L'illegittimità costituzionale delle cessioni di sovranità
Venerdì 27 marzo, a Pavia, si terrà il convegno organizzato dall’ARS e accreditato dall’Ordine degli avvocati di Pavia (con l’attribuzione di 6 crediti formativi validi ai fini dell’aggiornamento professionale continuo) intitolato “Principi fondamentali della Costituzione italiana e obiettivi dell’Unione Europea. Due modelli a confronto. Profili di incompatibilità“. Anticipo, soprattutto per i soci e per i colleghi interessati che non potranno intervenire all’importante convegno, la mia relazione, che chiuderà la giornata di studio. Ho affrontato il problema delle cessioni di sovranità sotto il profilo della contrarietà ai principi fondamentali della Costituzione, con particolare riferimento agli articoli 1, 3 comma 2° e 4. Credo di averlo risolto in modo originale e giuridicamente convincente e mi auguro che tale soluzione possa togliere ogni dubbio sull’incostituzionalità del mezzo con il quale, come vedremo, si è consolidato, di fatto ed extraordinem, un nuovo assetto di potere.
«Cessioni di sovranità e profili di costituzionalità»
- Cosa si intende per cessione di sovranità?
Con questa locuzione si intende il trasferimento permanente di una specifica funzione sovrana dello stato a un’istituzione sovranazionale ed, in particolare, ad un organismo, ad un vero e proprio apparato di comando autoqualificatosi in chiave tecnica ed improntato ad una logica strutturale in apparenza federale, ma in realtà oligarchico-plutocratica, imperniata su tale funzione.
Altra cosa è la limitazione di sovranità a cui fa cenno l’art.11 della Cost. A differenza della cessione, essa ha carattere temporaneo e la sovranità è immediatamente riassumibile dal suo titolare allorché vengano a mancare le condizioni che giustifichino la limitazione.
Dove nasce e come si sviluppa il concetto di cessione della sovranità ?
E a quale progetto era (ed è tuttora) funzionale?
Nasce nell’ambito della corrente federalista europea.
I federalisti erano (e sono tuttora) una ristretta cerchia di filosofi e di politici “convinti che storicamente gli Stati nazionali europei non fossero ormai in grado di garantire benessere e sicurezza ai propri cittadini” e certi che il destino di intere popolazioni dovesse essere la loro unificazione in uno stato federale (sul modello di quanto accaduto negli USA con la convenzione di Filadelfia), a prescindere dal fatto che le stesse popolazioni fossero o meno d’accordo su tale progetto.
L’iniziale idea di utilizzare il metodo costituente per elaborare una costituzione federale e fondare la federazione europea venne presto abbandonata: non esiste infatti un popolo europeo; non c’è una lingua europea evolutasi e consolidatasi nel tempo; non c’è una tradizione culturale europea. E poi vi sono difficoltà tecniche insuperabili: la scelta della forma istituzionale (monarchia o repubblica?); la convivenza fra stati unitari centralizzati, stati federali e stati regionali; la produzione di una costituzione che metta tutti d’accordo; la centralizzazione del debito e la redistribuzione delle risorse; la questione della lingua ufficiale, ecc.
I federalisti pensarono allora ad un altro percorso, che individuarono proprio nella restrizione delle sovranità nazionali.
[NDR: chi ha letto il mio articolo “Il fine giustifica i mezzi?” può saltare il paragrafo che segue e passare direttamente al paragrafo 3]
- Dall’osservazione degli eventi accaduti nel periodo della guerra di Corea (1950-1953) i federalisti intuirono che una crisi specifica dei poteri nazionali – ovvero l’insorgere di “problemi percepiti socialmente” come non risolvibili “nel quadro nazionale” – potesse costituire un’opportunità “per l’avanzamento del processo di unificazione” europea.
L’illustre federalista pavese Mario Albertini elaborò allora una “strategia” volta a favorire una “crisi specifica dei poteri nazionali” ed a sfruttare l’occasione per completare il “processo di unificazione”: il “gradualismo costituzionale”.
