Capitalismo globalizzato e scuola
di MASSIMO BONTEMPELLI e FABIO BENTIVOGLIO
Com’era la scuola italiana nella fase capitalistica precedente quella attuale, diciamo 35 anni fa? Era una scuola corrosa da gravi difetti: una selettività operante di fatto rispetto alle provenienze sociali e culturali degli allievi piuttosto che alle loro capacità di apprendimento; una rigidità dei programmi di insegnamento riferita ai contenuti nozionistici invece che agli obiettivi culturali; una chiusura asfissiante a qualsiasi sollecitazione della società circostante; una non dichiarata ma effettiva sottovalutazione a tutti i livelli dell’importanza del sapere scientifico; una disciplina dei comportamenti tale da creare l’associazione psicologica tra studio e pena (che cominciava, però, ad essere travolta dalla ribellione studentesca del 1968).
Se confrontiamo la scuola del 1970 con la scuola attuale, verrebbe da giudicarle caratterizzate da difetti opposti: tanto la prima era selettiva, tanto quella di oggi manda avanti tutti; tanto quella di allora lasciava fuori dai suoi tetri portoni tutto ciò che viveva nella società, tanto quella di oggi è aperta ad ogni moda del tempo; e se pensiamo anche a cosa fossero i “programmi ministeriali” di allora, con i controlli sui registri per verificare se gli insegnanti svolgessero il programma, e a come oggi un’insegnante possa insegnare (o non insegnare) tutto ciò che vuole, purché compili le carte richiestegli con la fraseologia appropriata, potremmo davvero giudicare la due scuole minate da difetti opposti. Ma non è questa la realtà.
Per riassumere in formula la differenza tra la scuola di oggi e quella che con termine vago e impreciso è solitamente indicata come scuola tradizionale, si potrebbe dire che, se quella tradizionale era una scuola con gravi difetti, quella di oggi è un insieme di gravi difetti senza scuola. Se per scuola si intende l’istituzione deputata a trasmettere da una generazione all’altra saperi, valori e memoria di una società, allora, come argomenteremo in questo lavoro, in Italia e non solo, una scuola non c’è più.
Che cosa è successo per arrivare a non poter più neanche concepire l’idea che possa esistere una qualsiasi istituzione o attività sociale che non si organizzi sul modello e sul linguaggio dell’azienda al punto che anche nelle sagre paesane i giovani che servono a tavola salsicce e fagioli portano magliette con impressa sulla schiena la scritta “staff”? Qual è il percorso che ci ha fatto pervenire al trionfo completo di una concezione economicamente competitiva anziché spiritualmente solidale del’esistenza sociale, e all’accettazione generalizzata di un’idea privatistica della gestione di qualsiasi risorsa, tale da annullare la nozione stessa di bene comune? La ragione storica della fine della scuola nell’accezione moderna del termine passa attraverso la risposta a queste domande.
[Capitalismo globalizzato e scuola, ed. Indipendenza]
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