Lavoro ed eguaglianza nella Costituzione e nei Trattati UE
Questo articolo ripropone, con ampie integrazioni ed approfondimenti, il contenuto della relazione con la quale ho avuto il piacere e l’onore di concludere la prima giornata del seminario di Albino il 24 gennaio scorso.
Devo avvertire che ha un taglio prettamente giuridico-dottrinale (fatta eccezione per le premesse) e che è pertanto abbastanza impegnativo, soprattutto per i non giuristi.
Malgrado ciò, ne consiglio una paziente ed attenta lettura, data l’importanza e l’attualità delle tematiche affrontate.
Prima di entrare nel vivo dell’argomento – e per capire le ragioni in base alle quali ogni italiano ha il diritto ed il dovere morale di rivendicare il primato della Costituzione e di difenderla da ogni tipo di aggressione interna ed esterna – è importante richiamare alla memoria le “caratteristiche genetiche” più autentiche e profonde della nostra Legge fondamentale.
Essa infatti è spirito, è storia, è voce , è testamento.
E’ spirito della Resistenza, ovvero coscienza della dignità nazionale e senso della responsabilità personale, desiderio di rinnovamento assoluto e radicale, di rifiuto del passato, di ricostruire dal basso, con l’impegno personale di tutti, una nuova Italia (su questo argomento, importantissimo, rinvio ad un mio precedente articolo: https://www.appelloalpopolo.it/?p=12990).
E’ storia: è un fatto storico rivoluzionario, segnando esso una svolta epocale nel progresso storico della democrazia, con il passaggio dallo Stato liberale (nel quale si inserisce la tragica parentesi nazi-fascista) allo Stato democratico (Kelsen). Ma è anche la storia del popolo italiano. Nella Costituzione vi sono le nostre radici, tutte le nostre sofferenze, le nostre sciagure, le nostre glorie: da Mazzini a Cavour e a Garibaldi, da Carlo Cattaneo a Cesare Beccaria.
E’ voce degli umili, della gente comune. E’ la voce dei nostri padri, o dei nostri nonni, è la voce del loro impegno, del loro sacrificio in nome di un valore supremo: la solidarietà umana, che è scolpita a caratteri cubitali nella Legge fondamentale della Repubblica.
E’ testamento dei caduti, di tutti i giovani che diedero la vita affinchè le istanze di libertà, di uguaglianza, di giustizia sociale, di protezione dei deboli e dei bisognosi potessero essere solennemente ed immutabilmente consacrate in quella Legge. A chiusura di un memorabile discorso agli studenti milanesi, Piero Calamandrei, il 26 gennaio 1955, li esorta a vedere, dietro ad ogni articolo della Costituzione, giovani come loro, “caduti combattendo, fucilati, impiccati, torturati, morti di fame nei campi di concentramento, morti in Russia, morti in Africa, morti per le strade di Milano, per le strade di Firenze, che hanno dato la vita perchè la libertà e la giustizia potessero essere scritte su questa Carta […]”. E conclude: “se voi volete andare in pellegrinaggio nel luogo dove è nata la nostra Costituzione, andate nelle montagne dove caddero i Partigiani, nelle carceri dove furono imprigionati, nei campi dove furono impiccati. Dovunque è morto un Italiano per riscattare la libertà e la dignità, andate lì, o giovani, col pensiero, perchè lì è nata la nostra Costituzione”.
Per queste profonde ragioni abbiamo il dovere di rispettare e di difendere la Costituzione contro ogni aggressione tendente a neutralizzarne i valori fondamentali.
Ma per farlo dobbiamo prima di tutto conoscerla.
Nel mio articolo del mese scorso ho spiegato, con le parole del più autorevole costituzionalista italiano, il significato del concetto, espresso nell’art. 1 della Costituzione, di “appartenenza” della sovranità al popolo, nel quale si sostanzia il principio democratico (https://www.appelloalpopolo.it/?p=13149 in particolare al paragrafo 7).
Esaminiamo ora altri due principi, altrettanto fondamentali.
- Il principio di uguaglianza.
Come sappiamo, è il principio consacrato nell’art. 3 della Costituzione.
L’eguaglianza formale è sancita dal primo comma, secondo il quale “tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali”.
E’ un principio di diritto comune a tutte le Costituzioni europee.
Importante è il riferimento alla “pari dignità sociale”, che fonda il principio e ne estrinseca le implicazioni, esprimendo il pregio dell’essere umano come tale, a prescindere dalla sua posizione sociale.