Occorreva in sostanza:
a) creare “un’istituzione democratica europea” (cioè a livello sovranazionale) che fosse in condizione di “rivendicare progressivamente sempre maggiori poteri per sè e per l’Europa”;
b) individuare un settore “decisivo per l’assetto statuale” in cui una limitata cessione di sovranità da parte degli stati:
– li avesse privati dei poteri (connessi a quella porzione di sovranità ceduta) necessari per risolvere una crisi che avesse colpito proprio quel settore;
– avesse palesato, all’emergere della crisi, una contraddizione “tra l’esistenza di tale sovranità europea e l’assenza di una vera politica e di un governo federale” socialmente percepita (stante l’impossibilità di risolvere la crisi in un quadro sovranazionale dai poteri limitati) come necessità di avanzamento verso l’integrazione politica.
Il settore decisivo fu individuato nella sovranità monetaria.
Un’unione monetaria europea presupponeva quel limitato “passaggio di sovranità” a un’istituzione sovranazionale che, da un lato, avrebbe privato gli stati colpiti da una crisi economica della possibilità di reagire con provvedimenti adeguati (a cominciare dalla flessibilità del cambio) e, dall’altro, avrebbe fatto emergere “la contraddizione di una moneta europea in assenza di un’unione politica e di un governo federale europeo”, consistente nella mancanza di un potere politico in grado di gestire e risolvere la crisi finanziando lo stato o gli stati in deficit con il denaro degli stati in surplus.
L’adozione di una moneta unica – e la conseguente fuoriuscita delle determinazioni a questa relative dal monopolio della decisione politica degli stati – era dunque il mezzo decisivo che avrebbe consentito, nella cinica visione federalista, di raggiungere il fine, cioè l’unione politica.
Questa è l’origine del progetto dell’unione monetaria e delle cessioni di sovranità, spiegate con soave candore e stucchevole senso di compiacimento da uno dei suoi più accaniti sostenitori, il prof. Roberto Castaldi, in questo documento: http://www.sisp.it/files/papers/2012/roberto-castaldi-1376.pdf .
Un progetto spregiudicato, figlio dell’idea che il fine giustifichi i mezzi.
Il fine non giustifica mai i mezzi. Una buona intenzione non rende né buono né giusto un comportamento in sé scorretto. Ancor meno se l’intenzione non è affatto buona e se i mezzi producono crisi, i cui “effetti collaterali”, presumibilmente non previsti dai padri federalisti, sono i suicidi, i fallimenti, la povertà diffusa e crescente in larghi strati della popolazione, l’emarginazione sociale.
Peccarono di leggerezza i padri federalisti, non immaginando che da una crisi, da loro ritenuta strategica, potessero derivare così tragiche conseguenze.
- L’obiettivo di fondo del progetto non era però l’unità politica europea. Questa era l’ideologia propagandata, che dissimulava il vero fine: la restaurazione di un sistema di potere. Lo si intuiva dalle stesse finalità della CEE, individuate dal Trattato di Roma del 1957 nelle quattro libertà “fondamentali” del liberismo economico: la libera circolazione delle merci, delle persone, dei servizi e dei capitali. I quattro principi sacri, da sempre, del liberismo, che trovarono immediato compendio nel programma posto a base della UE.
Un certo tipo di capitalismo, quello più sfrenato, fanatico, egoistico, oligarchico ed ultraliberista, che aveva caratterizzato l’Italia prefascista, che era stato l’espressione delle élites capitalistiche e finanziarie dominanti e che si riteneva definitivamente accantonato con l’avvento del costituzionalismo democratico, ovvero con le democrazie sociali del secondo dopoguerra, si stava riorganizzando e stava preparando la sua rivincita, per rigenerarsi, con lo stratagemma del gradualismo, a livello sovranazionale nella futura UE, alla quale gli stati avrebbero gradualmente ceduto specifiche e decisive funzioni sovrane.
