Il lavoro che dovrebbe essere
Avendo cominciato il primo maggio, festa del lavoro rarefatto e “adattabile” (art. 145 TFUE), a scrivere questo articolo, ho immaginato di dare ad essa un senso – forse l’unico ancora possibile – parlando di un lavoro in passato mai esistito nella sua pienezza e che di certo non esisterà in un futuro prossimo, ma alla cui realizzazione noi sovranisti, estremo baluardo difensivo dei valori costituzionali, non dovremmo mai smettere di tendere.
È il lavoro che rappresenta lo spirito informatore della nostra Costituzione.
È il lavoro a cui i padri costituenti avevano assegnato il compito di attuare il nuovo Stato descritto nel secondo comma dell’articolo 3 della Carta fondamentale (cioè lo Stato democratico e sociale, della eguaglianza sostanziale, del pieno sviluppo della persona umana, dell’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese) e che la UE ha espunto dal novero dei diritti, relegandolo fra le libertà (la libertà di lavorare: art.15 della Carta dei diritti fondamentali della UE) e degradandolo a merce.
È, in altri termini, il lavoro che dovrebbe essere.
Un’utopia, come ammoniscono i patetici espertoni che, nonostante il loro “sapere”, ignorano che utopia significa proprio lottare per tutto ciò che non è, ma che dovrebbe essere.
Di esso abbiamo già discusso qui (https://www.appelloalpopolo.it/?p=13343) e qui (https://www.appelloalpopolo.it/wp-content/uploads/2015/01/Il-bigino-del-perfetto-guastafeste.pdf), ma, in questo tragico momento in cui le istituzioni dello Stato, tradendo miserabilmente lo spirito informatore della Costituzione, hanno precarizzato il lavoro (e, quindi, la democrazia) per adattarlo alle esigenze di un “mercato fortemente competitivo” (art. 3, comma 3°, TUE) e per conseguire l’obiettivo della “stabilità dei prezzi” (art. 3, comma 3°, TUE; art.li 119, commi 2° e 3°, e 127 TFUE), è necessario contrapporre a tali non-valori la direttiva costituzionale del lavoro, sviscerandone il suo profondo significato e lottando in ogni modo, con la forza di chi è nel giusto, per vederla riaffermare non solo nella costituzione formale, ma anche in quella materiale.
- Il lavoro come principio costitutivo della forma di Stato voluta dal Popolo italiano.
Abbiamo visto in questo precedente articolo (https://www.appelloalpopolo.it/?p=12990) che l’idea di una nuova Italia del domani come Stato sociale, in netta contrapposizione allo Stato liberale prefascista, è il filo conduttore che lega lo spirito della resistenza ai principi fondamentali della Costituzione del 1948.
L’esigenza di un rinnovamento assoluto e radicale, di raggiungere un assetto sociale che consentisse un benessere diffuso ed il pieno sviluppo della persona umana, nasce dalla constatazione di un evidente fenomeno dissociativo della compagine sociale: larghi strati della popolazione avevano infatti maturato la consapevolezza che i loro interessi divergevano nettamente da quelli dei ceti privilegiati e che la posizione di questi ultimi non era più giustificabile alla luce della rinnovata coscienza collettiva.
Di questo fenomeno la Costituzione prendeva atto, indicando al tempo stesso nei valori del lavoro la direttiva che ne avrebbe consentito il superamento.
L’assoluta preminenza del lavoro, rispetto ad altri valori (in particolare la proprietà privata) ritenuti più importanti dai precedenti ordinamenti, si spiega con il fatto che ad esso veniva ricollegato il valore sociale dell’uomo, rapportato alle sue attitudini e capacità, non più ai privilegi di casta.
Il lavoro, nella Costituzione della Repubblica italiana, assumeva dunque una funzione collettiva: era il mezzo necessario per assicurare “il pieno sviluppo della persona umana” e la sua partecipazione effettiva all’organizzazione politica, economica e sociale dello Stato.