Ad integrazione del principio, il secondo comma afferma la c.d. eguaglianza sostanziale.
La norma, giustamente ritenuta la più importante della Costituzione, identifica le finalità sociali che la stessa Costituzione ha assunto a direttive per l’azione del nuovo Stato: “È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese”.
Ne abbiamo già parlato in un precedente articolo (https://www.appelloalpopolo.it/?p=12803 ), ma vale la pena richiamare quanto si è detto.
La norma (il cui testo definitivo è opera di un grande protagonista del 900, l’avvocato Lelio Basso: http://www.leliobasso.it/ ) è in primo luogo polemica verso l’assetto sociale esistente: riconosce infatti che sussistono gli ostacoli di ordine economico e sociale dalla stessa indicati.
Afferma poi implicitamente un secondo concetto: fino a quando questi ostacoli sociali ed economici (la miseria, l’ignoranza, la disoccupazione, gli squilibri e le abissali distanze fra regioni e regioni, fra ceti e ceti) non saranno rimossi, la libertà, l’eguaglianza, la sovranità popolare e quindi la democrazia non potranno dirsi effettivamente realizzate, nonostante le proclamazioni solenni del primo articolo della Costituzione.
La Repubblica ha pertanto il dovere primario e irrinunciabile (“è compito della Repubblica”, afferma inequivocabilmente la norma) di attivarsi con tutte le sue istituzioni per rimuovere quegli ostacoli e trasformare la struttura economico-sociale della società, nel senso di eliminare ogni situazione di privilegio non connessa al lavoro e di elevare la condizione delle categorie sottoprotette, rendendole attive e partecipi all’organizzazione del Paese.
Spiega Costantino Mortati un concetto importantissimo: la nuova forma di Stato che, assumendo il compito di rendere effettiva l’uguaglianza, può definirsi “solidarista” o “sociale”, non è una delle possibili forme di democrazia, ma è la sua forma necessaria. La versione “sociale” dello Stato si identifica con la democrazia in modo esclusivo, perchè non vi è democrazia se non c’è effettiva eguaglianza e quest’ultima richiede una costante e profonda azione in senso solidaristico dello Stato (C. MORTATI, Istituzioni di Diritto Pubblico, Tomo I, Decima edizione, Padova 1991, 147).
Il dovere della Repubblica (quindi dello Stato-apparato) si articola in una serie di disposizioni contenute nella c.d. “Costituzione economica” (Parte I, Titolo III, art.li da 35 a 47), una parte organicamente connessa ai principi fondamentali, che specifica questi ultimi e che propone un programma per realizzare una società che li renda effettivi.
Queste disposizioni si possono articolare in più gruppi:
A) norme limitatrici dell’autonomia dei privati, che hanno lo scopo di evitare lo sfruttamento del lavoro che comprometterebbe la dignità umana: art. 36 (“Il lavoratore ha diritto ad una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia un’esistenza libera e dignitosa. La durata massima della giornata lavorativa è stabilita dalla legge. Il lavoratore ha diritto al riposo settimanale e a ferie annuali retribuite, e non può rinunziarvi”) e art. 37 (“La donna lavoratrice ha gli stessi diritti e, a parità di lavoro, le stesse retribuzioni che spettano al lavoratore. Le condizioni di lavoro devono consentire l’adempimento della sua essenziale funzione familiare e assicurare alla madre e al bambino una speciale adeguata protezione. La legge stabilisce il limite minimo di età per il lavoro salariato. La Repubblica tutela il lavoro dei minori con speciali norme e garantisce ad essi, a parità di lavoro, il diritto alla parità di retribuzione”);
B) norme rivolte al legislatore, che dovrà dare vita ad un sistema di protezione sociale a carico dello Stato in grado di consentire all’uomo concreto di guardare senza timore al suo futuro in ogni situazione in cui si verrà a trovare: art. 38 (“Ogni cittadino inabile al lavoro e sprovvisto dei mezzi necessari per vivere ha diritto al mantenimento e all’assistenza sociale. I lavoratori hanno diritto che siano preveduti ed assicurati mezzi adeguati alle loro esigenze di vita in caso di infortunio, malattia, invalidità e vecchiaia, disoccupazione involontaria. Gli inabili ed i minorati hanno diritto all’educazione e all’avviamento professionale. Ai compiti previsti in questo articolo provvedono organi ed istituti predisposti o integrati dallo Stato. L’assistenza privata è libera”);
C) norme conferitive del diritto all’autotutela di categoria: art. 39 (“L’organizzazione sindacale è libera. Ai sindacati non può essere imposto altro obbligo se non la loro registrazione presso uffici locali o centrali, secondo le norme di legge. È condizione per la registrazione che gli statuti dei sindacati sanciscano un ordinamento interno a base democratica. I sindacati registrati hanno personalità giuridica. Possono, rappresentati unitariamente in proporzione dei loro iscritti, stipulare contratti collettivi di lavoro con efficacia obbligatoria per tutti gli appartenenti alle categorie alle quali il contratto si riferisce”) e art. 40 (“Il diritto di sciopero si esercita nell’ambito delle leggi che lo regolano”).