Lo confessa papale-papale l’ex garante della Costituzione in una lettera scritta nel 2011 per il settimanale”Reset” (http://www.reset.it/caffe-europa/superare-il-dogma-della-sovranita-nazionale ).
Lo si capisce del resto dalla semplice lettura dei trattati, i cui valori supremi sono i classici valori del liberismo economico: la stabilità dei prezzi, l’istituzionalizzazione del mercato quale spazio aperto senza frontiere, la libera circolazione delle merci, delle persone, dei servizi e dei capitali, la concorrenza (con il suo corredo delle liberalizzazioni, mortale per il lavoro autonomo, e del divieto di aiuti di stato, definiti “incompatibili con il mercato interno” dall’art. 107 TFUE), la demolizione del welfare, la precarizzazione del lavoro e l’elevato tasso di disoccupazione (funzionali al principale obiettivo della stabilità dei prezzi), il divieto di ingerenza dello stato nell’economia, l’indipendenza della banca centrale dal governo, i vincoli di bilancio pubblico.
L’obiettivo era dunque la creazione di un mercato unico senza stati, fortemente concorrenziale, in cui prevale la legge del più forte, l’egoismo individuale, il classismo, lo sfruttamento del lavoro, l’insofferenza ad ogni limite morale.
- Svelata dunque la matrice ideologica delle c.d. cessioni di sovranità (con particolare riferimento ai poteri in materia economica, monetaria e fiscale) nonchè le finalità che esse sottendono, è ora di analizzarne la compatibilità con il dettato costituzionale ed in particolare con i principi fondamentali della Carta, mancando un’esplicita fonte normativa che le consenta.
Detta fonte non può infatti ravvisarsi nell’art. 11 della Costituzione, argomento molto gettonato da giornalisti e politici poco informati o in mala fede, ma assai meno dalla dottrina giuridica (anche quella schierata a favore del c.d. processo di integrazione europea), essendo essa consapevole che la ricerca di quella fonte nell’art. 11 Cost. non è pertinente, poichè la limitazione di sovranità ivi prevista è funzionalmente correlata a finalità di pace e giustizia fra le nazioni assai lontane da quelle, di natura economica, perseguite dai trattati UE.
Conclusione alla quale aggiungiamo che la norma in questione non prevede “cessioni” (cioè trasferimenti a carattere permanente), bensì “limitazioni” (rinunce temporanee e immediatamente riassumibili dal soggetto titolare) di sovranità, purché, oltretutto, ciò avvenga a condizioni di parità con gli altri stati. Circostanza quest’ultima esclusa dalla predominanza tedesca e (in minima parte) francese, nonchè da criteri di convergenza dell’inflazione e di riduzione del deficit irragionevoli sul piano scientifico, la cui applicazione “elastica” (solo per alcuni) ha provocato squilibri e divergenti modalità di attuazione della moneta unica tra i vari stati.
- A differenti conclusioni approda invece la dottrina filo-europeista con riferimento all’art.10 della Costituzione.
Prendendo le mosse dal curioso postulato della <<progressiva messa in crisi delle tradizionali funzioni sovrane degli Stati nel campo della direzione e del controllo dei processi economici>> essa sottolinea l’esigenza di <<assumere a punto di riferimento quel fenomeno sociale omogeneo costituito dall’insieme dei processi di verticalizzazione ed internazionalizzazione delle funzioni politiche>> e ne deduce <<una posizione di supremazia della Comunità internazionale>>. Posizione che diverrebbe <<presupposto per l’attribuzione alla Comunità degli Stati di una vera e propria funzione normativa nel disciplinare, per conto di questi ultimi, specifiche questioni d’interesse generale>>, con conseguente << riconoscimento di fonte di diritto alle disposizioni del Trattato sull’Unione monetaria>> (ora dei Trattati UE).
Tale interpretazione potrebbe <<ritenersi in linea con le indicazioni rivenienti dal disposto dell’art. 10 comma 1 Cost.>>, in base al quale “l’ordinamento italiano si conforma alle norme del diritto internazionale generalmente riconosciute”.
