Legge, diritto e istituzioni nella dialettica tra potere costituente e costituito
la tradizione degli oppressi ci insegna che “lo stato di eccezione” in cui viviamo è la regola (W.Benjamin)
In questo breve excursus del pensiero politico occidentale, che per forza di cose non può essere considerato esaustivo, ci proponiamo di esaminare il particolare legame che intercorre tra le istituzioni e popolo cercando di esplicitare l’articolazione della forma e del contenuto di tale rapporto nella prospettiva di diversi pensatori. Percependo nell’abuso della decretazione d’urgenza e nell’instaurazione di un governo della crisi europeo, la deriva astrattiva della legge che nella sua forma moderna vige ormai senza prescrivere nulla, abbiamo cercato per sommi capi di ricostruire una genealogia possibile del cammino non lineare che ha portato alla decadenza odierna.
La filosofia politica greca classica con Aristotele definì per prima in modo essenziale il fine della politica come la vita comune (koinonia) in vista del vivere bene (euzein). La politeia, cioè la legge fondamentale della polis, era la struttura permanente entro la quale poteva aver luogo la giusta direzione delle situazioni mutevoli da parte degli agenti politici affinché il dominio venisse esercitato dalle leggi e non dagli uomini, ma anche la stessa forma di governo, nella misura in cui essa rispondeva alla mentalità di un popolo e alle consuetudini che si erano sviluppate in un paese. Essa riferendosi alle strutture istituzionali della polis aveva un significato immediato, concreto e tangibile. Questa doppia polarità della politeia come forma di governo e, allo stesso tempo, architettura legislativa della polis si tramanderà al mondo romano. È Polibio il primo ad appropriarsene. Lo storico greco attribuì il successo della Repubblica Romana nel Mediterraneo nel II secolo a.C. alle sue particolari istituzioni: Roma si sarebbe salvata dal declino insito in ogni sistema politico perché capace di realizzare un governo misto, cioè un equilibrio di poteri e di organi, ciascuno dei quali poteva esprimere al massimo la sua fisiologica funzione (incarnati da specifiche figure istituzionali) i consoli erano l’elemento monarchico adeguato al potere esecutivo, il senato l’elemento aristocratico, che controllava l’erario e la politica estera, il popolo l’elemento democratico che dava consenso ultimo sulle scelte più importanti. In questa prospettiva, dunque, la forma di governo era, espressione dei ceti in lotta tra loro, ed era solo nelle istituzioni, attraverso un sistema di checks and balances, che si poteva porre rimedio alla deriva naturalmente declinante propria di ogni governo.
Solo con Cicerone viene introdotto per la prima volta il termine constitutio in un passo del De Re Publica: “omnis ergo populus, qui est talis coetus multitudinis qualem exposui, omnis civitas, quae est constitutio populi, omnis res publica, quae ut dixi populi res est, consilio quodam regenda est, ut diuturna sit”[1]. “Ogni popolo, dunque, cioè quella particolare riunione di gente ch’io vi ho già definita, ogni Stato, che è la costituzione di un popolo, ogni Repubblica, che é il bene del popolo, ha bisogno, per durare, di essere retta con una certa saggezza”. L’inciso ciceroniano è determinante nella nostra visione, (omnis civitas, quae est constitutio populi) come si vede la costituzione appare indissociabile dall’articolazione con cui un popolo si rappresenta, essa è fondamento politico del popolo, la forma che articola il contenuto politico della moltitudine.
