Simone Weil: Su questa terra non c'è altra forza che la forza
I vinti beneficiano spesso di una sentimentalità che a volte è persino ingiusta; ma soltanto i vinti provvisori. La sventura è un immenso prestigio quando è congiunto a quello della forza. La sventura dei deboli non è neppur degnata di attenzione; se non è addirittura repulsiva.
Quando i cristiani ebbero acquisito la solida convinzione che il Cristo, benché fosse stato crocifisso, sarebbe in seguito resuscitato e sarebbe tornato prossimamente in gloria per ricompensare i suoi e punire tutti gli altri, nessun tormento poté più spaventarli. Ma prima, quando il Cristo era solo una creatura purissima, non appena la sciagura si fu abbattuta su di lui, venne abbandonato. Chi maggiormente lo amava non poté trovare in cuore la forza di correre qualche rischio per lui. I tormenti sono superiori al coraggio quando, per affrontarli, non c’è lo stimolo di una rivincita. La rivincita non ha bisogno d’essere personale; un gesuita martirizzato in Cina è sostenuto dalla grandezza temporale della chiesa, benché personalmente non possa sperarne alcun aiuto.
Su questa terra non c’è altra forza che la forza. Questo potrebbe essere un assioma. In quanto alla forza che non è di questa terra, il contatto con essa si paga solo a prezzo di un transito attraverso qualcosa che somiglia alla morte. Su questa terra non c’è altra forza che la forza; ed è essa a comunicare forza ai sentimenti, compreso quello della compassione. Se ne potrebbero citare cento esempi. Perché dopo il 1918 i pacifisti si sono impietositi sulla Germania tanto più che sull’Austria?
La resistenza eroica dei vinti viene ammirata quando il passar del tempo ha portato una qualche rivincita; altrimenti, no. Non esiste compassione per quel che è totalmente distrutto. Chi ne prova per Gerico, Gaza, Tiro, Sidone, Cartagine, la Sicilia greca, il Perù precolombiano? Ma, ci si obietterà, come possiamo rimpiangere la scomparsa di cose delle quali, per così dire, non si sa nulla? Non ne sappiamo nulla perché sono scomparse. Chi le ha distrutte non ha creduto di dover conservare quelle culture. Nella storia, i vinti sfuggono all’attenzione. La storia è sede di un conflitto darwiniano anche più spietato di quello che governa la vita animale e vegetale. I vinti spariscono, non sono.
C’è gente che propone di abolire l’insegnamento della storia. E’ vero che bisognerebbe sopprimere l’abitudine assurda di impartire lezioni di storia ridotte ad un arido scheletro di date e di nomi e dedicare invece alla storia la medesima qualità di attenzione che si dedica alla letteratura. Ma sopprimere lo studio della storia sarebbe disastroso. Non c’è patria senza storia. Gli Stati Uniti ci insegnano abbastanza bene che cosa sia un popolo senza la dimensione del tempo. Altri propongono di insegnare la storia respingendo le guerre sullo sfondo. Sarebbe una menzogna. Oggi avvertiamo anche troppo, e certo fu così anche per il passato, che per i popoli non c’è nulla di più importante della guerra.
[La prima radice. Preludio ad una dichiarazione dei doveri verso l’essere umano, trad. it. di Franco Fortini, SE, 1990; ed. or. 1949]
Sull’argomento mi permetto di segnalare il breve saggio di Benedetto Croce dal titolo “La storiografia meramente politica e il pessimismo storico”.
http://ojs.uniroma1.it/index.php/quadernidellacritica/article/view/2046/2043
A presto