Ciò – si badi bene – ove a tale norma si dia <<una lettura che ne apra i contenuti in vista della valorizzazione dell’ordinamento internazionale>> e che <<non sia circoscritta all’individuazione esclusiva di disposizioni a carattere consuetudinario, bensì estesa a ricomprendere anche le altre regole che possono considerarsi espressione del potere organizzativo della Comunità internazionale, ovviamente prescindendosi dalla natura convenzionale che le medesime presentano>> (F. Capriglione, Moneta, Enc. Diritto, Aggiornamento III, Giuffrè, Milano, 1999, 760).
“Prescindendosi, ovviamente…” (!) E qui casca l’asino, perchè da tale natura non è assolutamente possibile prescindere. È infatti nozione pacifica in dottrina e nella giurisprudenza della Corte Costituzionale che il meccanismo di adattamento automatico previsto dall’articolo 10 Cost. vale limitatamente alle fonti consuetudinarie, cioè a quelle norme di validità generale riconosciute come tali dalla comunità internazionale, rimanendone invece escluso tutto il diritto internazionale pattizio, ovvero quello che sorge da trattati validi solo per gli stati che li hanno stipulati.
La questione fu oggetto di approfondita discussione in Assemblea Costituente, ove venne proposto un emendamento inteso a sopprimere le parole “generalmente riconosciute” dal testo dell’articolo, poichè ritenute inutili.
La commissione tuttavia precisò che si trattava di un’espressione tecnica per indicare il diritto internazionale generale, lasciando ad altri procedimenti l’adattamento del diritto italiano a quello internazionale pattizio. L’emendamento non fu approvato e nella seduta del 24 marzo 1947 l’Assemblea approvò l’attuale testo dell’articolo 10.
D’altra parte l’interpretazione estensiva di una norma inserita tra i principi fondamentali della Costituzione deve ritenersi inammissibile: si risolverebbe infatti in una forma di revisione tacita del principio in essa affermato, pacificamente sottratto al procedimento di revisione in quanto “fondamentale” e, perciò, insuscettibile di modifica (secondo l’insegnamento della Corte Cost.).
- In realtà il diritto internazionale pattizio entra nel nostro ordinamento come fonte secondaria: tra le norme di diritto internazionale generalmente riconosciute opera la consuetudine che impone agli stati di osservare gli accordi liberamente stipulati (pacta sunt servanda). Da questa fonte primaria deriva l’obbligo delle istituzioni di far rispettare i trattati nell’ambito statale.
Ma solo entro determinati limiti.
E qui arriviamo al nocciolo del problema.
Secondo la Corte Costituzionale, i principi fondamentali della Costituzione e i diritti inalienabili della persona (cioè tutte le norme che caratterizzano la nostra Repubblica come uno Stato di diritto, basato su una democrazia del lavoro) costituiscono un “limite all’ingresso […] delle norme internazionali generalmente riconosciute alle quali l’ordinamento giuridico italiano si conforma secondo l’art. 10, primo comma della Costituzione (sentenze n.48 del 1979 e n. 73 del 2001)” ed operano quali “controlimiti all’ingresso delle norme dell’Unione europea (ex plurimis: sentenze n.183 del 1973, n. 170 del 1984, n.232 del 1989, n.168 del 1991, n.284 del 2007) […] Essi rappresentano, in altri termini, gli elementi identificativi ed irrinunciabili dell’ordinamento costituzionale, perciò stesso sottratti anche alla revisione costituzionale (art. 138 e 139 Cost.: così nella sentenza n.1146 del 1988)” (così la recentissima sentenza Corte Cost. n.238 del 22 ottobre 2014).
