-essere: l’azione politica deve radicarsi nella difesa delle istituzioni esistenti (la COSTITUZIONE) contro le sue manomissioni in nome di obiettivi futuri: ieri l’uomo nuovo, la società comunista, oggi la grande società di Hayek, il cambiare l’Italia di Renzi. Lontano da me ogni desiderio di polemica! Su questo punto temo però che tu non mi abbia capito; questo perché la tua prospettiva è tutta radicata nel dover-essere: quando dici che Freud è demolito ti mostri poco sensibile alla dignità della scienza, perché, credo, la scienza ha per oggetto l’essere, non il dover-essere; parli dell’etica dei diritti umani da una parte come di ipocrisie (evidentemente nelle istituzioni esistenti e in bocca ai loro funzionari esistenti) e come disegno di una élite che deve coagulare un’infinità di persone per evitare la Minaccia. Questo tuo modo di impostare il discorso a me sembra del tutto identico all’impostazione dei discorsi che, pure, contesti.
“La sinistra italiana è stata cioè abituata, dalla massiccia presenza del PCI, ad una radicale scissione fra parole e fatti, fra slogan e realtà. È stata abituata a trovare del tutto normale definirsi in un modo e comportarsi in modo diverso”.
Direttamente dalla penna del “comunista preferito di Kissinger” arriva la prova di quanto sia tragicamente vera l’analisi di Marino Badiale (avvertenza: la lettura del documento nuoce gravemente alla salute; assumere mezz’ora prima almeno tre pastiglie di Maalox):
http://www.reset.it/caffe-europa/superare-il-dogma-della-sovranita-nazionale
Da colui che dovrebbe essere il garante della nostra Costituzione ecco l’apologia della “visione liberale” di Luigi Einaudi, il ripudio del diritto al lavoro su cui si fonda la Repubblica, la lode più sfacciata alla “strategia nata e gestita tra la Banca d’Italia e il governo, mirata alla stabilizzazione, ancorata a una visione di Stato minimo e aperta alle regole e alle istituzioni monetarie internazionali”. Strategia costruita, da De Gasperi ed Einaudi, “tra il 1946 e il 1947” (ovvero mentre l’Italia stava ancora contando le sue vittime, migliaia di giovani morti per salvare l’onore del Paese, e per consentire alle sue intelligenze migliori di scrivere, con la Costituzione repubblicana, il più grande progetto di democrazia sociale della storia umana) e posta “al sicuro, al di fuori della discussione in sede di Assemblea Costituente”. Strategia e costruzione nella quale “furono riconosciuti e assunti dall’Italia i fondamenti dell’economia di mercato, i principi della libera circolazione (merci, persone, servizi e capitali), le regole della concorrenza” e nella quale “si riconobbe via via anche la sinistra, prima quella socialista e poi quella comunista”.
Queste parole, che irridono al sacrificio di centinaia di migliaia di giovani, rappresentano il disgustoso epitaffio della sinistra italiana.
E’ vero: occorre costruire un’altra storia. Dobbiamo cancellare un’altra vergogna. Per farlo è indispensabile l’impegno e la responsabilità di ciascuno di noi. Dovrà guidarci lo spirito della Resistenza, lievito di quella rivoluzione dal basso che riscattò la dignità di un popolo soffocato nell’indifferentismo della dittatura fascista e che la Costituente cercò di trasfondere nella nostra Costituzione. Se quello spirito risorgerà nel popolo italiano, oggi come allora soffocato nell’indifferentismo da una tirannia non dissimile, le forze sovraniste riusciranno finalmente a scrivere un’altra storia.
Il PCI era un partito socialdemocratico, scrive Marino Badiale e almeno da un certo momento in poi indubbiamente è vero. Ma allora la medesima osservazione potrebbe essere svolta nei confronti del PSI, sostenendo che non fosse socialista ma socialdemocratico.
In realtà, fino all’avvento di Berlinguer io credo che si potesse dire che il PCI fosse un partito comunista. Un partito comunista destinato ad operare in occidente, con le conseguenze che logicamente ne derivavano. Probabilmente la protrazione di questa situazione “innaturale” è la causa prima della scissione, una causa, quindi, non colposa e sulla quale Marino pone l’accento.
Poi però vi è stato dell’altro. Dinanzi a un mondo che perdeva capacità di attrazione – il mondo comunista – Berlinguer aderisce all’eurocomunismo, concetto evanescente, anzi formula senza contenuti e nello stesso tempo promuove la scelta “anticomunista” sulla NATO. E’ con Berlinguer che la “scissione necessaria” tra parole e cose, scissione che in fondo, proprio perché necessaria, aveva una sua logica, diventa una “scissione volontaria”.