Fondare la nuova Italia sul lavoro voleva perciò significare due cose:
– escludere che altri valori, come ad esempio la proprietà privata dei beni produttivi, ritenuti dominanti dalle costituzioni ottocentesche, potessero caratterizzare il modello sociale del nuovo tipo di Stato;
– individuare nella piena occupazione, e quindi negli interventi di natura pubblicistica ad essa finalizzati, il mezzo per rendere effettiva l’uguaglianza (art. 3, comma II, Cost.) e, con essa, la democrazia.
Il lavoro, in altre parole, era la democrazia e per questo il primo articolo della nuova Costituzione lo elevava a fondamento della Repubblica democratica italiana, caratterizzando il tipo di Stato a cui la stessa Costituzione, entrando in vigore, dava vita.
- Il concetto di lavoro assunto a fondamento della Repubblica democratica italiana.
Nel testo originario della Costituzione l’espressione “lavoro” assume una pluralità di significati.
Il primo, generalissimo, è quello che risulta dall’art. 4, comma II, e che identifica il lavoro con ogni “attività o funzione che concorra al progresso materiale o spirituale della società“.
Vi sono poi le attività produttive che possono svolgersi come lavoro libero, artigianale (art. 45, comma II) o professionale (art. 33, comma V, e art. 120 comma III, testo orig.), oppure come lavoro dipendente, salariato (il “lavoratore” in senso stretto, di cui all’articolo 3, comma II) o stipendiato (l’impiegato, art. 120 comma III, testo orig.).
Il “lavoro” assunto a fondamento della Repubblica democratica italiana è senza alcun dubbio quello considerato nell’art. 4, comma II: “se il lavoro è titolo di merito dell’uomo nella società e perciò stesso appare doveroso, e se d’altra parte tale dovere si assolve con l’esercizio di ogni attività ritenuta utile per la collettività, ne discende che in questa attività comunque svolta e negli esercenti della medesima è da rinvenire il fondamento sociologico dello Stato” (C. Mortati, Il lavoro nella Costituzione, in Il diritto del lavoro, 1954, I, pp. 149-212).
Si può quindi affermare che la Costituzione, lungi dall’aver dato vita ad uno stato classista, tende invece al superamento della situazione di fatto nella quale prende vita, caratterizzata proprio dall’esistenza di classi sociali diverse e divise da interessi contrapposti. E ciò in un duplice senso:
– escludendo che la diversità del lavoro prestato – pur potendo giustificare un differente trattamento economico in relazione al rendimento sociale del medesimo lavoro – possa costituire il pretesto per consentire una retribuzione insufficiente ad assicurare al lavoratore ed alla sua famiglia “un’esistenza libera e dignitosa” (art. 36), o tollerare vantaggi che stridono con il senso di giustizia avvertito dalla coscienza sociale;
– svincolando la “pari dignità sociale“, di cui al primo comma dell’articolo 3, dal tipo di lavoro esercitato, pretendendo invece che l’uomo sia socialmente apprezzato in quanto tale, a prescindere dall’attività concretamente svolta, purché svolta. E in quest’ultimo senso si è già visto (https://www.appelloalpopolo.it/?p=13343) che il lavoro non è solo un diritto, ma è anche un preciso dovere giuridico (art. 4, comma II, Cost.).
- Il diritto al lavoro e il suo rilievo giuridico.
Il lavoro assunto a fondamento della Repubblica democratica italiana è un diritto che l’art. 4 della Costituzione riconosce a tutti i cittadini.
Il diritto è inserito fra i principi fondamentali, cioè fra quelli che caratterizzano il tipo di Stato prescelto dal Popolo italiano ed al quale la Costituzione ha dato vita (N.B.: Lo Stato sorge nel momento in cui si dà una Costituzione, che conferisce al primo il suo assetto fondamentale. È perciò corretto affermare che uno Stato non “ha una Costituzione“, ma “è Costituzione“, esiste allorché diventa operante la sua Costituzione).
A tale diritto corrisponde un dovere preciso della Repubblica di “promuovere le condizioni che rendano effettivo questo diritto” (art. 4).