Le cessioni di sovranità imposte dai trattati UE non dovrebbero cioè “indurre alterazioni dei lineamenti del nostro stato come stato di diritto, democratico e sociale” (Mortati, Istituzioni diritto pubblico, Tomo II, Nona edizione, Padova, 1976, 1501 e ss.). Ne consegue che il trasferimento delle relative competenze ad organi comunitari potrebbe ritenersi ammissibile ove questi ultimi fossero informati ai principi fondamentali della nostra Carta Costituzionale e risultassero soddisfatte le esigenze caratterizzanti il tipo di aggregazione sociale voluta dai padri costituenti.
- L’attenzione cade perciò sui primi quattro articoli della Costituzione e, in particolare, sul principio democratico, su quello di eguaglianza e su quello lavorista.
La forma democratica, com’è noto, è stabilita dall’art. 1 Cost.
La dichiarazione di appartenenza della sovranità al popolo implica la permanenza dell’esercizio di questa nel popolo come contrassegno essenziale ed ineliminabile del regime democratico e significa che l’esercizio dei poteri più elevati, cioè quelli che condizionano la direzione e lo svolgimento degli altri, è attribuito al popolo in modo ineliminabile, sicché questo non possa esserne spogliato nemmeno attraverso procedimenti di revisione costituzionale. Il diritto del popolo di partecipare alle supreme decisioni politiche rientra cioè fra i diritti inalienabili di cui al successivo art.2, restando così sottratto al potere di revisione (Mortati, Op. cit., Tomo I, Decima edizione, Padova, 1991, 153 ss.).
Orbene, nessuno può seriamente dubitare che il potere di assumere tutte le decisioni riguardanti la politica economica, monetaria e fiscale rientri fra quelli più elevati e condizionanti che l’art. 1 Cost. attribuisce al popolo in modo permanente ed ineliminabile.
I trattati UE hanno invece trasferito tale potere (art.li da 119 a 133 TFUE) ad apparati di comando (Consiglio, Commissione Europea e BCE), privi di legittimazione democratica, che sono il braccio dei gruppi finanziari e delle multinazionali economiche che utilizzano il paravento degli stati per legittimarsi nella UE. Apparati che operano, come ci ha candidamente spiegato Mario Monti (Intervista sull’Italia in Europa, 40 e ss.), “al riparo dal processo elettorale” e che pertanto sfuggono completamente al controllo popolare.
Essi hanno istituito un’unione monetaria, adottando una moneta non nazionale, l’euro (art. 3 co. 4 TUE), emessa e controllata (ex art. 127 e ss. TFUE) da un organismo sovranazionale estraneo alla Costituzione.
Hanno poi sottoposto gli stati a vincoli insensati e deleteri di bilancio pubblico (il 3% del deficit : art. 126 TFUE e relativo protocollo; sino addirittura al pareggio di bilancio con il c.d. Fiscal Compact); vincoli che erodono il risparmio privato (secondo una nota relazione di contabilità nazionale), ostacolano gli investimenti che da questo dipendono ed impediscono le politiche sociali che la Costituzione impone alle istituzioni dello stato al fine di realizzare l’eguaglianza sostanziale tra i cittadini (art.3 co. 2° Cost.) e garantire la piena occupazione (art. 1, 4 e 36 Cost.).
Le funzioni sovrane dello stato afferenti alla politica economica, monetaria e fiscale sono state definitivamente cedute a tali apparati, la cui struttura e la cui azione in quei settori si pongono in palese ed insanabile contrasto con il principio democratico di cui all’art. 1 Cost.
Conseguentemente, il popolo italiano non può più scegliere l’indirizzo fiscale, economico e monetario che gli organi elettivi dovrebbero perseguire.
Questi indirizzi fondamentali sono predeterminati senza alcuna partecipazione del popolo sovrano, qualunque sia l’esito delle consultazioni elettorali.
Svuotata da tali contenuti, rimane poco o nulla della sovranità popolare.
Essa, in conclusione, non appartiene più al popolo.
- Ma vi è di più. Le cessioni di sovranità economica, monetaria e fiscale hanno prodotto alterazioni dei lineamenti fondamentali del nostro stato anche come stato sociale.