Infine, quello che Preve ha chiamato il serpentone metamorfo pci-pds-ds-pd segna un terzo passaggio: dalla scissione volontaria tra parole e cose alla continua scissione dapprima con la propria storia (pci-pds) e poi con il proprio presente e con le cose (pds-ds e ds-pd). La scissione con la propria storia è ilmomento pou’ gravido di conseguenze: i comunisti diventano psicologicamente dei “pentiti”, ossia le persone piu’ deboli o cinicamente peggiori.
I partiti noi dovrebbero essere trasformati: se è giunto il momento devono morire. Perché quando un leader fa una grande svolta e muta nome, simbolo, linguaggio e riferimenti cuturali sta uccidendo il vecchio soggetto collettivo e creando un altro partito. Sfrutta il potere, la burocrazia, l’organizzazione, gli immobili, la rete dei militanti di un partito, per farne un altro. Il caso PCI-PDS è emblematico, perché fu un passaggio da comunisti scissi (di fatto socialdemocratici) a liberali. Si liberali,come dimostra la posizione favorevole a Maastricht senza almeno quei dubbi e quelle critiche che parte del PSI aveva e svolse. E la cosa ha una spiegazione logica. Se il PCI avesse dovuto trasformarsi nel partito socialista, a che serviva la trasformazione? Sarebbe bastato iscriversi al PSI! Meglio scegliere parole vaghe e polisemiche, come “democratico” e “sinistra”. Infine, con la eliminazione del polisemico termine “sinistra” e la scelta del semplice nome “partito democratico”, la scissione tra parole e cose è finalmente venuta meno. Nome e simbolo del PD non evocano piu’ alcuna realtà:non piu’ scissione tra parole e cose ma scissione dalle parole dalle cose. Potere puro, innominato.
Caro Paolo, non ho mai affermato che non ci sia bisogno di ideali cui far riferimento, o di un dover-essere da raggiungere. Il problema è che questo dover essere, l’evoluzione della convivenza umana, sarà un qualcosa di auspicabile solo se nascerà da condizioni compatibili con ciò che è veramente l’uomo, nella sua varietà socio-culturale. Ciò che effettivamente contesto delle ideologie passate è proprio l’impostazione teorica del discorso, le visioni dell’uomo (del suo essere), della società, della storia e delle cose. Queste sono visioni sono secondo me fallaci e generatrici degli errori/orrori accaduti. Purtroppo queste visioni ancora incombono sul nostro futuro. Solo i diritti umani (un ideale che ha una lunga storia con apporti sia dal mondo laico sia religioso e condensati nella Dichiarazione del 1948), sono la piattaforma ideale per realizzare una società aperta, in cui la libertà e la dignità dell’individuo sia veramente coniugata con la responsabilità verso gli altri. Ecco allora perchè accolgo con favore qualsiasi movimento lotti per una effettiva applicazione della Costituzione, quando questa sia in linea con la Dichiarazione Universale dei Diritti Umani, proprio come la nostra. La costituzione sembra oggi essere diventata uno sterile documento in balia appunto dei vari dover-essere, senza capire che è proprio questa Costituzione la miglior fotografia della realtà umana e del suo auspicabile futuro. Riguardo alla scienza, trova certo il suo ambito e la sua dignità nell’essere, nell’analisi e scoperta di ciò che è veramente l’essere delle cose. Ma non basta certo appellarsi ad essa per meritarsene i galloni.