E’ superfluo ricordare che dette norme, le quali specificano le finalità sociali dello Stato, sono immodificabili alla stessa stregua del principio fondamentale da esse stesse specificato. Non sono dunque soggette a procedimento di revisione costituzionale, nè a disattivazione o ad abrogazione implicita da parte di norme sovranazionali, sia di natura consuetudinaria, sia di natura pattizia (Corte Cost. n. 238/2014).
Per rendere effettiva l’eguaglianza, lo Stato deve rivolgere particolare attenzione al lavoro.
Fondamentale è l’art. 4 Cost. che, nel combinato con l’art. 1, introduce:
2) Il principio lavorista:
“La Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro e promuove le condizioni che rendano effettivo questo diritto. Ogni cittadino ha il dovere di svolgere, secondo le proprie possibilità e la propria scelta, un’attività o una funzione che concorra al progresso materiale o spirituale della società” (art. 4 Cost.).
Il lavoro è un diritto civico (o, più specificamente, sociale) del cittadino, poichè ad esso corrisponde un dovere della Repubblica di “promuovere le condizioni che rendano effettivo questo diritto”.
Ecco dunque richiamata l’eguaglianza sostanziale. Ciò significa che lo Stato-apparato ha l’obbligo di intervenire nell’attività economica e di programmare la propria attività politica emanando, in modo costante e progressivo, leggi aventi l’obiettivo di assicurare la piena occupazione, ovvero la più ampia utilizzazione possibile della forza lavoro, riducendo a livelli fisiologici la disoccupazione (al di sotto del 4%).
E, si badi, non solo sotto l’aspetto della formazione del rapporto, ma anche sotto il profilo del suo mantenimento. Vengono in rilievo, in proposito, le norme già ricordate della c.d. Costituzione economica e venivano in rilievo anche quelle del codice civile (art. 2096 – 2125) e dello Statuto dei lavoratori, prima che la legislazione italiana del lavoro fosse annientata e riscritta dal diritto dell’Unione.
Il modello sociale prescelto dai Padri Costituenti è dunque caratterizzato in senso programmatico dalla piena occupazione.
L’assoluta preminenza del lavoro, rispetto ad altri valori (in particolare la proprietà privata) ritenuti più importanti dai precedenti ordinamenti, si spiega con il fatto che ad esso si ricollega il valore sociale dell’uomo, rapportato alle sue attitudini e capacità, non più ai privilegi di casta.
Per questo il lavoro è anche un dovere (art. 4, secondo comma, Cost.). Un dovere giuridico, in quanto, pur essendo sprovvisto di sanzioni dirette ed idonee ad assicurarne l’attuazione coattiva, ne trova una indiretta nella prima parte dell’art. 38 Cost., laddove tale norma attribuisce il diritto all’assistenza dello stato solo agli inabili al lavoro, escludendolo, di riflesso, per tutti coloro che non siano in una situazione di incapacità lavorativa (quantunque sforniti di mezzi di sussistenza).
Il lavoro è garanzia di libertà dal bisogno, quindi è garanzia di sicurezza sociale. E’ funzione collettiva, perchè assicura “il pieno sviluppo della persona umana” e la sua partecipazione effettiva all’organizzazione politica, economica e sociale dello Stato (ecco la saldatura al principio di eguaglianza sostanziale).
In una parola, il lavoro è democrazia effettiva.
Per questo l’art. 1 Cost. eleva il lavoro a fondamento della Repubblica democratica.
Vediamo ora che considerazione hanno l’uguaglianza e l’occupazione nel diritto della UE.