Il diritto ed il corrispondente dovere di cui all’articolo 4 Cost. non possono ovviamente intendersi come una pretesa di assunzione ad un posto di lavoro direttamente azionabile dal lavoratore (titolare del diritto) nei confronti di un singolo datore di lavoro. L’art. 4, infatti, non designa i singoli soggetti tenuti a soddisfare la richiesta di lavoro.
Ciò tuttavia non significa che dal medesimo articolo non derivino pretese azionabili nei confronti di soggetti, pubblici o privati, detentori dei beni di produzione.
Pretese che possono consistere nella creazione delle condizioni idonee a far sorgere occasioni di lavoro (od a mantenere le condizioni preesistenti), o nell’imposizione dell’obbligo di assumere a singoli datori, o nella previsione del trattamento finalizzato a compensare il mancato conseguimento di un posto di lavoro.
Come spiega Mortati nel suo saggio precitato, il contenuto di tali pretese viene specificato da alcune norme situate in altre parti della Costituzione, “rispetto alle quali l’art. 4 assume la funzione di criterio generale direttivo ed interpretativo“.
Dette norme attribuiscono giuridicità attuale all’articolo 4, che in esse si completa.
Esse enunciano direttive finalizzate a conseguire l’effettività del diritto al lavoro, come quelle che limitano l’esercizio dell’iniziativa economica privata (art.li 41 e 43) o il godimento della proprietà privata (art.li 42 e 44), o che tendono ad assicurare mezzi adeguati di vita a chi non può ottenere lavoro (art. 38).
A sua volta, l’art. 4, da un lato, indica il criterio (“promuove le condizioni che rendano effettivo” il diritto al lavoro) per interpretare i concetti di “utilità sociale”, “fini sociali”, “funzione sociale” (contenuti nelle precitate norme): fra i vari fini rivolti all’utilità sociale, vanno sempre ritenuti prioritari quelli dell’occupazione. Dall’altro, individua quale debba essere e quale finalità debba avere il trattamento previsto per alcune situazioni in cui il lavoratore può trovarsi in determinati momenti della vita, come nel caso di infortunio, malattia, invalidità e disoccupazione involontaria (art. 38, comma II), o per certe condizioni personali (art. 38, comma III).
L’art. 4 fa dunque sorgere obblighi (e, quindi, pretese ai relativi comportamenti) a carico dello Stato e in particolare:
a) a carico del legislatore:
– obblighi di non abrogare norme già esistenti e dirette a favorire le occasioni di lavoro, senza sostituirle con altre a ciò finalizzate;
– obblighi di indirizzare gli interventi nell’attività economica, previsti e prescritti dalla Costituzione, al fine di realizzare la piena occupazione, ovvero la più ampia utilizzazione possibile della forza-lavoro, riducendo a livelli fisiologici la disoccupazione;
b) a carico dell’amministrazione:
– obbligo di non ostacolare, ma di favorire la piena occupazione nell’esercizio dei poteri ad essa conferiti;
c) a carico dei giudici:
– obbligo di interpretare le norme di cui si invoca l’applicazione in modo di soddisfare la pretesa al lavoro, ovvero di dare prevalenza, fra gli interessi in conflitto, a quelli riguardanti l’esigenza di lavoro (sempre che, ovviamente, non vi si opponga la lettera della norma);
– obbligo di sollevare questioni di legittimità costituzionale sulle norme in radicale contrasto con i principi costituzionali diretti all’occupazione (è questo un punto assai delicato, che sarebbe interessante approfondire, ma ce ne occuperemo eventualmente in un prossimo articolo).
L’art. 4, inoltre, fa sorgere obblighi anche a carico di altri privati, i quali, nell’ambito delle loro iniziative economiche e produttive non possono utilizzare in modo arbitrario la libertà e l’autonomia loro concessa dalla Costituzione, ma devono conformare le iniziative stesse al fine dell’utilità sociale (attribuendo cioè priorità all’occupazione, nel duplice senso di offrire occupazione e di non fare venir meno quella già in atto, salvo ragioni obiettivamente apprezzabili).