Con la trasformazione della repubblica in Impero e la successiva traslazione in quello orientale ed, infine, in quello germanico ottoniano, il problema politico diventò presto quello di un’unità in vista di un bene trascendente: la formazione della Res Publica Cristiana, universale ed ecumenica. È nel De Monarchia di Dante che assistiamo ad una prima evoluzione del concetto. Se infatti, l’impero continuava ad essere considerato come communitas perfectissima[2], ciò non s’intendeva nel senso di una comunità simile al regnum e alla civitas autarchica ma ancora più perfetta, concepita in vista della pace e della giustizia tra le comunità autarchiche, e solo perciò più elevata e più ampia. Dunque, chiosando il poeta fiorentino, si deve necessariamente ammettere che c’è una communitas perfectissima europea, solo laddove le comunità rimangano autonome e indipendenti perché in grado di provvedere a loro stesse. Infatti, soltanto se all’interno di ogni comunità è realizzato il principio immanente del vivere bene, si può realizzare il principio trascendente del vivere in pace ed armonia. Se ciò è vero, però, non si può non ammettere che, in tale visione, primo e incondizionato rimanga solo il diritto con cui ogni comunità si autodetermina e secondo e condizionato al primo fattore è il diritto internazionale da cui sorge la società più perfetta. Sono gli sviluppi della seconda scolastica a condurre alle estreme conseguenze il discorso dantesco nel De monarchia. Se per Dante l’ordine del fine trascendente conservava una preminenza morale sull’ordine immanente della civitas autosufficiente, quest’ultima ne diveniva però il presupposto fondamentale. E’ attraverso autori come Tommaso d’Aquino, infatti, che l’ordine immanente della realtà pervenne alla conquista della sua autonomia definitiva rispetto a quello trascendente, poiché entrambi derivano da Dio secondo un diverso ordine causale. “In primo luogo, in quanto è in Dio stesso, l’ordinamento degli effetti si chiama provvidenza. In secondo luogo, in quanto lo stesso ordinamento è considerato nelle cause intermedie ordinate da Dio per produrre certi effetti, e allora esso assume la razionalità del fato”[3]. Dio non è solo causa del mondo in maniera eminente, è anche il creatore delle leggi attraverso le quali questo funziona. In un certo senso, solo dopo tale teoria diventa possibile spiegare gli eventi e i fenomeni della realtà fisica attraverso un ordine a loro immanente. Interessante notare come questa formulazione sopravvenga contemporaneamente al progressivo sgretolamento dei “Due Soli” che avevano dominato lungo tutto il medioevo, il Papato e l’Impero, e alla parallela affermazione dei regni nazionali. La concezione di un campo immanente da quello trascendente contribuì a liberare l’azione politica dai doveri morali, la questione diventava allora propriamente quella di stabilire che cosa fosse la sovranità, chi la detenesse e a quali condizioni essa potesse conservarsi.
Fu Jean Bodin che elaborò una risposta coerente alle domande del suo tempo: “La legge dipende da colui che ha sovranità; egli può obbligare tutti i sudditi, e non può obbligare se stesso; mentre il patto è muto, tra principi e sudditi, e obbliga le due parti reciprocamente, né una delle due parti può venir meno ad esso a danno dell’altra e senza il suo consenso; in un caso del genere il principe non ha alcuna superiorità sui sudditi, se non che, cessando il giusto motivo della legge che ha giurato di osservare, egli non è più vincolato dalla sua promessa, mentre invece i sudditi non possono comportarsi ugualmente se non sono sciolti dal principe. Perciò i principi sovrani non giurano mai di mantenere intatte le leggi dei predecessori; e se lo giurassero non sarebbero più sovrani. Tuttavia il principe non può derogare a quelle leggi che riguardano la struttura stessa del regno e il suo assetto fondamentale, in quanto esse sono connesse alla corona e a questa inscindibilmente unite”[4]. Bodin affermava l’autonomia e della sovranità, essa non poteva essere limitata dalle leggi dei predecessori, dai giuramenti né nei confronti del proprio popolo, né nei confronti dei sovrani stranieri, solo le leggi fondamentali dello Stato, cioè quelle senza le quali non potrebbe darsi alcuna sovranità dovevano essere rispettate e non potevano essere derogate. Jean Bodin, concepiva, dunque, il potere del re come illimitato rispetto ai ceti, e ai trattati, ma sottomesso alle tradizioni e alle leggi fondamentali di Francia.