Caro Massimo, non riusciamo a capirci; faccio ancora questo tentativo perché credo che la nostra difficoltà non sia un fatto personale, ma culturale. Non ti ho mai rimproverato di aver rinunciato agli ideali, ti ho rimproverato il contrario. Il mio discorso è questo: il comunismo, pur con tutti i suoi meriti, ha un peccato originale e lo condivide con il fascismo: il settarismo. Negli interventi sopra ho spiegato (un po’ per scherzo) il settarismo con il complesso di Edipo; se ritieni Freud del tutto confutato da Mecacci, puoi rifiutare la spiegazione: per il mio discorso non cambia molto (è vero però che se ti limiti ad appellarti a lui senza confutare direttamente, non ti lasci guidare dallo spirito scientifico ma dal principio di autorità), anche perché su questo punto sei d’accordo con me: quello che qui chiamo “settarismo”, e che prima ho chiamato rifiuto dell’essere e devozione al dover-essere, è quello che tu chiami “ideologia”. Poi però torniamo a dividerci: tu credi che ci siano degli ideali e delle ideologie, i primi buoni perché radicati nella varietà socio-culturale, i secondi cattivi; io credo che qualunque ideale, compreso quello dei diritti umani, sia cattivo nella misura in cui è SOLTANTO ideale, è SOLTANTO dover-essere; e se diventa principio di azione politica, non può che degradarsi, per usare il tuo termine, in “ideologia”. A mio avviso, per essere buono l’ideale deve essere anche REALE come diritto POSITIVO e come coordinamento tra poteri istituzionali di uno STATO esistente. Il mio contributo al problema che Marino pone è dunque questo: sin dal suo nascere il comunismo è stato settario, ossia ha considerato un valore la semplice appartenenza, la forza cieca che nasce dall’unità; questo settarismo ha avuto una giustificazione storica ogni volta che si è confrontato con altri settarismi (quello fascista, quello liberista); questo settarismo appare in tutta la sua miseria ogni volta che non c’è il nemico e occorre conoscere e valorizzare la verità esistente nello stato, nelle sue istituzioni e nelle sue leggi. Ciò che ti scrivo è mia esperienza (ossia ho condiviso la stupidità di cui Marino parla), ma, credo, della sinistra in generale: ci siamo considerati giusti solo perché avevamo nobilissimi ideali, senza prendere coscienza di ciò che facevamo, abbiamo considerato gli altri sbagliati perché non avevano i nostri ideali, senza conoscere ciò che facevano; abbiamo disprezzato gli ideali già attuati nelle istituzioni statali e nelle leggi. – Lo stato è la realtà dell’ideale – questo ha scoperto Hegel; Marx gli ha rinfacciato che lo stato è un semplice strumento della classe dominante; in questo modo ha lanciato una maledizione alla realtà e ha instradato tutto il movimento operaio in un inconsapevole settarismo.
Concordo in pieno con la conclusione del tuo intervento e quando dici che il problema degli ideali è quando rimangono soltanto tali. Non capisco però quella che a me sembra una contraddizione nel tuo ragionamento. Dici da una parte che gli ideali sono negativi se rimangono soltanto tali ma anche che lo sarebbero i diritti umani se diventassero principio di azione politica. I diritti umani sono secondo me reali come diritto positivo anzi, contribuiscono a delineare la miglior forma per uno Stato altrimenti esposto agli attacchi ideologici e settari.
Sul resto mi spiego meglio. Il problema delle ideologie/ideali non è secondo me soltanto il settarismo. Ogni sforzo intellettuale dell’uomo, filosofico, politico, religioso, scientifico ecc. è, sostanzialmente e tralasciando ora gli usi più o meno coerenti che ne sono scaturiti, un prodotto dell’intelletto umano che cerca di comprendere la realtà delle cose e di se stesso.
Il comunismo, il fascismo e tutte le ideologie/ideali che contengono il germe dell’inevitabile autoritarismo/dispotismo (per altri motivi vi includo anche l’anarchia, il liberismo e le aberrazioni para-scientifiche come la psichiatria), sono nefasti e falsi. Nefasti perchè portano alle inevitabili conclusioni pratiche che abbiamo sperimentato nel 900, falsi perchè mettono un cappello ideologico a come dovrebbe essere la società, tarpandone la varietà umana, intellettuale, culturale, razziale, etnica, religiosa e ideale.
Qualsiasi giustificazione di lotta di classe, ordine e disciplina, qualsiasi pretesa scientista o dominio teocratico, qualsiasi liberismo senza responsabilità sociale, impongono una visione dell’uomo e della società che viola la libertà di pensiero e azione, ma viola anche il naturale senso di fratellanza e cooperazione che l’uomo, pur con le sue contraddizioni, ha sempre dimostrato di possedere.
Ecco perchè reputo i DIRITTI UMANI, come definiti nella Dichiarazione Universale del 1948, l’unico ideale ragionevolmente perseguibile, spesso incarnato in Costituzioni che restano però inapplicate, l’unico residuo politico decente degli ultimi due secoli, che hanno altrimenti prodotto le più grandi tragedie umane della storia.
Ecco perchè mi piacerebbe nascesse un movimento mondiale per i diritti umani che diventasse partito politico in più nazioni possibile, il cui programma sia formato da progetti e programmi che portino ad una progressiva e fattuale realizzazione dei 30 diritti umani.
L’ARS è una delle cose che forse si avvicina maggiormente a quanto da me auspicato.
