Imboccare il bivio con coraggio
di Alessandro Bolzonello
La venuta al mondo di mio figlio, l’ultimo di quattro, è stata traumatica. Attraversare la nascita è stato dirompente: in un brevissimo lasso di tempo ho dovuto ‘imboccare molteplici bivi’. Tale vissuto è stato disarmante, assorbente, sfinente.
Ho la netta sensazione che la condizione di quarantenne abbia amplificato tale esperienza. All’entusiasmo è subentrata la pesantezza, all’adrenalina la paura, alla disinvoltura la cognizione di causa, insomma l’incoscienza delle cose è stata spazzata via dalla consapevolezza della realtà, travolgendomi.
Disarmante è stata soprattutto la posizione dell’essere al bivio: normalità-anomalia, sicurezza-pericolo, vita-morte. E stare al bivio, benché condizione costitutiva del reale, è difficile, porta con sé un carico emotivo forte e potente.
Stare al bivio è la condizione che contraddistingue il nostro tempo.
La fragilità, la debolezza, la parzialità prorompono nella realtà sollecitando e rompendo la presunta stabilità e la fittizia continuità fatte di idee, presupposti e convinzioni. Il ‘bivio’ smobilita l’accomodamento, svela il limite. Stare al bivio, insomma, porta con sé il riconoscimento e l’accettazione della condizione di rischio.
L’illusione dell’eliminazione del rischio è compromessa. Le strategie orientate alla prevenzione (analisi e gestione del rischio) ovvero alla riduzione del danno (sottoscrizione di premi assicurativi) risultano inadeguate, assumono la valenza di mero palliativo di fronte all’irrompere della realtà: utili nei confronti di specifiche istanze, ma insufficienti a rispondere ai bisogni del vivere.
Non si può prescindere dalla condizione di rischio, abitarla diventa necessario, ineliminabile, improrogabile.
Di fronte allo sbattere in faccia di ciò, non resta che mettere in campo tutto il coraggio possibile, tutta la ‘forza d’animo che fa che l’uomo non si sbigottisca nel pericolo, o affronti consideratamente rischi’, ovvero – utilizzando le parole del poeta inglese John Keats– tutta la capacità del saper ‘stare nelle incertezze, nei misteri, nei dubbi, senza essere impaziente di pervenire a fatti e a ragioni’.
Solo intraprendendo questo percorso si può coltivare la speranza di futuro.
Pubblicato su Invito a …
Foto: Courage | Bolness | Rebellion
La speranza di futuro la coltiverà chi saprà stare nell'incertezza ed affronterà il pericolo, ma coll'impazienza o quantomeno la ferma risolutezza di pervenire ai fatti e alle ragioni (tutte ugualmente improprie ed arbitrarie) che saranno in grado di fondare una rinnovata convivenza: uno stato di normalità, un nuovo spazio pacificato grazie al pugno d'acciaio d'un nuovo Principe e alle virtù ricomprensive di una nuova religiosità plebea.
Gli spunti kierkegaardiani sul valore del limite come punto di osservazione privilegiato della realtà e trampolino per un eventuale salto nel buio, trasposti in termini politici, approdano a un paradigma organico-vitalista che scorge nello stato di eccezione (e nel risultante conflitto) la cerniera fra parabole di civiltà. Al tramontare dell'una (nel nostro caso quella del capitalismo selvaggio anglosassone e del suo braccio armato, l'impero statunitense) corrisponderà l'articolarsi di una nuova, tramite un greve travaglio rifondativo. "Il rimedio del disordine sarà il dolore".
E' qui che la figura romantica del genio creativo si sostanzia in quella di Fuehrer predestinato: l'individuo d'eccezione, "abitando il pericolo", si proietta "oltre la linea" (Jünger) del nichilismo, quella oltrepassata la quale l’angoscia diviene motore d’un processo di autotrascendenza tale da scavalcare la mediazione del mondo visibile. Ma ciò non ha luogo in chiave solipsistica, sì allo scopo di legiferare sul cammino che consentirà di superare la crisi edificando il corpo mistico del Cristo (o di altro portato sovraordinato) nella visibilità dell’icona comunitaria, traghettando (il Duce veniva definito "l’accorto timoniere" dalla propaganda fascista) il Volk in direzione delle "coste del futuro".
Una luce, allora, "cade sui tratti umani dell’eroe mitico […]. Quella luce che dal punto di vista della storia delle religioni si potrebbe chiamare lo splendore divino” (Kerenyi, Die Heroen der Griechen).
Mi scuso per la dissertazione alquanto fuori luogo… ma i post di Alessandro mi stimolano, piano piano fa diventare cristianuccio anche me :o)