Poco dopo la redazione dei sei libri sulla repubblica del pensatore francese, in Europa accadeva un evento di straordinario impatto politico, che costringeva a rimettere in discussione e allo stesso tempo radicalizzare il discorso di Bodin: la dichiarazione d’indipendenza olandese del 1581. Qui di seguito ne riportiamo un breve stralcio: “E’ a tutti evidente che un principe è posto da Dio al governo di un popolo per difenderlo dall’oppressione e dalla violenza,come il pastore il suo gregge; e Dio non creò il popolo schiavo del suo principe, per obbedire ai suoi ordini a ragione ed a torto, ma creò piuttosto il principe a vantaggio dei sudditi (senza i quali egli non potrebbe essere principe) e per reggerli secondo giustizia, per amarli e aiutarli come il padre i suoi figli, o il pastore il suo gregge, e per difenderli e proteggerli finanche a costo della vita. E quando egli non si comporti così, ma al contrario, li opprime, tentando di violare loro antiche consuetudini e privilegi esigendo la loro servile obbedienza, allora egli non è più un principe, ma un tiranno e i sudditi non devono considerarlo in altro modo. E in particolare, quando ciò è fatto deliberatamente, senza l’autorizzazione degli Stati (Generali), essi possono non soltanto rifiutarsi di riconoscere la sua autorità ma procedere legittimamente alla scelta di un altro principe per la loro difesa”[5]. Come si può leggere in tale documento, non è più la legge fondamentale a limitare la sovranità, come per Bodin, ma il diritto come sistema delle istituzioni e delle consuetudini di un popolo, che, in tale prospettiva sembra esserne il presupposto genetico. Il diritto è il sistema delle relazioni pattizie che tiene assieme la società, per cui ha natura fondamentalmente contrattuale, che può essere tacita (consuetudini) o esplicita, ma sempre contrattuale. Proprio per la natura pattizia di tale prospettiva, il re non è altri che un reggente, egli esercita il potere in virtù di cessione di diritti volontaria da parte dei cittadini, ma questi qualora riscontrino la violazione delle “loro antiche consuetudini e privilegi“, possono rovesciare il suo governo. Tale clausola certifica con certezza che, in questa prospettiva, era il popolo a detenere il potere sovrano, perché in ultima istanza poteva decidere di rovesciare il proprio re se egli non avesse rispettato le consuetudini, cioè le leggi fondamentali. Mentre, il rapporto tra popolo e monarchia si è invertito, non cambia il precetto dell’inviolabilità delle leggi fondamentali, che, anzi, in tale prospettiva assurgono ad elemento capitale per determinare il detentore ultimo della sovranità. Il filosofo Althusius, sulla scorta dell’esperienza storica del suo popolo, immaginava l’istituzione di un eforato, sul modello spartano, assegnato al controllo popolare della corrispondenza dei decreti del re con le leggi e le consuetudini del popolo.
In una situazione differente si trovò a fine XVII secolo il suo connazionale Spinoza, che pur partendo dalle premesse storiche dell’Olanda repubblicana non poté fare a meno di prendere atto del fallimento della rivoluzione inglese. Egli preferì, come aveva fatto Hobbes, porre l’accento sulle virtù pacificatorie e rassicuranti delle fondamenta statali: “Non sarà affatto solido quel governo la cui stabilità dipende dalla lealtà di qualcuno e i cui affari non possono essere ben curati se non grazie alla lealtà di chi si è impegnato ad occuparsene, ma affinché possa durare la cosa pubblica dovrà essere ordinata in modo tale che coloro che la amministrano, o sono guidati dalla ragione, o non possono esser indotti dagli affetti ad agire in malafede, cioè male. Né è rilevante per la sicurezza del governo in che modo gli uomini siano indotti ad amministrarlo rettamente, purché lo facciano: la libertà o la forza d’animo, infatti, sono virtù private, la sicurezza, invece, è virtù del governo” [6]. Contro ogni aristocrazia degli ottimati, dei più sapienti o dei tecnici, Spinoza pensava ad un sistema per il quale gli amministratori della cosa pubblica fossero portati ad agire quanto più rettamente possibile dal sistema stesso, il fine di ogni azione politica, e servissero in astratto lo Stato anziché personalmente il principe. In quest’ottica la costituzione incarna lo spirito delle leggi e delle istituzioni, è la struttura entro la quale si muovono gli agenti politici, ma allo stesso tempo è anche il modello positivo di ogni azione politica. Come per Machiavelli, anche per il filosofo olandese la preservazione della comunità politica dipendeva da un ordine immanente ad essa e non dalle virtù individuali degli uomini, tuttavia, “poiché tutti gli uomini, sia barbari che civilizzati, intrecciano sempre consuetudini