Tutte le sperequazioni e le ingiustizie antiche e moderne, tutti i meccanismi giuridici che vanno a deteriorare la sovranità degli stati e delle comunità umane, tutte le consuetudini delle lobby multinazionali che sorvolano le leggi e si impongono con la forza sulle società umane, rappresentano violazioni dei diritti umani.
Combattiamole in modo adeguato.
Riguardo a Freud, non essendo uno specialista del settore la mia diretta confutazione magari richiederebbe troppo spazio e potrebbe apparire pretenziosa se mal argomentata, ecco allora che mi avvalgo di ciò che conosco e che reputo, dal mio punto di vista, abbastanza autorevole e pertinente da essere citato.
“La sinistra italiana è stata cioè abituata, dalla massiccia presenza del PCI, ad una radicale scissione fra parole e fatti, fra slogan e realtà. È stata abituata a trovare del tutto normale definirsi in un modo e comportarsi in modo diverso. E proprio qui, a mio avviso, sta una delle radici dei fenomeni degenerativi di cui si diceva.” E questo spiega il perchè, ma non il come. E per capire il come credo che vada rovesciata l’impressione che Marino Badiale pone a premessa; la mia è esattamente opposta. All’elettorato del Serpentone non è apparso per nulla evidente che “la sinistra sia la parte politica maggiormente responsabile del disastro verso cui si avvia il nostro paese”. Quel “popolo” è stato totalmente privato della capacità di capire la trasformazione della sinistra da forza di emancipazione sociale a forza totalmente prona alla classe finanziaria globale e funzionale alla distruzione dei diritti dei ceti subalterni. A questi elettori, che hanno continuato “in qualche modo” a credere al ceto dirigente del Serpentone che, mentre strumentalizzava la tradizione, faceva esattamente il contrario cioè distruggere diritti e redditi dei ceti subalterni, il gioco non è stato affatto “particolarmente evidente e “spudorato”. Nella sinistra la scissione fra le parole e le cose, fra quello che si dice e quello che si fa, è il dato che “richiede ovviamente un certo tasso di inganno e autoinganno”. In quale modo i dirigenti della sinistra hanno potuto perpetrare l’inganno e impedire al loro popolo di prenderne coscienza?
Non credo nella spiegazione psicologica, come la tradizionale doppiezza dei comunisti, o in quella psicanalitica, come l’appagarsi dei propri sogni; azzarderei una spiegazione più terra-terra, o per meglio dire, etere-etere. Il tasso di inganno risiede nella pluridecennale, massiccia e quasi totale disponibilità dell’apparato massa-mediatico italiano da parte del Serpentone, che non disponeva soltanto delle redazioni RAI. Anche Berlusconi, tramite le sue televisioni, forniva al Serpentone il servizio di ingannare il suo elettorato, facendo credere che i sinistri neo-convertiti al liberismo fossero ancora i comunisti che mangiavano i bambini. I messaggi mediatici berlusconiani erano rivolti soprattutto all’elettorato piddino per conservarlo piddino, per consentire a lui, Berlusconi, di agitare il pericolo comunista e agli ex comunisti, ora liberisti, di agitare quello fascista. L’elettore di sinistra, se non leggeva più l’Unità, si abbeverava su La Repubblica o sul Corsera, ma la bevanda narcotica era la stessa. Si tende a dare importanza preminentemente al potere politico e finanziario, ma non a quello mediatico, come se questo fosse meno micidiale e in un certo senso fronteggiabile e limitabile. Abbiamo sottovalutato la capacità allucinogena dei mass media di far credere sistematicamente e stabilmente che l’asino vola. Soltanto i mass media potevano assuefare a una radicale scissione tra parole e fatti, tra slogan e realtà, protratta per vent’anni: il recente spot della RAI sull’Unione Europea dimostra in modo atrocemente efficace e irritante che possono far vedere a milioni di persone che l’asino vola. Questo inganno pluriennale mediatico credo che sia arrivato al capolinea. L’astensionismo calabro-emiliano-romagnolo è il segnale che qualcosa si è definitivamente incrinato; gli elettori astensionisti non torneranno più al Serpentone; si stanno guardando intorno per scorgere chi voglia presentarsi e offrirsi a raccogliere le loro speranze.
Concordo sulle responsabilità dei media.
L’azione dei media, a tutti i livelli, ha una enorme responsabilità sullo stato dell’associazione umana. Questa cosa non è ancora ben compresa nella sua importanza e vastità dal mondo intellettuale…forse anche perchè scomoda da “predicare” per chi è abituato a frequentare tv e giornali?