I valori supremi dei trattati UE, fideisticamente perseguiti dai predetti apparati di comando, si collocano agli antipodi di quella “democrazia sociale” che è “il contenuto coessenziale a qualsiasi regime democratico” (Mortati, Op. cit., Tomo I, Decima edizione, Padova, 1991, 147) e che rappresenta l’ideologia accolta dalla nostra Legge fondamentale.
In quanto valori supremi del liberismo economico (lo si è visto molto bene nel corso di questa giornata di studio), implicano l’attuazione di una politica economica esattamente contrapposta agli obiettivi della piena occupazione (art. 1 e 4 Cost.) e dell’uguaglianza sostanziale (art. 3, comma 2° Cost. ed art.li da 35 a 47 Cost., che ne costituiscono la specificazione) che informano invece il nostro ordinamento costituzionale.
La cessione a quegli apparati di comando delle funzioni sovrane in materia di politica economica, monetaria e fiscale, perfezionatasi con la ratifica dei Trattati UE, ha di fatto comportato la disattivazione dei primi quattro articoli e di tutta la parte “economica” della Costituzione.
Cioè la disattivazione dei principi caratterizzanti il tipo di stato voluto dal popolo italiano.
Non siamo solo di fronte ad una macroscopica alterazione dei lineamenti fondamentali del nostro stato. Si è resa inoperativa la nostra Costituzione ben oltre i limiti di una revisione costituzionale.
Con la progressiva cessione di specifiche funzioni sovrane, un nuovo assetto di potere si è consolidato di fatto ed extraordinem.
Si è trattato di un atto eversivo, di una rivoluzione a tutti gli effetti, attuata senza violenza fisica perchè il popolo italiano, non accorgendosi di nulla, non ha opposto resistenza.
- L’ARS è un’associazione “sovranista”. “Sovranismo” e “sovranista” sono neologismi. Indicano la volontà politica di attuare la controrivoluzione democratica, ovvero di abbattere il mercato unico e riconquistare le funzioni sovrane gradualmente cedute dagli stati agli apparati di comando plutocratici della UE.
Dove c’è la sovranità popolare ci può essere democrazia sociale, che è la forma più compiuta della democrazia.
Se non c’è sovranità, non può esserci democrazia.
Riconquistata la piena sovranità, l’Italia potrà disporre di enormi mezzi per attuare le politiche di piena occupazione, di eguaglianza sostanziale e di protezione sociale, che rappresentano l’obiettivo programmatico dettato dalla Carta costituzionale alle istituzioni dello stato.
Questo è l’obiettivo che l’ARS intende conseguire. Sarà una battaglia lunga e durissima, ma la combatteremo, per il rispetto che dobbiamo al nostro passato e per sperare in un futuro di effettiva democrazia e di diffuso benessere.
(Mario Giambelli – ARS Lombardia)
Spetta.le Ars mi piacerebbe si aprisse un dibattito con autorevoli esponti di diritto internazionale sulla possibilità reale di interpellare anche le nazioni unite e la corte dell Aja affinché si eserciti il diritto all autodeterminazione del popolo contro una moneta non sovrana e che non rappresenta il bene giuridico ed economico della nostra nazione.Ritengo che siamo stati conquistati non con le armi ma attraverso atti cosiddetti di intelligenza che hanno e stanno portando a suolo la nostra economia e di conseguenza anche la nostra politica .Non si possono accettare le ingerenze di stati e organismi sovranazionali sugli affari interni di uno stato Tutto ciò e contro le norme imperative le norme consuetudinarie di diritto interno ed internazionale.Un popolo non può accettarlo ed e giusto che ne sia informato con tutti i mezzi .Gradirei una risposta
Gradirebbe una risposta? Ma lei non ha formulato una domanda!
Lei auspica un dibattito (che ovviamente non ci sarà e che a mio avviso è tanto irrealistico da dover essere definito insensato) e svolge quattro affermazioni “Ritengo…Non si possono… Tutto ciò è contro… Un popolo non può…”.E poi chiede una risposta?
Ottimo lavoro,perseguiamolo insieme.