Cominciamo dall’occupazione e diciamo subito che nei trattati non esiste nemmeno una norma che sia pur lontanamente paragonabile all’art. 4 della nostra Costituzione. Non v’è accenno a un diritto al lavoro, nè tantomeno ad un corrispondente obbligo dell’Unione.
Solo nella Carta dei diritti fondamentali della UE si dice qualcosa.
La Carta “ha lo stesso valore giuridico dei trattati”, ma non estende in alcun modo le competenze dell’Unione definite nei trattati (art. 6 TUE). In sostanza, la UE non si occupa (e nemmeno si preoccupa) di diritti fondamentali.
Tra i diritti di libertà troviamo all’art. 15 (intitolato “Libertà professionale e diritto di lavorare”): “Ogni persona ha il diritto di lavorare e di esercitare una professione liberamente scelta o accettata. Ogni cittadino dell’Unione ha la libertà di cercare un lavoro, di lavorare, di stabilirsi o di prestare servizi in qualunque Stato membro […]”.
Scopriamo così che abbiamo il diritto di lavorare.
E’ casuale la collocazione del diritto di lavorare fra le libertà? Assolutamente no. Toglie ogni dubbio sull’interpretazione della pseudo-norma: il diritto di lavorare è, in realtà, libertà di lavorare.
Per chi ha imparato a conoscere il diritto della UE non è certo una sorpresa, ma di sicuro è una barzelletta.
Nel titolo IV (“Solidarietà”) si riconosce il diritto dei lavoratori all’informazione e alla consultazione nell’ambito dell’impresa (art. 27); il diritto dei lavoratori e dei datori di lavoro alla negoziazione per concludere contratti collettivi, nonchè di azioni collettive per la difesa dei loro interessi, “compreso lo sciopero” (art.28); il diritto a condizioni di lavoro “giuste ed eque”, ad una “limitazione della durata massima del lavoro”, a “periodi di riposo giornalieri e settimanali”, a “ferie annuali retribuite” (art. 31). Si vieta il lavoro minorile e si afferma che i giovani ammessi al lavoro “devono essere protetti contro lo sfruttamento economico” e contro ogni lavoro non adatto alla loro sicurezza, alla salute e al loro sviluppo (art. 32). Si prevede il diritto di essere tutelati “contro il licenziamento per un motivo legato alla maternità” ed il diritto “a un congedo di maternità retribuito e a un congedo parentale dopo la nascita o l’adozione di un figlio” (art. 33). L’art. 30 prevede inoltre il diritto di ogni lavoratore “alla tutela contro ogni licenziamento ingiustificato”. Peccato che la norma, da un lato, non specifichi come dev’essere la “tutela”, guardandosene bene dal prevederne una “reale” (reintegro nel posto di lavoro) e, dall’altro, rimetta la tutela stessa “alle legislazioni e prassi nazionali”. Abbiamo purtroppo visto quale fine abbiano fatto le “tutele” dei lavoratori contro il licenziamento con le c.d. “riforme” del mercato del lavoro, peraltro imposteci dagli apparati di comando della UE. Lo stesso discorso vale per le prestazioni di sicurezza e protezione sociale, pure affidate “alle legislazioni e prassi nazionali” (art. 34).
Non c’è infine nulla che in qualche modo corrisponda all’art. 36 della nostra Costituzione.
Nell’art. 3 comma 3° TUE si accenna invece alla piena occupazione: “L’Unione instaura un mercato interno. Si adopera per lo sviluppo sostenibile dell’Europa, basato su una crescita economica equilibrata e sulla stabilità dei prezzi, su un’economia sociale di mercato fortemente competitiva, che mira alla piena occupazione e al progresso sociale, e su un elevato livello di tutela e di miglioramento della qualità dell’ambiente. Essa promuove il progresso scientifico e tecnologico”.
Tutto bene dunque? Calma, cerchiamo di capire. Notiamo in primo luogo la differente terminologia usata per esprimere concetti fra loro antitetici (e, quindi, incompatibili): “instaura” e “si adopera” quando sono in gioco il “mercato” e la “stabilità dei prezzi”; “mira” quando si accenna alla “piena occupazione”.
A nessuno può sfuggire che le azioni di “instaurare” e di “adoperarsi” abbiano una valenza, quella di “mirare” un’altra, assai meno cogente.
Andiamo avanti e vediamo cosa prevede in proposito il TFUE.
Art. 5 comma 2°: “L’Unione prende misure per assicurare il coordinamento delle politiche occupazionali degli Stati membri, in particolare definendo gli orientamenti per dette politiche”.