Nel collegamento sistematico fra l’art. 4 e gli articoli sopra citati, contenuti nella parte c.d. “economica” (Parte Prima, Titolo III) della Costituzione, va dunque apprezzato il rilievo giuridico del diritto al lavoro. Esso esprime l’interesse politico che l’Assemblea Costituente ritenne di far prevalere su ogni altro, ovvero quello di realizzare un ordine sociale basato sul lavoro: in altri termini una democrazia del lavoro.
4) La politica dell’occupazione e l’esigenza della programmazione.
A tal fine assume precipua importanza la politica dell’occupazione, che riveste un ruolo predominante nella politica generale dello Stato.
Nella folle illusione (o criminale visione, ove si dubiti della buona fede) liberista, l’espansione del profitto comporterebbe una sua automatica ridistribuzione grazie ad una “mano invisibile” che provvederebbe ad accrescere il benessere generale, quale ricaduta collettiva dell’egoismo individuale. “Il benessere generale lo si ottiene cercando il massimo del proprio interesse […] Facendo l’altruista, in generale, contribuisci meno al benessere della società che se fai il tuo interesse”. Sono queste le peerle di saggezza dispensate da una frequentatrice pentita di una sezione del Partito Comunista Italiano, tornata “cambiata” e “più liberal” da una lunga esperienza di vita negli USA: Fiorella Kostoris, ex moglie del teorico della (altrui) “durezza del vivere”, Tommaso Padoa Schioppa (http://interviste.sabellifioretti.it/?p=650 ).
Fesserie (peraltro produttive di tragici effetti), dimostrate tali da oltre un secolo di evidenze empiriche.
La nuova figura di Stato che prende vita dalla Costituzione del 1948, che assume il lavoro a suo fondamento e colloca il relativo diritto fra i principi fondamentali, non affida più all’automatismo liberale, al gioco spontaneo delle forze economiche (dimostratosi fallimentare, illusorio ed assolutamente incapace di assicurare la diffusione del benessere alle classi subalterne), la realizzazione dei principi e dei valori sanciti nella sua Carta fondamentale, ma l’affida ad un programma (“perchè l’attività economica pubblica e privata possa essere indirizzata e coordinata a fini sociali”: art. 41 comma 3° Cost.), la cui parte più importante è la politica dell’occupazione (proprio perchè, come si è detto sopra, fra i vari fini rivolti all’utilità sociale, vanno sempre ritenuti prioritari quelli dell’occupazione).
Il risultato di tale politica è però strettamente connesso alla coordinazione di tutta l’attività economica pubblica e privata.
L’obiettivo di assicurare la piena occupazione sarebbe infatti difficilmente conseguibile se la programmazione e gli interventi dello Stato non comprendessero tutte le fasi del ciclo economico, “rivolgendosi contemporaneamente:
– alla raccolta dei dati necessari ad acquisire un’esatta e completa informazione della situazione delle varie imprese, delle loro iniziative e piani di produzione per tutto il periodo di tempo entro cui si estende il programma degli interventi statali;
– alla predisposizione delle misure, dirette ed indirette, più idonee a promuovere ed agevolare le imprese che diano assicurazione di massima produttività e di massimo assorbimento di lavoro in relazione alla situazione del mercato interno ed internazionale;
– alla formulazione di un piano di investimenti statali nelle attività produttive controllate dallo Stato e nei lavori pubblici, sempre ispirato al criterio della più efficiente produttività e suscettibile di operare al momento opportuno, e nelle località ove più preoccupante si manifesti lo squilibrio fra domanda ed offerta di mano d’opera, nel modo più idoneo e rapido ad assorbire la disoccupazione;
– alla politica del credito rivolta a stimolare la formazione e raccolta del risparmio onde indirizzarlo verso gli investimenti atti a suscitare le più estese occasioni di lavoro;
– alla predisposizione di mezzi (di informazione, di istruzione, di stimolo), anche attraverso il congegno tributario, idonei a influenzare il consumo, per ampliarlo nella direzione più propizia (e specie con la diffusione dei consumi di massa) al maggiore assorbimento della mano d’opera” (C. Mortati, Il lavoro nella Costituzione, op. cit.).