Chiarisco quella che ti sembra una contraddizione. Mentre qualunque progetto è in funzione della sua realizzazione e rispetto a questa è soltanto l’inizio, ogni ideale può essere concepito così sublime da non poter essere realizzato perché la realtà ne sarebbe indegna. Per il cristiano medievale la vera vita è dopo la morte, il mondo è preda del demonio, per il filosofo Kant la libertà e la moralità, pur essendo l’essenza dell’uomo, non hanno esistenza empirica, sono uno sforzo eterno verso una perfezione irraggiungibile, perché il corporeo è eternamente ribelle alla ragione: qui la materia è il male, lo spirito il bene. C’è anche la versione opposta, la materia come bene, lo spirito come male: per Rousseau la natura umana è buona, la società radicalmente cattiva; per l’anarchico gli individui sono buoni e socievoli, il potere sempre cattivo. Sono tutte concezioni, queste, che coltivano ideali così sublimi che la loro realizzazione positiva ne sarebbe anche il tradimento; dunque sono tutte concezioni animate dall’odio nei confronti della realtà e di un nemico (Satana, la costituzione patologica dell’individuo, il potere ecclesiastico e politico) che ne ha preso possesso; così la loro unica realtà è la distruzione della realtà e del nemico che vi si è annidato. Non so se parlo di cose estranee al sentimento comune. Io ho superato i cinquant’anni; da giovane mi piaceva “La locomotiva” di Guccini, la canzone del ferroviere che lancia la locomotiva contro il treno dei ricchi (evidentemente con vecchi, donne e bambini dentro, anche se non è specificato); oppure ricordo le canzoni di De André: “Il pescatore”, un inno all’omertà, “Il giudice”, una diffamazione della magistratura in quanto tale. Tutte queste concezioni sono dualistiche, quindi settarie: c’è un bene che è soltanto ideale ed è contenuto nell’animo di una soggettività nobile – individuo oppure gruppo -, c’è un male che è il potere reale di un nemico, e che bisogna annientare perché trionfi il bene (forse per questo Disney piace tanto alla sinistra, più di Marx). Quando dico che l’ideale in quanto tale è il male, per “ideale in quanto tale” intendo il fine pensato come irrealizzabile, che dunque è reale solo come annullamento del suo altro. Il comunismo, di cui Marino Badiale dice giustamente che non ha mai acquisito la determinatezza di un progetto, ha svolto la sua efficacia storica come ideale astratto e irrealizzabile (storicamente giustificato quando doveva confrontarsi con altri ideali ancora più astratti e irrealizzabili – penso alla trasformazione della prima guerra mondiale in guerra totale contro un nemico disumanizzato), facendo dei suoi adepti dei settari in rotta con la realtà, pronti dunque a ingoiare le menzogne più sfacciate. Rispetto a ogni ideale occorre dunque chiedersi: che cosa lo realizza? La semplice distruzione dell’esistente? Oppure è già realizzato in istituzioni effettive e riconosciute? Sono queste istituzioni che fanno la differenza, e la fanno con la loro realtà.
Caro Paolo, anche io ho superato i 50 e in gioventù facevo parte del movimento libertario, quindi comprendo benissimo ciò che dici.
Il problema riguardo agli ideali che tu sintetizzi e spieghi molto bene, è in effetti secondo me uno dei problemi della filosofia, quando resta soltanto speculazione e disdegna la parte fattuale e concretante gli ideali stessi. La filosofia demanda quindi ad altri ismi e logie la realizzazione degli ideali, con esiti spesso catastrofici. Ebbene, è ora che la filosofia e più in generale il pensiero unisca agli ideali un po di pragmatismo, completi oltre alla speculazione anche le ipotesi fattive. L’assunto che tu ben sintetizzi con “ogni ideale può essere concepito così sublime da non poter essere realizzato perché la realtà ne sarebbe indegna”, anche se purtroppo reale e troppo spesso praticato, è secondo me fuorviante…una vera è propria trappola! Quindi riallacciandomi alla conclusione della tua risposta, credo proprio che i diritti umani formino gli articoli e i percorsi necessari per la realizzazione dei grandi ideali in essi contenuti, per riempire di significato le istituzioni riconosciute di cui parli. Del resto, le istituzioni e qualsiasi “costruzione”, ossatura e forma è morta, senza un’anima che la possiede.
Se a qualcuno potesse servire.
Il PCI ha sempre tenuto atteggiamenti pragmatici a livello dirigente e sol dell’avvenire a livello militanza