Art. 9 : “Nella definizione e nell’attuazione delle sue politiche e azioni, l’Unione tiene conto delle esigenze connesse con la promozione di un elevato livello di occupazione […]”.
Anche qui si dice dunque che l’UE, nel definire le sue politiche – che, per ciò che concerne l’ambito monetario, hanno come obiettivo principale quello di mantenere la stabilità dei prezzi (art. 119 comma 2° e 3° e 127 ) – “terrà conto delle esigenze connesse con la promozione di un elevato livello di occupazione”.
Non ci siamo, l’enunciato è ancora troppo generico. Proseguiamo.
Art. 145, sotto il titolo “Occupazione”: “Gli Stati membri e l’Unione, in base al presente titolo, si adoperano per sviluppare una strategia coordinata a favore dell’occupazione, e in particolare a favore della promozione di una forza lavoro competente, qualificata, adattabile e di mercati del lavoro in grado di rispondere ai mutamenti economici, al fine di realizzare gli obiettivi di cui all’articolo 3 del trattato sull’Unione europea”.
Bene, ora sappiamo che la UE “si adopera” per “sviluppare una strategia coordinata a favore dell’occupazione” al fine di realizzare gli obiettivi di cui all’art. 3 TUE (cioè la “stabilità dei prezzi” e un mercato interno “fortemente competitivo” che mira alla “piena occupazione”).
Chiaro, no?
Nooo?
Nessun problema: i Trattati sono stati scritti per non essere capiti (Giuliano Amato docet)
Andiamo avanti.
Art. 146 : “Gli Stati membri, attraverso le loro politiche in materia di occupazione, contribuiscono al raggiungimento degli obiettivi di cui all’articolo 145 in modo coerente con gli indirizzi di massima per le politiche economiche degli Stati membri e dell’Unione adottati a norma dell’articolo 121, paragrafo 2. Gli Stati membri, tenuto conto delle prassi nazionali in materia di responsabilità delle parti sociali, considerano la promozione dell’occupazione una questione di interesse comune e coordinano in sede di Consiglio le loro azioni al riguardo, in base alle disposizioni dell’articolo 148”.
Art. 147: “L’Unione contribuisce ad un elevato livello di occupazione promuovendo la cooperazione tra gli Stati membri nonché sostenendone e, se necessario, integrandone l’azione. Sono in questo contesto rispettate le competenze degli Stati membri. Nella definizione e nell’attuazione delle politiche e delle attività dell’Unione si tiene conto dell’obiettivo di un livello di occupazione elevato”.
Art. 148 comma 2°: “Sulla base delle conclusioni del Consiglio europeo, il Consiglio, su proposta della Commissione […] elabora annualmente degli orientamenti di cui devono tener conto gli Stati membri nelle rispettive politiche in materia di occupazione. Tali orientamenti sono coerenti con gli indirizzi di massima adottati a norma dell’articolo 121, paragrafo 2”.
Dunque, riassumendo: la UE “contribuisce ad un elevato livello di occupazione” “promuovendo la cooperazione tra gli Stati membri”. Quindi “si adopera” per “sviluppare una strategia coordinata con gli Stati membri a favore dell’occupazione” (art. 145), “promuovendo la cooperazione tra gli Stati membri” (art.147), i quali contribuiscono a tutto ciò “in modo coerente con gli indirizzi di massima per le politiche economiche degli Stati membri e dell’Unione adottati a norma dell’articolo 121, paragrafo 2” (art. 146 e 148 comma 2°).
Mal di testa? Sarebbe strano non averlo.
Allora: “gli indirizzi di massima … adottati a norma dell’art. 121 paragrafo 2” sono quelli che gli Stati ricevono dal Consiglio, su raccomandazione della Commissione, per attuare le loro politiche economiche e che hanno per obiettivi quelli definiti dall’art. 3 TUE, cioè la “stabilità dei prezzi” e un mercato interno “fortemente competitivo” che mira alla “piena occupazione”.
Siamo d’accapo…
Ancora un attimo di pazienza e ci siamo.
Leggiamo l’art 151 sotto il titolo “Politica sociale” (N.B.: “Politica sociale” !?!): “L’Unione e gli Stati membri […] hanno come obiettivi la promozione dell’occupazione […] una protezione sociale adeguata, il dialogo sociale, lo sviluppo delle risorse umane atto a consentire un livello occupazionale elevato e duraturo […]. A tal fine, l’Unione e gli Stati membri mettono in atto misure che tengono conto della diversità delle prassi nazionali, in particolare nelle relazioni contrattuali, e della necessità di mantenere la competitività dell’economia dell’Unione. Essi ritengono che una tale evoluzione risulterà sia dal funzionamento del mercato interno, che favorirà l’armonizzarsi dei sistemi socialisia […]”.