L’esigenza della programmazione, come abbiamo detto, è posta dall’ultimo comma dell’art. 41 Cost.
Si può dunque ribadire che vi è un chiaro nesso diretto fra l’art. 4 ed il secondo e terzo comma dell’art. 41 Cost. (oltre che fra l’art. 4 e le altre norme della Costituzione “economica” sopra citate). La funzione sociale dell’impresa (che è prevalentemente quella di rendere effettivo il diritto al lavoro) è strettamente connessa ad un razionale intervento pubblico che coordini l’intera attività economica.
Questo, in buona sostanza, è il lavoro nella Costituzione del 1948 (vi sarebbe ovviamente molto altro da aggiungere, ma per il momento è necessario soprassedere, rimandando ad ulteriori occasioni gli eventuali approfondimenti).
5) Conclusioni.
Ho premesso che il lavoro assunto a fondamento della Repubblica italiana e che aveva il compito di realizzare l’ideale, accolto dalla Costituzione, di trasformare in modo profondo i rapporti socio-economici, non si è mai concretizzato nella realtà, anche se ad esso ci si è avvicinati, quanto meno negli anni settanta-settanta del secolo scorso.
Oggi di quel lavoro si è persa ogni traccia.
Nel regime dei trattati UE il lavoro non è nemmeno un diritto, “deve essere guadagnato, anche attraverso il sacrificio“, come si era premurata di precisare, tra una lacrima e l’altra, fra una “scelta cinica” e l’altra, la signora Elsa Fornero in un’intervista da lei rilasciata nel 2012 al Wall Street Journal (http://www.ilfattoquotidiano.it/2012/06/27/la-vera-fornero-il-lavoro-non-e-un-diritto/276627/).
Salvo ovviamente che uno od una non sia figlio o figlia dell’ex ministra, nel qual caso il sacrificio è decisamente meno intenso e indubbiamente più produttivo (http://www.ilfattoquotidiano.it/2012/02/06/posto-fisso-monti-monotono-figlia-ministro-fornero/189284/ ).
Nel regime dei trattati il lavoro è solo merce e l’occupazione è un fattore dipendente “dal funzionamento del mercato interno” (art. 151 TFUE), basato su un’economia fortemente competitiva (art. 3, comma 3, TUE).
Il lavoro, in altri termini, quando c’è è precario e l’occupazione è sovente il suo contrario, cioè disoccupazione, a tassi assai elevati, essendo essa funzionale all’obiettivo principale della UE: il mantenimento della stabilità dei prezzi (art. 3, comma 3 TUE; art. 119, commi 2 e 3, art. 127 TFUE).
Lo abbiamo già visto nel precedente articolo (https://www.appelloalpopolo.it/?p=13343), per cui non serve ripetere concetti espressi ed ormai ampiamente risaputi.
Va soltanto ribadito che il progetto di profonda trasformazione sociale, espressamente affidato al lavoro dal testo costituzionale, è un ideale del tutto estraneo al diritto e al disegno socio-economico della UE, al quale la politica dell’ultimo trentennio ha incondizionatamente aderito, svendendo ad esso l’ignaro popolo italiano.
La nostra Costituzione è tuttavia ancora viva. Soprattutto nei suoi principi fondamentali, irrinunciabili ed immodificabili. Ad essa prestano giuramento di fedeltà coloro che assumono una carica istituzionale, tradendo il giuramento un istante dopo, nel momento stesso in cui non avversano o addirittura condividono l’ideologia, il diritto e le politiche della UE, del tutto inconciliabili con lo spirito informatore (e con i medesimi principi fondamentali) della nostra Costituzione.
Costoro, un bel giorno, saranno chiamati a rispondere (politicamente e, per alcuni aspetti, innanzi alla Giustizia) del loro tradimento.
Non sarà un altro primo maggio.
Sarà un nuovo 25 aprile.
Mario Giambelli (ARS Lombardia)
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