e danno vita a qualche stato civile, le cause e i fondamenti naturali dei governi non vanno ricercati nei dettami della ragione, ma bisogna dedurli dalla comune natura o condizione umana”. Astraendo la condizione universale prepolitica degli individui, sia Spinoza che Hobbes, delinearono anche le fondamenta universali di ogni comunità (cessione del diritto, contratto), tuttavia se in Hobbes il diritto naturale si arrestava al momento stesso del Patto, in Spinoza esso persisteva allo stato civile. Non è in questione l’obbedienza allo Stato, che permaneva intatta tanto in Hobbes quanto in Spinoza, ma la concettualizzazione di una cessione che non sia anche alienazione del diritto, così come concepita dal filosofo inglese. Al contrario nel trattato teologico politico egli riprese e riformulò una bella espressione di Tacito: “Roma non è mai stata minacciata dai nemici esterni quanto lo è stata dai suoi concittadini” astraendola nella seguente proposizione: “Uno Stato, quale che sia, non è minacciato dai nemici esterni quanto lo è dai suoi stessi concittadini”. Ciò per dire che la natura violenta dell’uomo non veniva meno allo stato civile, perché nello stato civile egli continuava a conservare il diritto. “Nessuno trasferisce il proprio diritto naturale ad un altro in modo che in seguito non sia più consultato, ma lo trasferisce alla maggior parte di tutta la società della quale è membro; e in questo modo tutti rimangono uguali, come lo erano prima nello stato di natura”. Con Spinoza desumiamo la constatazione che il potere costituente non si esaurisce mai con il potere costituito, ma anche il pericolo che il potere costituito, trovandosi sempre in situazione asimmetrica col cittadino, informi e condizioni il potere costituente, spalancando così un solco fra di essi. La questione diviene allora, come adoperarsi affinché la cosa pubblica sia ordinata in modo tale che gli uomini seguano la ragione piuttosto che i propri appetiti e come le istituzioni possano rimanere quanto più immanenti possibile al processo costituente.
Tale paradosso non viene affatto risolto da Rousseau, per il quale, un individuo politico è libero se, in quanto suddito, deve obbedire a leggi che egli stesso si è dato in quanto cittadino. Tale teoria, con la rivoluzione francese, si risolve compiutamente nell’unificazione astratta del diritto. Tuttavia nel trapasso tra lo stato attivo e passivo della cittadinanza che comanda a se stessa, c’è solo l’idea del potere che diventa fine a se stesso, e non ha bisogno di alcuna legittimazione estrinseca, perché governato da un’astratta volontà generale. Emerge, dunque, quella concezione moderna di un diritto imposto dai dominatori e allo stesso tempo conquistato dai dominati[7], nella misura in cui, se da una parte, la sua attuazione crea le fondamenta dello stato democratico, dall’altra, essendo relazione tra potere e cittadino non simmetrica, rimane sempre presente il rischio di una sua strumentalizzazione. La deriva a cui non abbiamo finito di assistere è quella in cui legge e diritto divengono sempre più astratti e acclamati universalmente, scavando al contempo un fossato dalle consuetudini e dalle pratiche sociali del popolo, tramutando in finzione e fantasma di se stessa la sovranità popolare. Se il diritto e legge non prescrivono, dunque, nient’altro all’infuori della loro stessa attuazione ed estensione, essi, nella trasfigurazione della “dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino” diventano i grimaldelli attraverso i quali l’Impero napoleonico invade l’intera Europa e legittima le proprie conquiste.
Ciò a cui assistiamo nel drammatico presente è lo stadio ultimo dello sviluppo dell’astrazione del diritto universale e della legge universale che, acclamati ovunque, vigono senza prescrivere e senza significare. Tutto ciò rende possibile omologare e prendere insieme l’intera popolazione mondiale e annullarne gli usi e costumi, rendere inoperose le loro carte costituzionali residuo delle loro esperienze storiche e sociali e il loro patrimonio giuridico, attraverso un potere che attuando lo stato d’emergenza, può legittimamente sospendere la validità di ogni legge.
[1] Cicerone, De Re Publica, L. I ,41-42.
[2] D. Alighieri, Opere minori di Dante Alighieri, De monarchia, Torino 1986.
[3] T. D’aquino, Summa teologica, Bologna 2004. Vol. I, quest. 116.
[4] J. Bodin, I sei libri dello Stato, a cura di M. Isnardi Parente, Torino 1964, libro I, cap. VIII. Pp. 358-362
[5] P.Villani e F.Gaeta (a cura di), Documenti e testimonianze, Milano 1974. Pp.318-319.
[6] Spinoza, Trattato politico, I, 4-6
[7] W. Reinhard, Storia dello Stato moderno, Bologna 2010. pp.83-86.
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