Bingo!
L’Unione e gli Stati “ritengono” che il libero funzionamento del mercato interno, basato su un’economia fortemente competitiva, favorirà “un livello occupazionale elevato e duraturo”.
Finalmente la UE getta la maschera. Sposa pienamente l’impostazione liberista neoclassica secondo la quale un sistema ipercompetitivo porta automaticamente ad elevati livelli occupazionali.
La “piena occupazione” dei Trattati UE è dunque un concetto diametralmente opposto a quello della nostra Costituzione.
E’ cioè il (teorico) risultato di riequilibrio naturale che si otterrebbe lasciando agire liberamente la legge della domanda e dell’offerta sul mercato del lavoro.
Il lavoro viene cioè considerato come una merce. Se costa troppo, non incontra la domanda e la disoccupazione aumenta. Se il lavoratore non ha troppe pretese sotto il profilo retributivo e delle garanzie, incontra la domanda e lavora.
Lo stesso ragionamento vale per il lavoro autonomo.
Riducendo le pretese, in questo mondo (asseritamente) ideale, alla lunga tutti lavoreranno.
L’esperienza empirica di un secolo ha dimostrato che avviene esattamente il contrario: l’ipercompetitività e la stabilità dei prezzi producono disoccupazione, essendo questa strumentale all’obiettivo della stabilità stessa.
Ecco perciò spiegate tutte le tappe della progressiva distruzione del diritto nazionale del lavoro, dalla riforma Treu del 1997 (“lavoro interinale”, ora somministrazione di lavoro), sino al “Jobs Act” renziano.
L’inconciliabile contrasto con il fondamentale principio lavorista della nostra Costituzione è a dir poco conclamato.
Veniamo infine all’uguaglianza.
Nei trattati vi è solo un accenno, come al solito vago e indefinito.
Nessuna enunciazione di un principio, solo l’affermazione che la UE si fonda su alcuni valori comuni agli Stati membri, fra i quali l’uguaglianza (art. 2 TUE), o che la stessa Unione “nelle sue azioni” “mira ad eliminare le ineguaglianze” (art. 8 TFUE) o a “combattere le discriminazioni … ecc.” (art. 9 TFUE).
Il verbo utilizzato è lo stesso che l’art. 3 TUE riferisce alla “piena occupazione”: “mira”. E la sua valenza è analoga: l’uguaglianza rimane affidata al libero gioco del mercato.
Solo nella Carta dei diritti fondamentali della UE si trova enunciato il principio di eguaglianza formale, senza peraltro alcun accenno alla pari dignità sociale (art. 20 e ss).
Nell’art. 20 delle “spiegazioni” della Carta (notare che una Carta dei diritti fondamentali necessita di una spiegazione, come se la nostra Costituzione, composta da 139 articoli, avesse bisogno di altri 139 articoli di “spiegazioni”…) si dice che l’art. 20 della Carta “corrisponde al principio generale di diritto che figura in tutte le Costituzioni europee”. Ma questo già lo sapevamo, senza la necessità di spiegazioni.
Non vi è altro. L’eguaglianza sostanziale, ovvero effettiva, dei cittadini non pare interessare alla UE, che anzi respinge l’idea di un qualsiasi intervento in senso solidaristico della stessa Unione o degli Stati che risponda ai fini indicati dal secondo comma dell’art. 3 della nostra Costituzione.
Gli obiettivi della UE sono del tutto opposti: la piena restaurazione di un modello sociale classista nel quale la redistribuzione della ricchezza è fortemente sbilanciata a favore del grande capitale economico-finanziario ed il potere è riservato e saldamente detenuto da una ristretta cerchia di “eletti” che decide della vita di tutti perseguendo gli interessi di pochi, mediante apparati di comando messi prudentemente “al riparo dal processo elettorale” (Mario Monti, Intervista sull’Italia in Europa, 40 e ss.).
Nella fattoria degli animali della UE “tutti gli animali sono uguali, ma alcuni sono più uguali degli altri” (Orwell, La fattoria degli animali).
Mario Giambelli (ARS Lombardia)
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